Sant’Antonio abate arriva dall’antichità dei santi del deserto e gli si chiede la protezione degli animali domestici, quelli utili. L’allevamento di pecore, vacche, maiali, ecc. fa parte delle prime manifestazioni della civiltà, ha consentito alla popolazione montanara di esistere e oggi le sue prospettive poggiano sulla permanenza di una base di aziende famigliari capaci di allevare. Le uniche in grado di durare grazie alle competenze trasmesse da nonni a nipoti assieme alle risorse accumulate da uomini e donne che tirano su anche i figli. Senza di loro tutto il resto frana lentamente, in modo inesorabile e il mondo lo dimostra. Nell’Appennino piacentino, bolognese o dall’altra parte del crinale si sono svuotati i paesi dopo le campagne, anche la nostra montagna ha rinunciato a quasi tutte le risorse della terra, però usa ancora, in parte, l’erba per il Parmigiano Reggiano. Adesso è a rischio anche la filiera foraggio-formaggio e la crisi può avere effetti mortali per tutti dato che la fine di un’azienda famigliare non è sostituibile con il trasferimento da altre attività: si diventa allevatori di vacche da formaggio solo se si cresce in famiglia, oggi più di una volta per effetto della dimensione raggiunta da mezzi tecnici e saperi necessari. Un piccolo miracolo chiesto a Sant’Antonio è quello di radunare gli allevatori dell’Appennino allo scopo di discutere (con tecnici, associazioni, enti) le soluzioni da dare ai problemi acuti.
Il primo incontro al Parco Tegge di Felina sabato 17 gennaio inizia con la celebrazione della S.Messa dedicata al patrono dell’animale in stalla e si parla dei fattori salutistici che l’erba dona all’erbivoro, al latte, al burro, al formaggio, al maiale maturo allevato col siero per dare i salumi tradizionali che portano colesterolo buono. Gli esperti spiegano le qualità particolari del formaggio dell’Appennino reggiano apprezzate dal mercato, tanto che qualcuno se ne approfitta e per questa ragione si sono formati dei flussi all’incontrario, dal basso all’alto, con i carichi di foraggio, mangime, latte che viaggiano dalle pianure alla montagna. per prenderne l’immagine Gli strumenti di difesa sono alla portata di tutti quelli che continuano a coltivare l’Appennino rasando i prati per mantenere un flusso corretto e salutare dall’erba al latte. Il caseificio può valorizzare meglio il formaggio se lo vende stagionato e confezionato, marchiando il piatto della forma come fanno alcuni caseifici di pianura, per evitare che nel pacchetto s’infili il formaggio diverso come avviene nello stabilimento da cui escono le piccole porzioni senza crosta e il grattugiato mescolando tanti formaggi. Con la standardizzazione industriale la montagna perde la sua identità ed è fregata perché non può pretendere che il consumatore possa riconoscere e premiare le differenze.
Il secondo incontro di sabato 24 febbraio è dedicato a come valorizzare di più il formaggio dell’Appennino reggiano. Per un anno le famiglie degli allevatori sostengono i costi del campo, della stalla, del caseificio, e fanno fatica a raddoppiare per tenere il formaggio sino a 24 mesi. Il marchio della DOP si ottiene dopo il primo anno, c’è bisogno di incassare e si vende allo stagionatore che ovviamente in seguito valorizza la qualità di montagna a beneficio suo. Per aumentare la stagionatura la famiglia riesce a sacrificarsi risparmiando un poco alla volta e sarebbe utile un aiuto pubblico adeguato, però deve schivare la deviazione che porta nel fosso come il grande impianto costoso fallito tante volte. Invece costa poco mettersi d’accordo a stampare sulla confezione, oltre al marchio del casello, un’immagine comune dell’Appennino reggiano che valorizza il prodotto e fa da richiamo al territorio. Si discuterà con la cooperazione su questa iniziativa semplice per ricavare vantaggi e su come prepararsi in tempo utile per l’EXPO.
Sabato 7 febbraio p.v.si parla degli aiuti previsti dalla Regione e dal Ministero per le famiglie di allevatori della montagna e il 14 febbraio di come migliorare i servizi pubblici. Sono due argomenti ricchi e ci torneremo sopra per richiamare l’attenzione di Sant’Antonio sulle calamità moderne.
(Enrico Bussi, associazione "Rurali reggiani")