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Carnevale in Val Tassobbio

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Maschere

Divertente si, e anche trasgressivo per quel poco che ci poteva essere di trasgressivo in un contesto sociale che offriva solo stenti e privazioni. Infatti a scuola, ci insegnavano una strofetta con poche pretese:

 Senti un po’, cara mammina,

or siam giunti a carnevale.

A goder qualcosettina

non c’è poi niente di male. 

E poi la poesiola passava al sodo. E anche questo rispecchiava la forma mentis di un modo di vivere e di pensare:

 

Lascio i balli, i suoni, il canto,

i garzoni e le donzelle.

Io desidero soltanto

un bel piatto di frittelle.

Di fatto in questo consisteva il carnevale dei ragazzi una settantina di anni fa. Qui da noi, in Val Tassobbio, non c’erano strade, non c’era la luce e neppure il telefono, e non c’era l’acqua in casa. Oggi sembra impossibile, ma era così. E allora ci si inventava qualcosa di diverso, magari condito da scherzi per aumentare il divertimento, e poi, a mezzanotte a letto senza fiatare.

Anche se carnevale, come periodo, inizia subito dopo l’Epifania, ci si portava all’ultima settimana prima della Quaresima per inventare qualcosa. In pratica il carnevale di un tempo (ma anche ora) si identificava col Giovedì Grasso e col Martedì grasso.

Poche le usanze che c’erano da noi. Ma qualcuna era interessante. E dispiace che all’epoca non ci fosse chi ne capiva l’importanza, ne trascriveva e conservava i testi che oggi sarebbero utili per capire l’ambiente del tempo. Non so se la cosi dette “Maschere” fossero un prodotto autoctono. Più no che si. Considerando la forma letteraria, lo stile e il contenuto si potrebbero fare risalire ai primordi della società, in ambienti greci ove si fondevano religione, morale, e voglia di rivalsa. Alludo alle feste ove al centro dell’attenzione c’era la riconciliazione con la divinità, poi, si passava a intrattenere il popolo. Il quale, privo di istruzione, non trovava di meglio che divertirsi con le disavventure della vita, quali i tradimenti, o il comportamento sprovveduto delle persone.

Ritornando a noi, fino agli anni cinquanta del secolo scorso, c’era la consuetudine di impostare una rappresentazione ambulante con un minimo di personaggi, che erano di solito: lui, lei, il terzo incomodo, poi la forza pubblica o il giudice per far rientrare il fatto all’interno della legalità. Questa rappresentazione era sparita durante la seconda guerra. Poi fu ripresa grazie all’inventiva di Enrico Rosati, affiancato da Dino Giuliani per i testi, poi da alcune persone del luogo disposte a mascherarsi e fare scena muta. Era la compagnia che raggiungeva le case, una per una. Non faceva pagare il biglietto ma gradiva ricevere in cambio qualcosa di commestibile da consumare poi in compagnia. Questo nel pomeriggio, alla luce del giorno.

Nonostante la voglia di divertirsi c’era sempre un occhio puntato alla mancanza di soldini liquidi, richiamato dall’adagio:

Carnevâl l’è un bûn cumpàgn

perché ‘l vên ‘na volta a l’àn,

ché s’al gnìsa tú-c i mêš

al srê l’arvîna dal paêš.

[Carnevale è un buon amicone perché capita solo una volta all’anno, perché se capitasse ogni mese sarebbe la rovina del paese].

La sera del Martedì grasso ci si trovava presso una famiglia che disponeva di una sala discretamente larga e, al suono del grammofono a molla e dei pochi settantotto giri disponibili, si improvvisava una festa da ballo. Di feste ve ne erano anche organizzate meglio, con complessini, ma raggiungerli non era possibile a tutti. E mentre il grammofono emetteva suoni più o meno orecchiabili, nella cucina qualche mamma provvedeva a cucinare “Chersenta”, vale a dire gnocco fritto. Ed era anche una gara a chi la faceva migliore. Poi, allo scoccare della mezzanotte, tutti a casa. Iniziava la Quaresima e, a quei tempi, non si scherzava:

 A Carnevâl a s’ bàla e a sì cânta,

ma in Quarêšma a s’ fa la vìta sânta!

[A carnevale si balla e si canta, ma in quaresima si fa vita santa].