Home Cultura “Il signor maiale”. Un nuovo racconto di Normanna Albertini

“Il signor maiale”. Un nuovo racconto di Normanna Albertini

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Poi ecco il tempo dei “maslîn”; tempo di abbondanza, di spezie e vino e sale, portentosi agenti capaci di mutare la carne suina in prelibatezze da affettare durante il resto dell’anno; tempo di ciccioli, di fegatelli vestiti di rete bianca, di costarine sfrigolanti, di ossa bollite e poi, con somma delizia, scarnificate dai residui del muscolo, che “la carne vicino all'osso è la più buona”, diceva mia nonna. Arrivavano, dunque, i “maslîn”, sempre in coppia, ed era festa ancora una volta.

“Che se fosse per il vino e la grappa che i “maslîn” bevevano per scaldarsi, dato che il sale abbassa ancor di più la temperatura, mio padre poteva morire di cirrosi, con il fegato demolito in giovane età”, dice Deanna, la figlia di uno dei due, “invece è morto a novantacinque anni dritto e lucido come un ragazzino.”

Emio Zanni con la moglie e quattro dei cinque figli
Emio Zanni con la moglie e quattro dei cinque figli

Il padre di Deanna si chiamava Emio Zanni e, oltre a fare il “maslîn”, era anche uno dei pochi esperti capaci di seguire il parto problematico di una mucca, magari ruotando il vitello che si presentava podalico per farlo nascere nella giusta posizione. Per quel motivo, quando una mucca stava male, prima di chiamare il veterinario, si chiamava Emio da Montecastagneto.

L’avventura norcina di Emio era cominciata nell'inverno del ’43, quando, dopo l’8 settembre, era tornato a piedi dalla Francia, evitando i treni, a piedi, per non essere riacciuffato e finire poi nell’Rsi.

Dice Deanna che suo nonno, Livio Bertoni, già faceva il “maslîn” al fine di integrare i suoi introiti: era mezzadro sovrintendente gli operai giornalieri di un grande fondo lì vicino, ma si vede che i soldi non bastavano mai.

Quando si parla di giornalieri, bisogna tenere conto che si trattava di operai davvero poverissimi, provenienti da famiglie talmente alla fame da accontentarsi, come paga, di un po’ di pane o di un fiasco di vino. Era ancora così, negli anni sessanta, dalle nostre parti: c’erano ancora famiglie realmente in miseria che lavoravano solo per sopravvivere.

Leggenda vuole che alcuni di quegli operai finissero purtroppo il fiasco prima di rientrare a casa.

Comunque, Emio cominciò a seguire Livio Bertoni e imparò il mestiere poi, finita la guerra, a loro si aggiunse Liso Anceschi, appena ventunenne. Intanto, nel ’46 Emio si era sposato e la famiglia aveva cominciato subito ad accrescersi, quindi i soldi guadagnati con il lavoro da norcino ora servivano ancora di più.

Io non ricordo Livio Bertoni, ma ricordo bene Emio e Liso e tutto il grande rito dell’uccisione del maiale. Ma facciamo un passo indietro, all'allevamento e alimentazione del signor porcello.

Che comprendeva le patate. Intanto erano bollite, che non si mangiano le patate crude, quindi erano bolliti anche germi e agenti patogeni pericolosi. Che per il signor porcello non avrebbero comportato problemi, ma per una bimba indocile come me forse sì. Vediamo perché.

Il fuoco puliva tutto, lo sapevo. Il fuoco sterilizzava persino gli aghi da cucire, passati su un fiammifero acceso, usati alla buona per cavare le spine e le schegge che ogni tanto si infilavano sotto la nostra pelle o nella carne.

Livio Bertoni con i nipoti
Livio Bertoni con i nipoti

La bollitura sterilizzava in ugual modo gli enormi siringoni adoperati per le iniezioni, quelli con gli aghi così grossi che quando te li piantavano lì, tra il fianco e il gluteo, sentivi senz'altro lo scricchiolìo della bucatura. E mi aveva salvato, un giorno, mio nonno Carlo, dalla seconda delle punture che il dottor Ciro mi aveva prescritto per una tonsillite.

Mi avevano immobilizzato sulla panca: mia nonna mi teneva con forza e mia mamma era lì che faceva uscire l’aria con la siringa dritta in mano, ma io urlavo e mi divincolavo, invocavo aiuto e piangevo, ricordando il dolore della prima (che poi era stata, davvero, la prima iniezione della mia vita). Si spalancò l’uscio ed entrò mio nonno con le mani alzate: “Sacro Dio! Lasciatela stare! Lasciate stare “ cla ragasèta”! Basta!” Era così, mio  nonno…

Non so come mi ristabilii poi dalla tonsillite, ma di punture non me ne prescrissero più fino a che, in seguito, arrivò in paese il dottor Boccazzi per le vaccinazioni; a quel punto, tutti noi bimbetti sfilammo sotto le sue mani in un ambulatorio improvvisato in casa di Ennio Croci, dove la Clara, sulla stufa a legna, faceva gorgogliare e disinfettare le siringhe di vetro nelle vaschette metalliche.

Il fuoco purificava, lo sapevo, quindi: perché non allungare una mano sulla “parlèta” sobbollente infilata nei cerchi della stufa economica e pescarne una bella patata da mangiare? Perché no?

Forse perché il paiolo era quello usato solo per la “šótta” del maiale e delle mucche?

Quel termine dialettale, “šótta”, ricorda la “jota”, una zuppa triestina e friulana di orzo e patate, lardo, pancetta, fagioli e crauti. Dovrebbe derivare dal latino classico “ius”, cioè ‘brodo’, mentre nel latino tardo troviamo “jutta”, cioè ‘brodaglia’.

La “šótta” era la brodaglia che si dava ai maiali, e perché io non avrei dovuto mangiare le patate bollite nello stesso recipiente di quella brodaglia? Forse perché di “šótta” era ancora tutta imbrattata all’intorno? Certo, mi avevano detto di non toccarle, le patate, che erano per le bestie, ma io mica sempre ubbidivo o prendevo sul serio le raccomandazioni dei grandi.

Il fuoco sterilizzava tutto; le patate del maiale, da spellare ancora fumanti, erano buonissime, irresistibili, e io le rubacchiavo. Tanto, nessuno se ne accorgeva e poi non sono mai stata male.

Quindi, per il desco del signor maiale, se proprio non si cucinava, si cuoceva.

Patate: quelle spezzate dalla zappa quando si cavavano, o quelle brutte, mangiucchiate dai topi, troppo rovinate per conservarsi bene, e poi mele, quelle che gli alberi lasciavano cadere prima della completa maturazione, e barbabietole, bianche, dolci, che mio nonno Carlo seminava solo per le vacche e per il maiale e che poi tagliava a pezzettini, pazientemente, seduto su una bassa seggiola impagliata a “palédra” sotto il portico.

Il signor maiale Berto veniva trattato come un ospite, insomma, non come una bestia qualunque.

Il signor maiale viveva tutto solo nello stalletto, pulito regolarmente con cura; più volte al giorno, riceveva la visita di mio nonno che gli portava da mangiare e si fermava a chiacchierare premurosamente con lui, oltre a condurlo fuori a pascolare sotto la piantata delle viti.

Sembrava, in effetti, un ufficiale prigioniero di guerra più che un animale da macellare.

Le patate rotte, dunque, erano cibo suo. Si stava attenti a non farle a pezzi, quando si cavavano, ma succedeva. In primavera, quelle da seme erano state interrate in buche a distanza regolare, tutte in fila, credo a circa mezzo metro una dall’altra. Noi seminavamo a buche, mentre poi, a Costa de’ Grassi, vidi che le si metteva giù a solchi paralleli. Il campo era stato precedentemente vangato e zappato, poi, dopo la semina, le buche si coprivano e si aspettava che le patate germogliassero. Allora, mio nonno andava a zapparci tutt’intorno, forse  per togliere le erbacce.

Ma non era finita perché, quando le piantine crescevano, bisognava rincalzarle e coprirne bene il piede, in modo che i tuberi nuovi non si scoprissero, diventando poi verdastri (e immangiabili) sotto la luce del sole.

Il giorno della raccolta, a fine estate, era una grande impresa collettiva, poiché ogni buca veniva scoperchiata, scrupolosamente, con la zappa e poi ogni patata, anche la più piccola, veniva staccata con le mani dalle radichette; le raccoglievamo anche noi bambini e a me piaceva, perché si stava seduti e si “scarugâva” nella terra, incappando, spesso, in insetti che scappavano dalle buche o che lì si dimenavano, come l’orrendo, tondo e cilindrico bruco bianco, dalle chele arancioni, del maggiolino.

Mi pare che le “šgarbe”, cioè i gambi e le foglie delle pianticelle, tossiche anche per l’alimentazione animale (che, infatti, le mangia solo la dorifora), venissero poi affastellate ai lati del campo e, una volta secche, gli si desse fuoco.

Per diverse ore, gli uomini aprivano le buche e le donne e i bimbi prendevano su ogni tubero, scartando, appunto quelle per il maiale.

Era necessario alimentare l’animale in modo così vario, patate comprese. Diceva Emio che quando, a metà anni Ottanta, dovette lavorare la carne dei maiali cresciuti solo a farine, si trovò in seria difficoltà: la carne era molle, troppo gonfia d’acqua e difficile da conservare con il solo aiuto di sale e spezie. Infatti, in quegli anni nessuno allevava più il porcello in casa; lo si prendeva già adulto nelle grandi porcilaie delle latterie sociali, dove i suini mangiavano esclusivamente farine sciolte nel latticello di scarto.

Quindi, le patate erano benvenute, anche quelle rotte. Portate a casa sul biroccio tirato dalle mucche, le patate si lasciavano prima asciugare bene, poi si mettevano in cantina al buio e al fresco, in modo che non germogliassero più di tanto, e si tenevano da parte quelle “da seme”, da usare l’anno seguente.

Non venivano mai seminate le patate nello stesso campo: si faceva una sorta di rotazione e dove erano state cavate forse si seminava il grano o l’erba medica. Tuttavia le rotazioni riguardavano, allora, qualsiasi coltivazione. Sapevano bene, i contadini, che riseminare la stessa pianta per più anni nello stesso luogo impoveriva il terreno.

E, ogni tanto, compravano pure patate “da seme” nuove, perché sicuramente rendevano di più.

Il signor maiale mangiava patate, mele, barbabietole, ghiande, castagne, mazzetti freschi di erba medica; però lo si doveva ingrassare; il grasso era fondamentale non solo per una buona qualità della carne, altrimenti troppo asciutta, ma perché sarebbe diventato strutto e lardo macinato, condimenti sovrani della nostra cucina.

Certo che per rendere il signor maiale bello grasso servivano anche farinacei, sia pure in giusta misura, così si usava un misto di farine versate nell’acqua in cui predominava il frumentone; era la sua “šótta” giornaliera, dentro la quale finivano anche gli scarti (pochi, per la verità) della cucina, come le bucce e le foglie scartate delle verdure.

Il signor maiale prigioniero veniva “governato” (termine che si usava anche per le altre bestie, dalle vacche, ai conigli, alle galline, per definire l’atto del dar loro da mangiare), con quell’acqua addizionata di mais e cruschello. Tuttavia, l’acqua in cui il tutto veniva amalgamato era quella usata per lavare e risciacquare, ogni giorno, le stoviglie: acqua calda, nessun detersivo, tanti residui dei pasti della famiglia.

E dato che i nuclei familiari erano piuttosto numerosi, quell’acqua arricchita di sostanze nutritive era disponibile in quantità: nessuno pensava di buttarla via; veniva riciclata, come per lo stesso uso veniva riadoperato, dopo averci estratto la ricotta, il “siero” del formaggio fatto in casa.

Il signor maiale a volte faceva in tempo a veder cadere la neve dalla finestra del suo stalletto, difatti lo si ammazzava, in genere, tra Sant’Andrea, cioè il trenta novembre, e Sant’Antonio Abate - il santo del porcellino che era in tutte le stalle - cioè il diciassette gennaio. I mesi più freddi e adatti alla lavorazione della carne.

Ammazzare il maiale non era come ammazzare un altro animale: era cosa da uomini.

Le galline e i conigli li ammazzavano, li spellavano e spennavano, li ripulivano e li lavoravano, cucinandoli, le donne; il maiale no. Ospite e prigioniero, grande e grosso quanto un omone eccessivamente robusto, la sua uccisione non poteva che competere ad altri maschi forti come lui. Perché i maiali potevano essere davvero pericolosi, non erano affare da donne.

Quella volta che scapparono i giganteschi maiali dei mezzadri dei Casoli, bestioni lunghi e corpulenti - almeno così mi erano sembrati - e li dovettero riacchiappare, inseguendoli per i campi fino alle pendici del Monte Battuta, prima che precipitassero (come i maiali indemoniati del vangelo) giù dai calanchi, io ebbi molta paura. Mia nonna Eva mi disse di non uscire di casa, per l’amor del cielo, perché quegli animali non ci avrebbero messo niente a mangiare un bambino: bastava percepissero odore di sangue ed era fatta. Indiscutibile che, a ripensarci, gli adulti ci risparmiavano ben poche paure e traumi!

Saranno stati anche pericolosi, i maiali, ma erano dei condannati a morte; come non comprenderne l’angoscia? Pare presentissero l’ora del patibolo, quando li andavano a catturare nello stalletto.

Si ritiravano in un angolo, strisciavano lungo le pareti, puntavano le zampe, raschiando il pavimento con le unghie, e strillavano; uno stridore prolungato, straziante, acutissimo e penoso che ti faceva salire le lacrime agli occhi. Capivano, certo che capivano, i maiali!

Berto non aveva mai visto tutta quella gente intorno; era abituato solo alla presenza di mio nonno che l’aveva portato lì, piccolino, dalla latteria sociale di Roncroffio - nelle cui porcilaie era nato - e l’aveva allevato e curato per tutti quei mesi. Ho sempre immaginato che Berto (il nome che mio nonno dava a tutti i suoi maiali) in quegli ultimi istanti di vita si sentisse tradito e che mio nonno, sensibile com’era, in realtà soffrisse sapendo di imbrogliarlo e di doverlo condurre a morte.

Ma si doveva pur mangiare; la dieta di allora era anche troppo vegetariana e povera di proteine e la carne di quel maiale sarebbe bastata per tutta la famiglia almeno fino all’estate.

Io non scendevo dietro casa, dove sentivo le imprecazioni degli uomini e le grida insopportabili del maiale, ma aspettavo di sopra e, ogni tanto, spiavo dalle finestre di sala.

Due erano gli eventi cui noi bambini di campagna non potevamo partecipare: la nascita dei vitellini (a cui assistetti solo per un caso fortuito) e l’uccisione del maiale. Due situazioni - sia pur in modo differente - molto dure; troppo, per i bimbi, anche in una società tanto poco attenta a schivar loro traumi e angosce.

Non era il padrone del signor maiale a dargli la morte, erano i “maslîn”, esperti macellatori che, in quel periodo dell’anno, andavano di casa in casa con tutto il loro armamentario di macchine da macinare (a mano), coltellacci, coltelli per scannare (“al burcàj”, che poi era un lungo punteruolo), coltelle e coltellini per tagliare e radere, perché il maiale andava pure depilato!

I nostri primi “maslîn” furono, quindi, Emio Zanni e Liso Anceschi, di Montecastagneto di Villaberza. Si aggiunse poi ai due Gianni Bertoni, molto più giovane, e forse anche un’altra persona che non ricordo. Mai più ho rimangiato un salame buono come il loro…

Ovviamente, si spostavano a piedi, portandosi in spalla tutta l’attrezzatura che, essendo metallica, era parecchio pesante. Arrivavano in un paese e lasciavano lì tutti gli arnesi, perché poi in quel luogo si sarebbero fermati, passando a lavorare di famiglia in famiglia.

Dice Corrado, altro figlio di Emio, che per mesi, da dicembre in avanti, non vedeva mai suo padre. Era come sparito. Emio lasciava la casa all’alba e tornava alle due o alle tre di notte, per ripartire al mattino seguente, di nuovo, quand’era ancora buio.

Tornavano poi cantando, i due “maslîn”; li sentivano cantare, valicando i monti e i boschi, e cantavano forse per effetto delle abbondanti bevute, o forse per tenersi svegli, o forse per farsi coraggio.

Dice, Corrado, che suo padre spesso cantava anche nel sonno, in sogno, e che sua madre lo lasciava cantare perché, confidava lei, era piacevole: cantava così bene!

Corrado ricorda quei mesi senza il padre e loro, i figli ancora bimbi, nella stalla ad aiutare la madre, preoccupati per le vacche che dovevano partorire e che bisognava comunque vegliare perché non ci si poteva permettere di perdere un vitello.

Ricorda, Corrado, le serate invernali in casa con la gente del paese “in vegg”, ma suo padre no: fino a marzo non lo avrebbe rivisto. Perché dopo aver ammazzato il maiale, per finire tutta la lavorazione dei salumi e del lardo, i norcini sarebbero dovuti tornare in ogni famiglia e in ogni borgata infinite volte.

Liso ed Emio macellavano in tutti i paesi intorno a Montecastagneto; erano giunti fin sotto a Leguigno e a Maillo. Più avanti, cominciò l’attività di norcino Giuseppe del Fariolo, che ammazzò gli ultimi maiali a Soraggio.

Quando arrivavano a casa nostra, a piedi nella neve, seguendo antichissimi percorsi che collegavano Montecastagneto a Soraggio, il maiale sembrava presagire la propria fine.

Insieme a mio nonno, i “maslîn” entravano nello stalletto e il maiale cercava di scantonare.

Forse gli veniva legata una zampa con una corda per tirarlo, forse gli veniva legato anche il muso per impedirgli di mordere, poi, sollevandolo per il codino a ricciolo, veniva spinto fuori dalla porticina verde. Le sua urla erano incessanti e insostenibili.

norciniDalla finestra di sala, in alto, scostavo allora la tendina e sbirciavo giù: Berto era lì, in terra, con gli uomini intorno, nella neve marroncina di impronte e fanghiglia, mentre, poco lontano, su un “fugûn” (un bidone di metallo con un’apertura sul fondo dove si accendeva il fuoco e un’altra in alto dove si inseriva un recipiente) bolliva un enorme paiolo d’acqua. Ma quant’acqua facevano bollire per quell’evento? Non mi ricordo se poi il maiale fosse collocato ancora vivo su un tavolaccio, o forse su una scala, ma ricordo un “maslîn”che afferrava il  “burcàj”, mentre il collega sollevava la sua zampa sinistra. Poi non guardavo più, non ce la facevo.

Tuttavia sentivo l’ultimo, terribile grido della povera bestia; era il segnale che il “burcàj” era stato piantato a fondo nel cuore. Poi era silenzio, per un attimo, e poi parole di sollievo e scherzo degli uomini e poi risate e vino e grappa che andavano a ristorare i “maslîn”.

Era quello il momento in cui, in alcune famiglie, si raccoglieva il sangue ancora caldo per farne un dolce: il sanguinaccio. E l’operazione toccava alle donne. In casa mia, però, non si è mai fatto: il sangue non poteva essere trasformato in cibo, no; per non so quale nostro tabù culinario, lo si lasciava scorrere a terra e andava a intridere di un bel rosso brillante, sfumante nel rosa, la neve intorno, tratteggiandola di ghirigori e sciogliendola in parte con il suo calore.

Poi il maiale, a pancia in su sopra un bancone lì fuori, veniva tutto lavato (o almeno così mi sembrava) con l’acqua bollente del paiolo lì a fianco.

Allora, tra gli uomini i discorsi si indirizzavano subito alle qualità di quel maiale: era più grasso o più magro di quello dell’anno prima, più docile o più ribelle, migliore o peggiore del maiale che avevano ammazzato in un’altra famiglia.

E mentre discorrevano e discutevano delle sue particolarità, continuavano a irrorare quel corpo con l’acqua fumante, scacciando i gatti e i cani che provavano ad avvicinarsi.

Sembrava un rito, quasi la ricomposizione e pulizia del corpo di un defunto: tiravano su l’acqua con un recipiente e poi, delicatamente, la versavano in lungo e in largo sul corpaccione rosato.

norcini_sardiIl vapore che si sprigionava da quel bagno spargeva intorno un odore dolciastro, tipico e inconfondibile, di grasso e sudiciume. Poi, subito, gli uomini raschiavano via dalla pelle del maiale le setole ormai ammorbidite, grattando, levigando, lisciando e pulendo, e ripetevano l’operazione anche sulla schiena, dopo averlo girato sottosopra.

Dopo, vedevo gli uomini fare dei tagli nelle caviglie delle zampe di dietro e scoprirne i tendini, i “nervi”, dicevano; fra i tendini avrebbero inserito gli uncini per issare il maiale con le funi e appenderlo a testa in giù a una specie di patibolo, in modo che il grugno non toccasse terra.

Era lì, pulito, bianco del bianco della morte, con il sangue che ancora dalla bocca gocciolava  sulla neve - ma era intero, e pareva davvero un prigioniero appeso alla forca - quando iniziava l’operazione più cruda, quella dello squartamento, anzi, no: della dissezione, perché il maiale veniva diviso in due parti perfettamente uguali dalla coda alla testa.

Fin dall’inizio, tutte le operazioni della macellazione in casa del maiale richiedevano la presenza di ogni componente della famiglia, uomini e donne, oltre a quella dei norcini; non si poteva certo ammazzare un maiale in una famiglia mononucleare (che allora neanche esisteva) o disgregata.

La famiglia patriarcale (o forse sarebbe meglio dire matriarcale, visto il grosso peso che avevano dalle nostre parti  le donne nel prendere le decisioni importanti), una famiglia allargata, i cui componenti erano abituati e addestrati fin da bambini al mutuo aiuto, era il requisito basilare per poter macellare un porcello in casa.

Poi c’era la condizione economica; per le famiglie più povere, anche se bene o male il maiale riuscivano a crescerlo, pagare i “maslîn” poteva risultare impossibile.

Emio, verso la fine della sua avventura da norcino, era arrivato a guadagnare cinquantamila lire per ogni maiale macellato e, con quei soldi, aveva fatto studiare i cinque figli.

Tuttavia, non tutti i contadini riuscivano a pagare e, a volte, i “maslîn” dovevano rinunciare alla speranza di portare a casa il giusto compenso.

Se la lavorazione delle carni spettava agli uomini, le donne di casa avevano il compito di preparare i locali, pulendo tutto in maniera perfetta. Da noi, era la grande cantina ad essere spazzata e lavata; era per metà occupata dalle botti del vino e per l’altra metà attrezzata con tavoli e ganci al soffitto per la trasformazione del maiale.

Lì, in cantina, venivano portate le due “s-ciàpe” del maiale, dopo aver tolto tutte le parti interne, e venivano posizionate sui tavoli, dove poi sarebbero state fatte a pezzi. In alto, appesa a un gancio, c’era già la vescica che era stata lavata e gonfiata d’aria, come un palloncino, e messa a seccare: sarebbe diventata un buon contenitore per lo strutto.

Intanto, in cucina, aveva fatto la sua comparsa il cervello che mia madre usava per cucinare frittelle squisite offerte poi come colazione ai “maslîn”. Deanna dice che il padre, quando arrivava marzo, non ne poteva più di tutto quel mangiare sempre troppo e sempre troppo bene; dice che ormai aveva in odio persino i cappelletti e che poi, a casa, voleva solo una semplice pastasciutta.

In effetti, durante tutti quei mesi i “maslîn” mangiavano soprattutto carne di maiale, bevevano quantità di vino e di grappa inverosimili (a sorsi distanziati, non a bottiglie come è nelle moderne modalità giovanili), tuttavia lavoravano dall’alba al tramonto, percorrevano lunghe distanze a piedi e stavano in ambienti freddissimi, per cui è comprensibile che Emio sia comunque arrivato a novantacinque anni senza colesterolo alto e che Liso sia tuttora vivo e vegeto e lo si veda camminare ogni giorno per Felina.

In cantina il maiale, pian piano, diventava salume.

I mucchietti di carne macinata sparsi su un telo candido e addizionati di spezie erano un richiamo troppo forte per noi bimbi, che andavamo giù e cominciavamo ad assaggiare pizzicando di qua e di là.

I “maslîn” dovevano tornare e ritornare diverse volte, per concludere tutto, fino a che salsicce e salami e cotechini e coppe erano pronti, appesi alle pertiche, per essere portati ad asciugare (e affumicarsi leggermente) nella casa vecchia.

Lassù, mio padre aveva acceso il fuoco nel vecchio caminetto, aveva coperto le braci con la cenere e, ogni tanto, andava ad aggiungerci un po’ di legna e controllava che i salumi si asciugassero a dovere. Andavo spesso con lui; stavamo lì, vicino al camino, e capitava che lui portasse due patate e le mettesse sotto la cenere rovente; poi le estraeva e me ne dava una: era gustosissima anche così, senza sale, solo pulita dalla buccia.

Mentre salami e salsicce asciugavano, i prosciutti, invece, che richiedevano tempi diversi, erano rimasti sotto sale, e forse anche le pancette e il lardo.

In casa, si sentiva il profumo dei fegatelli fritti e bagnati con il vino, mentre i ciccioli venivano tirati su dal pentolone con un telo e poi strizzati con due stanghe dagli uomini, fino a far uscire tutto lo strutto bollente, dove galleggiavano foglie d’alloro.

Nei mesi seguenti, mio padre avrebbe portato i prosciutti e le spalle, vestiti di candidi sacchetti di tela a protezione degli insetti, prima in cucina, appesi ai ganci appositamente piantati nel soffitto, poi credo nel sottotetto e, infine, in cantina. Sapeva lui i tempi e il tempo (meteorologico) giusti per le suddette operazioni. Anche gli altri insaccati, dalla casa vecchia, finita l’affumicatura, andavano nel sottotetto e poi finivano in cantina.

L’ultima volta che vedevamo i “maslîn” era per il lardo. Le lunghe strisce di lardo, ancora attaccato alla cotenna, erano state messe sotto sale e ci erano rimaste forse per quaranta giorni o più.

I “maslîn” arrivavano e, per prima cosa, cominciavano ad affilare meticolosamente i loro coltelli. Poi, con gesti di precisione assoluta, incidevano tra lardo e pelle del maiale e sfilavano quest’ultima con una sola mossa.

Il lardo veniva macinato e poi inserito nei vari recipienti: vasi, pentoloni, a volte persino damigiane. Le cotiche, invece, tagliate a strisce, venivano ripassate con il coltello contro pelo, accuratamente, una per una, fino ad eliminare ogni residuo di setole, poi erano poste sotto sale.

Cucinate con i fagioli, sarebbero diventate uno dei miei piatti preferiti.

E mi piacevano tanto, le cotiche con i fagioli, che diventarono una delle mie “voglie”, durante la mia seconda gravidanza, tanto che, quando ne parlai con mia madre, lei prontamente le tirò fuori e me ne cucinò un bel tegame: non fosse mai che mia figlia venisse al mondo con macchie di cotiche e fagioli sulla pelle!

Mi dispiaceva, quando sapevo che i “maslîn” non sarebbero più tornati. Come capitava per altri lavoratori itineranti, in fondo diventavano quasi persone della famiglia, quasi parenti.

O forse era l’aria di festa che li accompagnava, insieme a tutto quel cibo improvvisamente a disposizione, che rendeva quel periodo, a cavallo delle feste natalizie, ancora più gioioso e sereno.

13 COMMENTS

  1. Rosetta Loy ha scritto un romanzo che mi è piaciuto molto: si tratta di “Le strade di polvere”, ambientato tra il ‘700 e l’800, che parla della vita contadina (e non solo), ma tu la batti, cara Normi, con quel tuo modo di raccontare così “visivo” che mi sembra di essere lì, proprio nel momento in cui i fatti accadono. Ancora una volta bravissima e… un saluto alla Deanna, se è quella Deanna.

    (Claudia)

    • Firma - Claudia
  2. Cara Normanna, sarei banale se dicessi che i tuoi racconti sono “poesia”, perché tali sono e non hanno nulla da invidiare ai capolavori dei grandi letterati del passato. Sono affreschi di vita vissuta che nessuna macchina fotografica potrebbe trasmetterci. Soltanto i grandi artisti della nostra letteratura, con i loro capolavori, ci hanno dato e ci danno emozioni e sentimenti che ritroviamo leggendoti. Complimenti e grazie.

    (Sergio Tagliati)

    • Firma - sergiotagliati
  3. Complimenti a Normanna che, con grande maestria e con una sottile vena di nostalgia, ci fa rivivere uno dei momenti più importanti dell’anno, per le famiglie contadine (e non solo) di un tempo. Momenti indimenticabili di amicizia e condivisione.

    (Ivano Pioppi)

    P.S. – Mia mamma, in quel di Vetto, raccoglieva anche il sangue e, con una concia particolare, cucinava delle gustosissime frittelle.

    • Firma - IvanoPioppi
  4. Quel mondo passato, qui così ben descritto in taluni suoi momenti, non è ovviamente riproponibile, per una infinità di ragioni, ma un piccolo (o grande?) insegnamento potremmo forse trarne. Pur con ritmi ben diversi dall’oggi e senza disporre delle odierne tecnologia c’era allora un sistema che funzionava, più semplice e sobrio, ma non meno efficiente e la cui solidità valoriale ne ha poi permesso le successive evoluzioni. Di tutto ciò potremmo o dovremmo ricordarci quando pensiamo di andare sempre più avanti, il che è naturalmente legittimo e comprensibile, ma la base su cui costruire il nostro futuro deve mantenersi comunque ben salda, anche nei suoi principi, pena il rischio di renderlo fragile, incerto e pericolante, specie per le generazioni più giovani e quelle altre che verranno.

    (P.B.)

    • Firma - P.B.
  5. E’ sempre una piacevole sorpresa trovare risposte e riscontri tanto entusiasti e affettuosi a ciò che si scrive, vi ringrazio tutti. Significa che il nostro passato, pur con tutto il suo carico di difficoltà e privazioni, ci ha lasciato cose buone che, in buona parte, ci uniscono. Grazie davvero! E grazie a Deanna e Corrado, figli di Emio (Sabrina, ho volutamente mantenuto il nome con cui tutti lo conoscevamo come gesto d’affetto nei confronti di quella bella persona che tuo nonno era!) per la chiacchierata da tuffo nel nostro comune passato che abbiamo condiviso a Montecastagneto nei giorni scorsi.

    (Normanna)

    • Firma - normanna
  6. Mi ha fatto ritornare bambina, signora Normanna, mi è sembrato di sentire quelle voci, i sighi del maiale, quegli odori. Grazie infinite. A casa mia con il sangue del maiale si faceva una buonissima torta. Era scura, saporitissima e dicevano molto energetica per i bambini.

    (Anna)

    • Firma - Anna
  7. Ho passato i primi anni della mia vita a Ca’ del Basso nell’aia di Liso e sento ancora oggi il rito dell’uccisione del maiale come l’iniziazione di noi bambini alla vita rude ma sincera del mondo contadino. L’alternarsi delle emozioni tra il dispiacere per il povero maiale, la paura e la crudezza della sua uccisione, l’inevitabilità e indispensabilità dell’atto è stato come assistere ad un film duro sulla vita accompagnato dai genitori e dalla famiglia intera. La vita, la morte e il cibo per il domani. Il termine dialettale “burcaj” dal suono duro e gutturale evoca poi nei miei ricordi il momento, l’attimo in cui si compie il destino del maiale e del “maslin”, vittima e carnefice di un rito naturale di quel tempo. Lo strillo acuto del maiale e l’attimo di silenzio dei “maslin” rompono la tensione dell’aia e la vita torna a scorrere. Nel leggere il tuo racconto ho vissuto intense e contrastanti emozioni che dicono che scrivere è un dono e leggere è sentirsi vivi e per questo ti ringrazio. Sarei però curioso di conoscere l’origine del termine “burcaj” poichè nonostante io sia adulto fatto al solo pronunciarlo tra me e me mi dà ancora un brivido lungo la schiena. Grazie.

    (Federico Tamburini)

    • Firma - FedericoTamburini
  8. Non conosco l’etimologia del termine “burcaj”, credo si debba chiedere a Savino Rabotti che certamente ne avrà studiato le origini. In italiano lo strumento si chiama “accoratoio”, perché trafigge il cuore. So che in alcune zone della provincia di Parma si dice “curadùr”. Potrebbe forse avere la stessa etimologia di “borchia”, cioè qualcosa a punta, o di “broc” (termine longobardo per punta, spunzone), ma è un mio azzardo.

    (Normanna)

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  9. Grazie Normanna, la forza della nostalgia di tempi diversi, per me comunque più belli, ricompare leggendo questi racconti che la risvegliano e fanno rivivere momenti lontani. Ero piccolo e scappavo via quando portavano fuori il maiale per ucciderlo, c’era nell’aria un’atmosfera diversa, c’era tensione negli uomini e la paura dell’animale era palpabile e si diffondeva tutt’intorno con le sue urla disperate; nonostante la curiosità di un bambino, scappavo per non sentire e non vedere; poi, dopo un po’, tutto si attenuava e le concitate voci degli uomini riprendevano il normale tono di sempre, piano piano la tragedia diventava festa. Il sacrificio era compiuto.

    (Antonio Manini)

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  10. Il prezioso maiale era davvero uno della famiglia, ricordo che la mia nonna gli si affezionava e scappava di casa per almeno un’ora per non sentirlo urlare: era proprio un “siig” che perforava il cervello, mi prendeva con sè, ma lo sentivo, direi che a pensarci lo sento ancora. Poi i miei vendevano i due prosciutti al droghiere e in cambio comperavano pasta, riso e zucchero, a scalare per mesi. La sòta la si faceva proprio bollire, ricordo bene, e la nonna ci metteva di tutto dentro, anche le noci mezze bacate, le croste di formaggio, le bucce delle mele e delle pere, le foglie delle verze. Bravissima cara Normanna, come sempre.

    (Ilde Rosati)

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  11. Grazie. Grazie per questo spaccato di storia contadina che poi è la mia storia. Ad ogni riga emozioni incredibili mi si ripresentavano negli occhi e nel cuore. E poco conta se a Montecchio il mestiere era quello del masèin… Io ero uno dei bimbi che partecipavano a questa grande festa. Grazie di cuore.

    (Eugenio Pattacini)

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