Riceviamo e pubblichiamo.
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La proposta presentata lunedì 23 febbraio a Bibbiano per salvare il Parmigiano Reggiano è molto chiara: chiudere tanti caseifici che arrivano solo alla forma di formaggio e sono come le cantine che vendevano il vino sfuso in cisterna. Lasciarne solo alcuni che mandano le forme al grande impianto industriale dove si preparano le piccole porzioni da presentare nello scaffale della Grande Distribuzione con la marca aziendale molto pubblicizzata. Pochi grammi di formaggio grattugiato nella scatoletta di plastica, pochi grammi senza crosta coperti d’alluminio, pochi nell’impasto fuso e diluito con la panna nel vasetto. L’unica strada per stare sul mercato sarebbe passare dalla vendita della forma (una commodity) alle piccole dosi di prodotto da fornire al consumatore. Tanto meno formaggio, tanto più vantaggio. L’iniziativa di Bibbiano è stata voluta dalla v. presidente della Commissione Agricoltura del Senato, l’esperto di finanza ha illustrato quel progetto chiamato “Impresa Parmigiano Reggiano”, l’ha benedetto l’Assessore all’Agricoltura della Regione dicendo che “ormai la punta di formaggio si compra solo da noi” e il Ministro dell’Agricoltura ha concluso che se arriva un progetto ci sono già i soldi per finanziarlo.
Però contiene tre pesanti contraddizioni.
La prima. Alcuni esperti di formaggio e di mercato hanno spiegato che è meglio seguire la strada opposta. Il consumo di Parmigiano Reggiano è aumentato mentre sono diminuiti i consumi di latte e dei latticini impacchettati. I caseifici vanno a vendere il formaggio e trovano tanti acquirenti (diversi dalla Grande Distribuzione) interessati a ricevere la fornitura diretta di forme e confezioni del chilo o mezzo chilo che abbiano la crosta, si cerca la qualità, la provenienza, il latte da erba e non da farina degli OGM, ecc. Il consumatore apprezza le differenze di qualità, come per il vino.
La seconda. Dopo il convegno tutti si sono precipitati a consumare l’ottimo formaggio delle forme aperte dopo due anni di stagionatura e il bicchiere di vino delle bottiglie appena stappate. Dunque, il progetto “Impresa Parmigiano reggiano” dimentica che le forme hanno la stessa funzione delle bottiglie e si possono presentare meglio come fanno molti caseifici che imprimono a fuoco la loro etichetta sui due piatti. Le trasformazioni per arrivare al formaggio richiedono anni e accumulano i pregi di altri due prodotti finiti. L’erba porta principi preziosi per la salute ed è l’alimento completo per il ruminante che secerne il latte, l’alimento completo per il neonato. Nel secondo anno la forma di Parmigiano Reggiano è capace di trasportare nel mondo gli alimenti fondamentali per l’uomo dentro a un contenitore che non costa ed è persino commestibile,. Nel terzo anno il formaggio nella forma è un cibo da degustare, assimilabile da tutti. Se tutto il formaggio venisse venduto in piccole dosi confezionate e il vino in bicchieri di plastica, avremmo diminuito i pregi delle nostre produzioni alimentari, aumentato i costi e un mare di contenitori da smaltire.
La terza contraddizione. I chicchi di grano o la farina non si possono mangiare prima di diventare pane e sono delle commodity cioè materie prime. Invece, le forme di Parmigiano Reggiano portano alla tavola un alimento semplice e prezioso, rifinito e raffinato e non si possono chiamare commodity. Con ogni probabilità la ricerca di finanziamenti pubblici stimola la tentazione del colpo grosso, far nascere la grande industria che sostituisce il sistema dei caseifici artigianali e guasta le forme per tenersi il valore aggiunto. Però, i produttori di latte non vogliono morire e dicono che la strada giusta è quella opposta, tornare all’erba e ridurre il mangime, presentare forme e punte di formaggio ad acquirenti nuovi, rivedere il disciplinare per ridurre il grasso, impedire che la marca aziendale si prenda l’immagine della DOP. Per questa strada il sistema dei caseifici continua a difendere il territorio, crea occupazione ed evita le crisi di mercato.
A questo punto come si risolve la questione? Finanziando il grosso e i piccoli per dare più forza all’assassino che alle vittime?
(Enrico Bussi, associazione Rurali reggiani)
Condivido le sue perplessità sulle soluzioni ipotizzate; a mio modo di vedere si rischia di incrementare l’anonimato più che il fatturato, poi magari mi sbaglio. Sarebbe utile un confronto, onesto ma spietato, sulla nutrizione animale tradizionale e quella basata su fieno. Sui mangimi si apre un mondo di problematiche importanti, non ultima la provenienza delle materie prime utilizzate nella produzione, ad esempio, dei pellet. Cordialità.
(Sincero Bresciani)
Un’altra problematica riguarda, oltre l’alimentazione, il tipo di vacche allevate. Per fare qualità ci vogliono animali che trasformano il cibo che assumono in latte di pregio con determinate caratteristiche chimiche. Negli anni si è perso questo obiettivo puntando sulla quantità e per diminuire i costi di produzione si è passati a tipi di alimentazioni non tradizionali (vedi unifeed). Se si vuole avere un prodotto di prima fascia bisogna crearlo, non immaginare che dietro un marchio ci sia sempre garanzia di qualità! Si ritorni ad allevare vacche che garantiscano queste caratteristiche (brune pezzate rosse e reggiane) e si alimentino con alimentazione tradizionale e di qualità. Grazie e speriamo in bene…
(Gianni)
Ottimo contributo il suo, Gianni. Anche se la genetica della Frisona mi risulta sia migliore. Comunque, tralasciando le varie caseine, forse stiamo andando fuori tema. Sarebbe bene parlarne tutti insieme, e soprattutto col parere autorevole degli imprenditori agricoli. A Casina abbiamo una cornice di prim’ordine fatta apposta per queste discussioni. Cordialità.
(Sincero Bresciani)