Sono vecchiotto, lo so. Ma questo mi ha permesso di vedere all’opera per l’ultima volta al Cêrsi, usate per sgranare le spighe di grano, di orzo, di scandella. Esisteva già la trebbiatrice allora, e quelle dormivano appese ad un rampino sotto il portico. Ma quell’anno (1944) il macchinista Ildebrando, (Brando per la gente), non se la sentiva di fare la campagna della battitura. C’erano in giro i Crucchi e i Repubblichini che non ispiravano fiducia. Avevamo visto il fumo alzarsi sopra Villa e Toano. E, più vicino a casa, abbiamo osservato un traballante pipistrello meccanico, chiamato Checca, lanciare taniche di benzina su Barazzone mentre da terra i nazisti appiccavano il fuoco al villaggio.
Però la Panâra reclamava. Una domenica pomeriggio nonno Lepido, appoggiato alla finestra in atteggiamento di profonda riflessione, ripercorse a ritroso alcuni lustri, fino a prima che al batdûr (la trebbiatrice) esistesse. Il mattino dopo ci fece recuperare una carriolata di sterco fresco di mucca, lo diluì per bene dentro un capiente mastello di legno, poi lo stese sull’aia con una grossa scopa composta da frasche di castagno. L’aia era stata ripulita per bene qualche giorno prima: niente polvere, niente sassolini o foglie secche, e la gramigna zappettata in modo che non rispuntasse per un po’ di tempo. Solo lui sapeva tirare e distribuire quella pellicola maleodorante. Ma a mezzogiorno l’aia sembrava una piazzetta asfaltata, e l'odore era sparito. E guai a corrervi sopra, anche scalzi. C’era il rischio di rompere quella crosta. Meglio non incorrere nelle conseguenze in caso di disobbedienza!
Sull’aia vennero sistemate le mannelle del cereale da battere, (quella volta era grano per il pane), con le spighe convergenti al centro e la paglia all’esterno. Dopo un poco di esposizione al sole il nonno saggiò con la mano lo stato di aridità delle spighe. Tutte dovevano essere ben asciutte e pronte alla battitura per evitare che i grani, poi, ammuffissero. Forse ripensava al detto antico, improponibile in quella circostanza: Se t’ vö fâr tânta farîna – mèd la spîga quand la strîna!
La battitura con i correggiati, per dirla alla toscana, o cun al cêrsi nel nostro dialetto, era un rito o una danza primitiva? Forse era la danza contro la fame e la miseria. Il bastone battente dei correggiati roteava sopra la testa di chi lo manovrava, sfiorando i capelli per poi abbattersi sullo strato di spighe, rimbalzare, e riprendere quota, alternandosi ritmicamente con gli altri battitori, senza una sfasatura, con una cadenza che diventava la musica di sottofondo. La capacità di trovare la cadenza armonica era necessaria per guadagnare tempo, ma anche per alleggerire un tantino lo sforzo. Come succede con le canzoni per marciare: in apparenza affaticano, ma poi alleviano la stanchezza.
Quando le spighe risultarono tutte spoglie venne asportata la paglia e il grano riunito in un mucchio e coperto con un vecchio lenzuolo. La mattina successiva, presto presto, prima che il sole facesse evaporare la rugiada, con il palotto da neve il nonno cominciò a lanciare il grano in un preciso angolo dell’aia, sopra un telo steso a terra. Il motivo me lo ha spiegato in seguito: il grano deve essere lanciato a spài, cioè a ventaglio, e contro il senso della corrente d’aria. In questo modo i grani, più pesanti, vanno a cadere nel punto scelto per poterli poi raccogliere, mentre la pula (al lùch), più leggera e frenata dall’aria, va a depositarsi da un’altra parte.
Brando arrivò poi con la sua taccata (trebbiatrice, motore, carrello coi fusti di nafta e le attrezzature per posizionare al batdûr), il tutto a trazione animale, quindi da andare a rimorchiare con buoi e mucche in un altro borgo e trainarlo fino da noi. Arrivò, ma ad Agosto iniziato, con un mese di ritardo. E i covoni, lasciati a piccole biche nei campi per evitare che i tedeschi li bruciassero, cominciavano a germogliare a causa di piogge abbondanti. Il raccolto fu quello che fu, scarso, avariato e inutilizzabile.
Ricordo bene quell’anno, dalle nostre parti io non ricordo di avere mai vista un’annata cosi ricca di grano. Avevamo mietuto il nostro grano, tra uno sfollamento e un altro, perchè i Tognetti venivano spesso a farci visita ma mia nonna, con la paura che aveva, difficilmente ci faceva trovare a casa; prima che arrivassero, dovevamo partire, sfollare tutti e ci portava al di là del Dolo, in un posto chiamato la Mattina, nel comune di Frassinoro, per poi riportarci a casa a rastrellamento finito. Scappavamo tutti, tranne mio nonno, che, forte della sua fede, diceva: “Se devo morire preferisco sia nel mio letto”; ed è rimasto sempre a casa. A settembre arrivò la trebbiatrice, Ranzan, era il soprannome del padrone della macchina da battere, trainata da un paio di buoi, a timone e due paia di mucche a gerla, perchè c’erano delle salite molto ripide, per arrivare alla nostra aia, si portava prima l’imballatrice, un mostro di ferro pesantissimo; poi seguiva la trebbiatrice ed infine il motore, che andava a vapore, con una caldaia enorme, sotto la quale bisognava iniziare a fare fuoco due o tre ore prima, per portarla in pressione e cominciare a farlo girare. Sui mucchi di covoni, o Mede, c’era già il grano nato alto più di due spanna, ma per fortuna, data la grande annata, battemmo più grano di tutti gli altri anni. Poi sorse il problema di nasconderlo, tutto quel grano, perchè altrimenti ce lo avrebbero requisito i partigiani, più ancora che i tedeschi; avevamo un cantinino, di fianco alla cantina, e mio nonno pensò bene di mettere due scrigni lì dentro e di mettervi tutto il grano che ci stava, in mezzo al grano mise anche due prosciutti e diversi formaggi stagionati, per poterli salvare. Poi murò la porta, in modo che non si conosceva niente dell’entrata che vi era in precedenza. Così, a guerra finita, abbiamo potuto sfamarci noi ed anche altre famiglie di nostri parenti. Bei ricordi di un tempo andato, ma sempre presente nella mia mente, come fosse ieri.
(Beppe)
E’ il tuo racconto più “antico”? Ho dei buoni anni anche io ma ricordo solo la trebbiatrice rossa che lavorava in mezzo ad un nuvolo di polvere che pizzicava la pelle. Bravo come sempre.
(Ilde Rosati)