Siamo qui per chiedervi di dedicarci un po’ del vostro tempo perché vogliamo seguire il filo del ricordo e della testimonianza delle donne, nate nei primi decenni del ‘900, che noi abbiamo definito “semplici e straordinarie”.
Sono donne semplici perché hanno vissuto in famiglie povere e numerose, hanno lavorato tanto, in silenzio, hanno affrontato le difficoltà della guerra e l’impegno per la ricostruzione…
Sono donne straordinarie perché, pur non avendo potuto frequentare la scuola, hanno creduto nell’importanza dell’istruzione come mezzo di promozione sociale, hanno rivendicato per le loro figlie un ruolo diverso, hanno sostenuto chi lottava per la libertà, hanno tanto contribuito con il loro lavoro a garantire a noi un futuro migliore…
Sono le donne per le quali la vita si è fatta sentire e oggi vogliamo riconoscere quanto da loro abbiamo ricevuto.
A tutte diciamo grazie, con la promessa che le testimonianze, suddivise per comune di nascita o di residenza, verranno consegnate alle biblioteche del territorio perché ne sia conservata la memoria.
Nella
Provengo da una famiglia di operai, ero la figlia maggiore. Era il 1958, avevo 14 anni quando decisi di cercare lavoro altrove; nel mio paese erano poche le possibilità di lavorare. Andai a Milano a "servizio", ero in una casa con marito e moglie, rispettivamente di 86 e 72 anni. Mi sono trovata sin da subito molto male, la Signora mi faceva "patire" la fame, mangiavo tre pezzi di pane al giorno: uno al mattino, uno a mezzogiorno e uno alla sera. Avevano una casa molto grande da pulire, tappeti troppo pesanti da sollevare ogni mattina e da sbattere ogni mattina con il battipanni... non c'era mica l'aspirapolvere! Ogni mattina alle sette in punto, al suono del pendolo, dovevo bussare la porta della camera con due tocchi e servire loro il caffè; se solo bussavo quando il pendolo finiva di suonare venivo sgridata. Lavavo i pavimenti, i vetri, servivo il pranzo e la cena; della spesa se ne occupava la Signora. Il giovedì e la domenica dalle 14.30 alle 19.00 avevo il permesso di libera uscita; ne approfittavo per guardare le vetrine dei negozi in piazza Duomo. Potevo scegliere di guardare "il Carosello" al giovedì, ma dovevo rinunciare all'uscita del pomeriggio. Alle cinque di ogni pomeriggio marito e moglie andavano a prendere il tè in piazza Duomo. Tutte le stanze della casa, tranne il bagno e la cucina, venivano chiuse a chiave. Avevo scoperto che con la chiave del bagno potevo aprire la porta della sala, così chiamavo le mie amiche di nascosto. Venivo pagata 25.000 £ al mese: la maggior parte li portavo a casa per contribuire alle spese della mia famiglia; solo con poche lire acquistavo una cartolina che spedivo alla mia famiglia. Qui ho lavorato sette mesi. Quando sono partita avevo molta paura, ho sofferto tanto la solitudine, ma tornare a casa mi rendeva molto felice.
Loredana
Durante la guerra, al Casale, i tedeschi avevano scelto un campo e lo avevano fatto loro. In questo campo avevano messo le loro tende, le loro cucine, tutto..
Mentre gli uomini si nascondevano nei boschi perché altrimenti venivano mandati in guerra, le donne e i figli rimanevano in paese. Alle famiglie i tedeschi portavano via le mucche e a mia mamma ne avevano portata via una. In paese c'era la fontana pubblica dove c'erano anche gli abbeveratoi; i tedeschi ogni giorno mandavano le mucche a bere. Il primo giorno che l'avevano portata via però, una volta andata a bere, la nostra mucca non tornò al campo dei tedeschi, ma a casa. La mucca agì così per abitudine, perché anche noi la portavamo a bere lì e dopo la facevamo tornare nella nostra stalla. Non appena mia madre vide la mucca, molto contenta, la andò a legare. Non fece in tempo a farlo che arrivano subito i tedeschi, i quali molto arrabbiati, cominciarono ad urlare nella loro lingua che noi non capivamo per niente. Subito dopo misero mia madre contro il muro con la mitragliatrice puntata. A quella scena, io, mia sorella e mio fratello, i più piccoli, scoppiammo a piangere e subito dopo anche mia madre. Per fortuna in quel momento arrivò un polacco che fece ragionare i tedeschi e che in poche parole salvò mia madre. Quel polacco era intervenuto perché gli piaceva mia sorella, quindi ci conosceva e frequentava la nostra casa. Gli piaceva talmente tanto mia sorella che a volte mia madre quando lui la cercava, gli diceva che era nei campi, oppure la metteva a letto con il fazzoletto in testa dicendo che era la nonna. Faceva tutto questo perché mia sorella era giovane e mia madre aveva paura a lasciarla con un polacco.
Io ancora oggi mi ricordo benissimo tutta la scena: mia madre che piangeva e quel ragazzo polacco... lui me lo rivedo tutt'ora. Penso che non lo dimenticherò mai.
E dopo la guerra?
Subito dopo la fine della guerra, diciamo che eravamo tutti in una situazione critica. Proprio per questo le mie sorelle nel 1945/46 siamo partite per andare a lavorare come cameriere, io però non sono andata via subito perché ho finito di studiare. Mi ricordo che la mia classica giornata tipo cominciava con me che mi alzavo alle 5 perché prima di andare a scuola dovevo andare nei campi. Quindi mi alzavo mangiavo qualcosa, mi vestivo e poi via nei campi. Dopo, siccome dovevo andare a scuola a piedi e da Casale a Castelnovo ci mettevo circa un'ora e la scuola iniziava alle 8, venivo via dai campi facevo una corsa fino a casa, mi cambiavo e via che ripartivo. Per rientrare a casa me la facevo sempre tutta a piedi e a volte dovevo anche imbucare delle lettere o comprare il pane per la mia famiglia e per la gente del paese. Una volta arrivata a casa, mangiavo e poi via di nuovo nei campi, oppure a pascolare le pecore o a prendere l'acqua per la famiglia e per gli animali. Quando dovevo fare i compiti mi mettevo i cucina, dove c'era caldo e dove però c'era sempre gente, quindi la concentrazione era quella che era. Mi ricordo che una volta eravamo andati in Camorra a seminare le patate e dopo per andare a scuola mi sono fatta la strada tutta di corsa perché era venuto tardi. Per fortuna poi successivamente mia zia mia aveva regalato una bici e dopo andavo a scuola con quella. La mia giornata tipo cambiava solo d'inverno e quando dovevamo mietere perché quando c'era la neve nessuno andava nei campi e quando dovevamo andare a mietere alla Pietra, mi dovevo alzare alle tre. A quel tempo il lavoro era molto duro ed era essenziale produrre perché il grano, le castagne, il frumento e le patate erano il cibo prevalente insieme al pane. Inoltre a quei tempi i genitori davano molto più importanza al lavoro che alla scuola. Infatti una dimostrazione di questo è ad esempio quella volta che il prof mi aveva detto che il giorno dopo mi avrebbe interrogata e io, dato che non ero riuscita a studiare perché dovevo lavorare, non ero andata a scuola.
Elvina
Ero una partigiana insieme a mio fratello, io aiutavo a portare le informazioni agli altri partigiani sui movimenti dei tedeschi.
In un giorno freddo e nevoso stavo attraversando la Sparavalle con dentro al cappotto dei dati riguardanti i movimenti dei tedeschi e su che “strategia” utilizzare per eseguire la resistenza contro essi.
Queste informazioni vennero cucite da mia madre all'interno di questo grande cappotto in modo che,per un motivo o per un altro non li potessi perdere per strada.
Ero quasi arrivata a destinazione quando vidi un gruppo di soldati che mi fermarono.Io furba,mi tolsi immediatamente il cappotto e lo gettai nella neve, essi mi perquisirono da capo a piedi ma non fecero caso al mio cappotto.
Una volta finita la perquisizione mi rimisi il cappotto,feci ancora qualche metro di strada e trovai altri partigiani (che tra l'altro erano anche dei miei amici) che avevano assistito all'intera scena.
Ognuno di noi aveva un nome in codice, il mio era Diana.
Mariapia
Subito dopo essermi sposata mio marito è stato chiamato a lavorare nei campi di concentramento.
Ho dovuto crescere 3 figli da sola, erano tutti e tre piccoli quindi non potevo dare la responsabilità a uno di tenere i suoi fratelli, non sapevo nemmeno quando sarebbe arrivo mio marito e se sarebbe mai ritornato.
Le mie giornate erano molto impegnative, alcune volte arrivavo alla sera davvero molto stanca, perché oltre a tenere i miei figli dovevo lavorare nella stalla che aveva costruito mio marito, non volevo abbandonare la sua stalla, ma oltre a quello essa mi serviva per vivere e per mantenere i miei figli.
Mi dispiaceva vedere i miei bambini senza un punto di riferimento maschile, a volte avevo paura di non essere in grado di ricoprire quel ruolo, nonostante non fossimo l'unica famiglia in quella situazione, mi piangeva il cuore.
Vedere i miei figli con lo sguardo perso nel vuoto e pensare al loro papà senza poter dare a loro le giuste spiegazioni, mi dava tanta pena.
Avevo perso le speranze, quando una mattina di un giorno qualunque finalmente sentì bussare alla porta.
Improvvisamente tutta la tristezza e le paure svanirono quando lo vidi sorridere.
Sgranai gli occhi perché non potevo crederci, ma quando mi disse che era tornato per restare gli occhi si inondarono di lacrime.
L'incubo era finito.
Giuliana
"Verso la fine di maggio si preparava una cassetta con dentro pochi vestiti e oggetti personali, poi si prendeva il pagliericcio, e ci venivano a prendere con un camion che ci portava a Reggio Emilia, dopo prendevamo il treno e alla sera si arrivava a Vercelli dove si preparava il pagliericcio (un sacco riempito di paglia dove ci dormivi sopra). La mattina ti chiamava la cuoca alle 4.30, si mangiava e si andava nella risaia, tante volte si cantava mentre si lavorava e purtroppo, a volte la schiena cedeva e dovevi stare in ginocchio. Alle 10.00 c'era una piccola pausa e poi si ritornava a trapiantare il riso. A mezzogiorno si mangiava riso, patate e fagioli e alla sera ci si andava a lavare nei canali. Era un lavoro molto duro, ma lo facevo per me e per la mia famiglia, poiché ci pagavano. Ci sono stata solo due anni, la prima volta che ci andai ne avevo ventuno e non mi ero ancora sposata. Mi ricordo che la sera si facevano gli scherzi e si faceva amicizia poiché le camerate erano di circa 40 persone. Avevamo pochi vestiti e c'erano troppe zanzare, perciò ci davano il chinino per non prendere la malaria. A volte si vedevano le bisce d'acqua ed io facevo dei salti. Dovevi stare attenta a non rimanere indietro e seguire le altre, dovevi imparare da sola a trapiantare. Ci si stava solitamente per circa due mesi e mezzo e prima di venire a casa vuotavamo il pagliericcio, ci sono stata anche l'anno dopo, ero già sposata e avevo già mio figlio Leo, quell'anno avevano già messo le docce, dovevo lavorare perché volevo prendere una macchina da cucire, mi piaceva molto lavorare la maglia. Ci sono stata solo per due anni ma molta gente ha lavorato per più tempo nelle risaie. Era una lavoro troppo duro, ma lo facevi per vivere".
Belle storie e belle donne, grazie.
(Monja)
Molto belle queste testimonianze che mi riportano indietro nel tempo e, leggendole, mi pare di ascoltare la voce di ognuna di voi che racconta la propria particolare esperienza che non deve andare perduta. Nella: quanti ricordi simili al tuo, a servizio da una padrona – signora non era certo – che ti faceva patire la fame, sgridava alla minima mancanza e chiudeva tutte le porte a chiave quando andava a spasso col marito. Loredana: guerra e dopo guerra al Casale, i tedeschi che portavano via le mucche, gli uomini nascosti nei boschi e tutto il carico della famiglia sulle spalle delle donne. Elvina che faceva la staffetta partigiana, lavoro molto rischioso coi tedeschi che controllavano le strade. Salva per la sua presenza di spirito. Mariapia che ha allevato tre figli da sola, mentre il marito era in campo di concentramento, da cui un bel giorno ritornò. Giuliana, partita per lavorare in risaia, come tante donne dei nostri paesi che dopo la guerra andavano a raggranellare qualche soldo per aiutare la famiglia. Vita durissima. Mi sembrano esempi molto belli per festeggiare la ricorrenza dell’8 marzo, vi ringrazio tutte, assieme alla signora Giovanna Caroli che ha raccolto le vostre testimonianze.
(Paola Agostini)