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Nonna Aurelia, una donna forte!

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Foto 18 - Nello e Famiglia - 1958

Aurelia intorno al 1955, col figlio Nello,

la nuora Elma, i nipoti Berto e Marisa

Dicono che l’apparenza inganna. Lo credo anch'io. Mia nonna era gracilina, non tanto alta, perseguitata dalle artriti (al döj) che, oltre a deformarle le mani, l’avevano ridotta pelle e ossa e costretta a stare in casa tutto il giorno e tutti i santi giorni. Raramente, e solo se c’era il sole, andava a scaldarsi davanti a casa, approfittandone anche per dare un’occhiata ai suoi capitali, le galline. La voce era delicata, un sussurro. I lunghi capelli ormai bianchi sparivano sotto un fazzolettone grigio annodato dietro la nuca.

 Era nata a Casalecchio nel 1888, e, in gioventù, anche lei era andata a servizio a Genova e si era fatta benvolere perché la corrispondenza con quella famiglia continuò per oltre mezzo secolo. Nel 1913 sposò Lepido Rabotti e si trasferì a Castellaro. E qui morì nel 1964. Foto 5 - Aurelia Rabotti di Enrico - 1963

Nella mia infanzia ho avuto tre momenti per rendermi conto di quanto fosse perspicace nel capire gli eventi e nel controllarli, anche se non aveva potuto frequentare la scuola.

 L’8 Settembre del 1943, (era un lunedì), gli uomini che non era sotto le armi si erano recati al mercato a Castelnovo. Al ritorno erano euforici, qualcuno addirittura provava a cantar, nonostante  non avessero ecceduto col toscano. Una radio gracidante aveva annunciato che c’era stato l’armistizio e che la guerra era finita. Appresa la notizia nonna si rabbuiò. Il che lasciò perplessi i vicini e anche il nonno. Lui sperava che i quattro figli, tutti sotto le armi, potessero rientrare sani e salvi. Dopo breve riflessione nonna si rivolse ai familiari: “Non mi fido! Diciamo il rosario”! Cosa l’avesse indotta a comportarsi così non lo abbiamo mai saputo, ma il giorno dopo i tedeschi avevano occupata tutta l’Italia e fatto prigionieri i nostri soldati.

 Il 3 Aprile del ‘44  io e il mio amico Angelo stavamo andando a scuola. Giunti in vista di Maiola, dove era la scuola, scorgemmo, proprio sulla strada che fiancheggiava l’edificio scolastico, una lunga fila di soldati che scendevano verso di noi. Restammo pietrificati. Tornare indietro? E se poi ci sparavano? Decidemmo di proseguire sperando nella buona stella. Li incrociammo alle Vene, in un punto ombroso, dove la carraia superava un fosso. C’era anche una jeep con antenne e radio trasmittenti. Un ufficiale in prima fila prese il mio amico per la giacca e cominciò a chiedergli, minaccioso, dove erano nascosti i partigiani. Angelo cercò di far capire che non sapeva nulla di partigiani, che da noi non si erano mai visti e nessuno sapeva dove fossero. Cercai anch’io di insistere sul fatto che da noi non c’erano, che non sapevamo dove fossero. Quel gerarchetto impacchettato in una divisa impeccabile forse si convinse che davvero non ne sapevamo nulla perché ci lasciò andare. Lascio a voi immaginare come trascorremmo la mattina a scuola e quali fossero gli argomenti. Il timore ci riprese all’ora di tornare a casa. Come l’avremmo trovata? Castellaro, grazie alla sua posizione, fu scelta subito come base per lo Stato Maggiore. Rientrato, mi resi conto che da noi non era successo nulla di grave. A rimetterci furono solo le galline, la cantina e i salami, mentre le donne del borgo furono reclutate per preparare il pranzo a tutti quei soldati. Imparammo invece che a Gombio, meta del rastrellamento, avevano ucciso diverse persone [1].

Per l’occasione nonna seppe essere all’altezza della situazione. In casa era tutto un viavai di gente in divisa, ma non toccarono nulla. Anzi ci fu pure una situazione quasi comica. Appoggiato in un angolo della sala c’era un sacco che conteneva il così detto tritume, i rimasugli delle castagne secche. Noi lo usavamo per i maiali: una manciata al giorno, mescolato al beverone. Ad un certo punto una voce tipicamente di pianura si espresse: A gh’é dal castāgni! La risposta di nonna fu secca ed immediata: Si, ma si pagano! Convennero sul prezzo: 5 centesimi a tazza, una di quelle larghe scodelle da latte. Si creò la fila e in pochi minuti il sacco era vuoto. Nel tardo pomeriggio i militi si rimisero in cammino, direzione Castelnovo, portandosi dietro l’unico uomo arrestato. Ma a Castelnovo, dopo un interrogatorio, lo lasciarono. Speravamo di non vederne più di tedeschi e repubblichini. Ci sbagliavamo.

Il borgo, di fatto, era isolato. Ma tornarono. Era un pomeriggio d’autunno avanzato questa volta, una giornata in cui non si vedeva oltre il proprio naso per il nebbione e la pioggia insistente. Arrivarono decisi, puntando dritti alla nostra casa, come se sapessero già che era in posizione strategica. E questa volta erano solo tedeschi. Il che creò non poche difficoltà nel comunicare. Ancora una volta toccò a nonna Aurelia prendere in mano la situazione. Di uomini in casa non ve ne erano. O meglio, c’era il nonno che, per l’occasione, aveva rispolverato una menomazione ad un piede, ricordo della prima guerra mondiale. Infatti zoppicava vistosamente come mai l’avevo visto. Mio padre e lo zio Delfo avevano fatto in tempo a defilarsi e trovare un nascondiglio negli anfratti vicino al Rio del Gatto, luogo difficilmente raggiungibile e noto solo ai cacciatori di volpi.

Nonostante la giornataccia le divise dei tedeschi erano tutte perfette, stirate, precise come misura. Il capo ispezionò la casa dalla stalla alla colombaia. Non avendo riscontrato nulla di sospetto ordinò al nonno di portare molta paglia nella camera dei miei genitori. Un brivido gli percorse la schiena. Le notizie che circolavano non rassicuravano di certo. Troppi i luoghi distrutti e bruciati dai tedeschi per rappresaglia. Invece no. La paglia serviva solo come lettiera per i soldati, che non osarono toccare il letto dei miei genitori.

 Sistemati i soldati, a sera inoltrata, il capo di quella squadriglia cominciò ad essere impaziente, a ripetere Via! Via!, e ad aprire tutte le porte di casa. Altro brivido di terrore. “Ci mandano via per bruciare la casa”, pensò il nonno, mentre la nonna col lume a petrolio correva dietro al capo cercando di interpretare cosa andava cercando. Esasperata, prese la scala e il tedesco la seguì. Giunto sulla porta esterna (ecco cosa intendeva con quel Via! Via! Cercava la strada!), il gerarca si posizionò sui gradini a gambe larghe dando origine ad una di quelle minzioni liberatorie che raramente soddisfano come in quei momenti.

Il giorno successivo ci regalò una di quelle belle giornate da estate di S. Martino, con un sole meraviglioso. I tedeschi se ne andarono portandosi dietro alcuni uomini “rastrellati”, sorpresi grazie alla nebbia il giorno prima.

 Foto 4 - Aurelia Rabotti di Enrico - 1912 circa

 Aurelia a Genova: 1912/13

[1] Cfr.: G. Giovanelli – ECCIDIO ESALVEZZA – 2011 – Pubblicato in occasione dell’inaugurazione del Memoriale sul Monte Battuta, sopra Gombio.