Riceviamo e pubblichiamo.
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Conosco una stimabile e benvoluta coppia di mezza età, i cui figli, ormai grandi, sono per me annoverabili tra i bravi ragazzi, sempre gentili e corretti, e per quanto ne so diligenti e scrupolosi sul lavoro, e vi sarebbero dunque buoni e molteplici motivi perché i loro genitori ne siano più che contenti, se non orgogliosi, e credo che in fondo sia effettivamente così.
Succede, purtuttavia, che la loro madre si dispiaccia talvolta di averli cresciuti nella “bambagia”, assecondandoli troppo, e senza responsabilizzarli nel modo dovuto, e si chieda altresì dove può aver sbagliato per non essere riuscita a trasmettere loro il convinto e puntuale rispetto di quelle usanze e di quei valori, anche molto semplici, che vigevano nella sua famiglia d’origine.
Vedi, ad esempio, il ritrovarsi al pranzo della domenica, trascorrere possibilmente uniti le principali ricorrenze dell’anno, non trascurare le “feste comandate”, quali si usava chiamarle, o spendere con giusta oculatezza e guardare anche al risparmio, pur lungi dalla tirchieria, così come l’avere un po’ di attaccamento e cura per le cose avute in eredità. Sono tutti “pezzettini” che presi singolarmente possono apparire irrilevanti, e superati, ma che messi insieme offrono un buon aiuto alla “tenuta” della famiglia (per chi ovviamente crede nella sua funzione).
Detta signora, nel cercare una spiegazione a quel suo presunto “insuccesso” educativo - cui non riesce ad assuefarsi, sembrandole anche di aver tradito gli insegnamenti dei suoi “vecchi”, ai quali era molto legata - tende a “colpevolizzarsi”, per non aver svolto al meglio, in una col marito, il proprio compito genitoriale, in maniera cioè sufficientemente ferma e decisa, e all’occorrenza intransigente.
Può esservi certamente del vero in questa sua interpretazione, ma io credo che il fenomeno, se così lo si può chiamare dal momento che il caso in questione non mi pare un fatto isolato, abbia a monte cause e motivazioni più ampie e generali, che oltrepassano spesso i confini famigliari, pur essendo indubbio che le nostre famiglie hanno subito in questi decenni profonde trasformazioni, sia nel loro assetto che nei rapporti interni.
Un tempo la figura paterna aveva un ruolo preciso e riconosciuto, per non dire preminente, che già di per sé conferiva autorevolezza, e il farsi valere coi figli risultava quindi molto più semplice e naturale, così come il saper dire loro dei “no” quando ritenuto opportuno, e non era altresì infrequente che noi nipoti dessimo del “voi” ai nonni, e talvolta anche agli zii, in segno di deferenza ma anche a significare che difficilmente li avremmo contestati, e dunque la “forma era allora anche sostanza”.
D'altronde, soltanto con un tale “ordine” potevano probabilmente reggersi nuclei famigliari spesso alquanto numerosi, e per noi ragazzi era del resto altrettanto normale rivolgersi con il “lei”, e anche con molto rispetto, ai propri insegnanti, sin dalle prime classi, per portare un esempio tra i tanti di come esistesse una sostanziale simmetria e specularità tra le regole che vigevano dentro e fuori la famiglia, il che non poteva che agevolare il compito formativo dei genitori, atteso che i “dettami” da loro rivolti ai figli trovavano conferma e continuità fuori dalle mura di casa.
In buona sostanza, il modello di società allora operante lambiva la famiglia, e viceversa, in una sorta di reciproca e fruttuosa sinergia. Poi arrivò l’epoca del “vietato vietare”, in cui vennero messe in discussione molte “autorità”, e anche il ruolo genitoriale non ne uscì indenne, e ci si avviò verso una società destrutturata e “liquida”, come si usa chiamarla, dove tutto si può annacquare e diluire, fino a disperdersi, compresi i valori e i principi di un tempo, cui anche le famiglie, e gli stessi giovani, potevano ispirarsi, e anche “aggrapparsi”.
C’è chi vede nel benessere la principale origine e causa dell’odierno stato di cose, ma a me sembra una chiave di lettura piuttosto semplicistica - anche perché ricordo compagni di scuola appartenenti a ceti agiati, nella cui casa si respirava un’aria di regole, fermezza e disciplina - e propendo invece per una pluralità e concomitanza di fattori, via via succedutisi negli anni, sui quali tuttavia le opinioni possono divergere, anche per ragioni ideologiche, e l’entrarvi nel merito ci porterebbe inutilmente lontano, ed essere semmai fonte di polemiche.
Peraltro ogni analisi e teoria in materia lascerebbe, a questo punto, il “tempo che trova”, mentre invece, senza scomodare l’una o l’altra tesi, basterebbe forse che più d’uno si interrogasse alla stregua della signora di cui dicevo, perché potrebbe rivelarsi un buon primo passo verso il mettere “in salvo” quelle consuetudini e tradizioni che hanno proficuamente accompagnato tante generazioni, e che dovrebbero esserci talmente care da non volerle perdere, e da farle anzi diventare parte irrinunciabile della nostra identità.
(P.B.)
Scomodo il tema, ottimo lo svolgimento. Chi lo legge mediti e lanci il sasso solo se non ha peccato. Visti i risultati, forse sarebbe ora di cambiare registro e ripristinare, in ogni luogo, i valori e le regole cancellati “vietando di vietare”.
(Umberto Casoli)
Sembra un problema del tutto contemporaneo. In realtà se lo ponevano circa duemila anni fa i latini, quando attraverso le parole di Cicerone tramandarono il famoso “o tempora o mores“. Più o meno lo stesso accadeva a Roma. Eh, già, è un bel problema!
(Commento firmato)
Il personaggio di un film, “Amistad”, così recita: “I miei avi sono la ragione per cui io sono qui“. Onorare il nome che si porta, far sì che chi lo ha tramandato prima di noi non ci consideri indegni, il senso di gratitudine per quanto si è ricevuto. Tutti sentimenti che nella nostra famiglia si sono respirati fin da bambini, non inculcati a parole ma che sono stati trasmessi con l’esempio quotidiano e con il ricordo per quanti ci hanno condotto ad essere ciò che siamo.
(Cristina Casoli)
Molto interessante questo “excursus” del signor “P.B.” su usi e costumi delle nuove generazioni, rispetto a quelle del secolo scorso. Il punto centrale credo sia proprio quello della mancanza di sinergia tra famiglia e società civile, che una volta era molto marcata. In una società dove è “vietato vietare” diventa difficile anche per genitori, per così dire tradizionalisti, portare avanti un certo tipo di educazione: ci si sente, insomma, un po’ soli contro il mondo. Sono altresì convinto che non si semini sempre invano e, al di là di tanti atteggiamenti superficiali, vi siano molti giovani che, quando serve veramente, dimostrano tutto il loro attaccamento a quegli stessi valori, apparentemente dissimulati per essere alla moda, ma ben presenti nel loro Dna.
(Ivano Pioppi)
Sarebbe decisamente confortante se, come si dice convinto l’ultimo commentatore, vi fossero molti giovani che “albergano” i valori tradizionali, pur se solitamente dissimulati, e sono in grado di manifestarli quando serve veramente. Dovremmo però aiutarli ad esprimerli, pian piano, anche nella normalità e nel quotidiano, visto che le nuove generazioni rappresentano il futuro e sono pertanto loro che possono assicurarne la continuità. Il compito di aiutarli in tal senso spetterebbe soprattutto agli adulti attraverso l’esempio condotto in maniera assidua, ma sobria, senza accentuazioni né esasperazioni, così che i giovani possano avere l’idea e la sensazione di trovarsi davanti a comportamenti del tutto consueti e naturali (come dovrebbe effettivamente essere, almeno a mio modesto avviso).
(P.B.)
Una volta c’erano le corti con le stalle e la gente viveva e si nutriva con quello che riusciva a raccogliere dai frutti della terra. Ora attendono che lo Stato mandi tutto giù dal cielo. Cominciate a zappare e tornate a casa sudati. C’è troppa gente che lavora col cervello ma non produce niente. Andate a lavorare a produrre. Lo so che non vi piace perché si fa fatica. Ai ragazzi bisogna insegnare che per mangiare bisogna lavorare. I telefonini e i computer non si mangiano.
(Mauro Bonesi)
Sagge e chiare parole, senza fronzoli, senza sommi poeti. Quello il nocciolo, a parer mio. La tecnologia si sta appropriando delle loro menti, il virtuale li adesca, li prende, li manipola. Giusto equilibrio, difficilmente raggiungibile tra teoria e pratica. Con due dita pensano di avere sotto controllo il mondo intero, ma chi gli inculca che con quelle due dita non riempiono la dispensa, non fanno arrivare acqua potabile nei tubi, corrente elettrica nelle lampadine? Troppi specialisti, la vita, quella vera, comprende la sopravvivenza, a loro sconosciuta. A questo stato avanzato della situazione non saprei proprio cosa pensare, pensiamo in troppi, viviamo in pochi. Ribadisco, il tutto va avanti con concretezza, fatica, impegno, forse se tutti sudassimo un po’ di più anche i nostri cervelli, così fuori onda, si metterebbero in riga.
(Corrado)
Sembra in effetti essersi spezzato il nostro legame con la terra, che un tempo quasi tutti avvertivamo, anche chi non era agricoltore, forse perché molti di noi provenivano da famiglie contadine e fors’anche perché si avvertiva, anche in modo inconscio, la sua grande importanza per la vita dell’uomo. Per fare un esempio, quando scoppiava un temporale o cadeva la grandine, ci si chiedeva subito che effetti avrebbe avuto sui raccolti. Il passato è passato e non torna più, come dice uno dei tanti detti popolari, ma se riscoprissimo un pochino di quel sentimento di allora aumenterebbe forse il nostro rispetto per la terra e potremmo forse vedere i cigli delle nostre strade e i campi o boschi limitrofi meno imbrattati da carte, lattine e materiali vari (uno spettacolo poco edificante e poco educativo per i nostri adolescenti, specie se si dice che dobbiamo dare l’esempio partendo anche dalle piccole cose).
(P.B.)