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La satira montagna / 1

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la satira

LA SATIRA  IN  MONTAGNA – 1

Che il montanaro abbia innato il senso dell’umorismo è risaputo: fa parte del suo DNA. Anche nelle situazioni tristi e difficili, quando non sembra esserci via di scampo, riesce a trovare la battuta o il paragone che attenua la tensione. In definitiva si tratta di sdrammatizzare e cogliere l’aspetto positivo in ogni circostanza. E si manifesta sia con una infinità di piccole battute all’ordine del giorno, alle quali non si presta attenzione più di tanto, sia con la satira, quella impegnativa. Quella che Castìgat ridendo mores, cioè tenta di correggere i vizi e i difetti della gente mettendoli in ridicolo.

Cosa è la satira. In generale indica una critica dei difetti delle persone dura ma correttiva. Già dagli albori della letteratura greca la satira ha avuto un ruolo importante nella società. Lo stesso è stato per i latini. Qui non ci dilunghiamo in analisi dettagliate perché queste informazioni sono facilmente reperibili. Vorrei invece accennare, molto velocemente, alla satira montanara, la nostra, quella dialettale.  Testimonianze di opere dialettali nel reggiano c’erano già nel ‘500. I primi testi di satira in montagna, invece, risalgono solo alla fine del 1800, come vedremo.

Gli argomenti possono essere di tipo sociale o di carattere politico. Ci può essere un argomento occasionale, dettato da un evento che, senza volere, diventa di dominio pubblico. E ci sono anche argomenti a carattere moralistico. Poi ci sono gli intramontabili lui, lei e l’altro che da sempre suscitano ilarità.

Metrica: la maggior parte dei componimenti satirici dialettali del nostro territorio è composta in ottonari piani (o settenari quando il verso è tronco, e succede molto spesso) a rima baciata.

Esempio di ottonari piani a rima baciata,

 Quand i’ hân vìst tú-c cùma l’êra:

“Sgnûr Periûr, i’  gh’ gnèm luntêra”!

e di settenari tronchi:

A la môda d’j italiân:

i purèt tratâi da cân.

 Troviamo anche componimenti a respiro più solenne, col classico endecasillabo, in quartine o distici. Alcuni autori, (che però tentano di emanciparsi scrivendo in un italiano approssimativo), hanno preferito quartine composte di settenari.

Ad influire sulla scelta della metrica non credo sia una cognizione delle forme letterarie ma “quel motivetto” che ti ritorna a mente con ossessione fino a quando non hai messo giù un bel po’ di versi. In altre parole è l’emulazione a fare da maestro.

Con questa ricerca mi fermo alla Valle del Tassobbio o poco più. Di sicuro c’è materiale per un lavoro ugualmente fruttuoso in tanti altri territori. Il testimone passa quindi a chi può e desidera continuare il discorso. Anzi, sarebbe utile unire le forze per avere una immagine completa il più possibile per tutto il territorio montano.

La scuola del Fòsola

Quassù da noi non abbiamo memoria di poeti dialettali anteriori alla metà dell’ottocento impegnati con la satira. Di sicuro c’erano. Non riusciamo a concepire il cibo senza sale, e non possiamo immaginare l’esistenza senza satira e buon umore, visto che questi sono il sale della vita. I componimenti di costoro (che venivano recitati esclusivamente a voce, entro un crocchio di amici, e mai scritti) si sono persi. Non perché non fossero validi ma perché, quando l’evento commentato non destava più interesse, lo si dimenticava.

Il prof. Giuseppe Giovanelli ha individuato in Quirûn da Palarê (Quirino Zanelli) l’iniziatore di un nuovo tipo di fare satira, un caposcuola di una corrente definita Scuola del Fòsola. Il Fòsola è un monte alle cui falde sorgono i borghi di Palareto e Ramusana. Nel primo è vissuto Quirino, a Ramusana il fratello Enrico. Ma Ramusana è anche il luogo ove è nato il padre di Giovanni Ramusani. Quirûn ha avuto un notevole seguito nel territorio felinese e dintorni.

Quirûn da Palarê

I testi più antichi che conosciamo per la satira montanara sono quelli di Quirino Zanelli, “nato e vissuto a Palareto, morto in longeva età nel 1924” (1). Di lui si ricordano ancora alcuni passaggi perché, nel tempo, quei versi sono diventati come dei proverbi. E non desti meraviglia scoprire che Quirino era quasi analfabeta. Ma in campagna chi aveva tempo di andare a scuola? Qualcuna c’era già, è vero; qualche ragazzo magari andava a lezione dal parroco perché la scuola era lontana o perché il parroco sperava di portarlo poi in seminario. Ma appena il ragazzo era in grado di manovrare un attrezzo lo si impiegava a tempo pieno in campagna e addio scuola.

Però ci sarà pure stata una molla che ha fatto scattare le vena poetica di Quirino e degli altri autori di satire. È vero che in casa sua c‘era uno che sapeva di lettere, il fratello maggiore Enrico (1836-1916), che aveva frequentato Marola da esterno e componeva satire e poesie in un italiano forbito. Enrico ha anche composto, in età matura, un Maggio sulla fine del Mondo (2) che riscosse molto interesse e fu ripetuto ben tredici volte finché l’autore era vivo. Resta comunque difficile capire come mai un normale contadino assurga al livello di autore di satire, per di più in dialetto. Una valida chiave di lettura ce la offre il prof. Giovanelli in La vèta muntanāra, a pagina 90. Ci dice che era molto diffusa l’usanza di leggere i lunari. Questi, oltre ai consigli pratici, riportavano anche molti componimenti in rima, in dialetto, quasi sempre di argomento satirico. E, più per gioco che per la validità dei testi, chi poteva li imparava a memoria. Passare dalla lettura all’emulazione, all’adattamento a fatti locali, il passo è breve quando c’è la stoffa. Basta avere orecchio musicale, un poco di fantasia e un argomento che desti interesse.

Quirino ce ne dà la prova commentando i fatti quotidiani, quelli che esulano dalla monotonia normale e offrono il fianco a motteggi e commenti. Da quanto è sopravvissuto sappiamo, ad esempio, che a Villaprara un certo Campani doveva uccidere una scrofa e si era procurato tutto il necessario, norcino compreso. La scrofa però non condivideva l’idea, e, sul più bello, riuscì a divincolarsi e scappare. Cercano di acchiapparla, ma lei se la cava sempre raggiungendo via via le borgate di Coliolla, Vallatina, Velucciana, Sacaggiana, Pontone, sempre con il codazzo di inseguitori a rincorrerla. Il commento del poeta? Semplice: se ci fosse stato Baffone (un personaggio caratteristico del luogo che si riteneva superiore agli altri) lui si che l’avrebbe bloccata subito:

Ma s’agh féusa  stä Sbafiûn

lû se ch’a srê stä bûn

ad brancâr a-ste pursèla

e d’ zacâla là per tèra

préma ch’ la féusa  pasâda

i cunfîn ad Vilaprâra.

[Ma se ci fosse stato Baffone / lui si che sarebbe stato capace / di agguantare quella scrofa / e immobilizzarla lì a terra / prima che oltrepassasse /i confini di Villaprara].

C’è stata una lite a Casa Perizzi, col pestaggio di un tizio ritenuto un traditore (Imbrancâ) e relativa denuncia da parte di costui. Uno dei testimoni convocati per il processo fa la descrizione minuta del fatto precisando però che  cun quânta gênta a gh’era, föra che me, teú-c il picêva, sperando così di mettersi al sicuro di fronte al pretore.

Pretore:

Voi, De Pietri e Fortunati,

davanti a me siete chiamati

a cuntâr la veritâ

ad cla lîta ch’i’ han tacâ”.

De Pietri:

“Ah, ch’e sēnta, sgnûr Pritûr,

cul lé l’era un brt lavûr,

quand i gh’ dgêvne d’ l’imbrancā,

e lé in tèra il tên ficâ,

e ch’i’ fn t-c quân-c adòs,

câls e pgn, tt un casòt,

e cun quânta gênta e’ gh’êra,

fra che me, t-c il picêva!

E cul mûnch lé da la Cêša

as sarê dét che lû n’ picêva.

Bên ch’al gh’ìsa sûl un bràs

e’ gh’ piantâva pgn da mat!

[Il Pretore: “Voi, De Pietri e Fortunati / siete stati chiamati davanti a me / per raccontare la verità / su quella lite che hanno cominciato”. / / De Pietri: “Ah! Ascolti, signor Pretore: / quello è stato davvero un brutto affare, / quando gli davano dell’imboscato / e lo hanno bloccato lì a terra / e gli saltarono tutti addosso, / calci e pugni, tutto un cazzotto, /  e con quante gente c’era / me escluso, tutti lo picchiavano! / E quel moncherino che abita vicino alla chiesa / non si sarebbe detto che  anche lui picchiava. / Benché avesse solo un braccio / gli assestava pugni come un matto”].

 Per descrivere quali fossero le condizioni sociali di allora Quirûn si serve di questa immagine, quasi uno sberleffo contro la fame perenne:

La miseria la fêva clasiûn a Riâna,

la gnêva a dišnêr a Vinsê,

ambrènda a la Carvâra,

e a sêna a Palarê.

* * *

NOTE:

(1)                I pochi testi superstiti di Quirino Zanelli (come quelli di molti altri) li ha raccolti il

          Prof.   Giovanelli nel volume LA VÉTA MUNTANĀRA pubblicato nel 1977 da Bizzocchi.

(2)  Il Maggio di Enrico Zanelli si intitola: Opera della rappresentazione della Fine del Mondo.

          Il manoscritto è della signora Mirella Rivolvecchi. Il testo è stato pubblicato a cura dello stesso

          Giovanelli su Il Cantastorie, anno 30°, n° 43