di Fabio Spezzani
Questa è la storia di Rina Teresa Lusoli, classe 1923. Qualificata partigiana combattente per il periodo 1 settembre 1944 – 30 aprile 1945. L’intervista, svolta lo scorso 4 aprile, riassume una conversazione molto libera e spazia ampiamente anche tra i vari fatti della sua vita privata. Riportiamo parti della medesima riguardanti la sua attività di staffetta e crocerossina.
Iniziamo da da una foto che ci è mostrata dalla stessa signora Lusoli. La ritrae con una pistola in mano…
Sì. E’ al tempo della guerra, ma non è poi una cosa vera. Non ho mai sparato, anzi, ho paura; prendevamo paura quando sparavano, ma purtroppo era così. Qui ero all’ospedale di Pescia, in un momento di riposo.
Cosa faceva prima di impegnarsi attivamente nelle Resistenza?
Io ho cominciato ad andare alla risaia quando avrò avuto 14, 15 anni, con le sorelle Fantini; erano 5 sorelle. “Andiamo alla risaia”; andare alla risaia in Piemonte sembrava di andare in America. Eh caro mio, quelli che c’erano stati l’anno prima dovevano andarci obbligatoriamente l’anno successivo, ma nessuno chiaramente voleva andarci in tempo di guerra: andare là in mezzo alla risaia, il sedere dritto all’aria e Pippo là sopra che mitragliava, nessuno voleva andarci. Nei primi anni di guerra ero a Reggio a fare la babysitter a tre bambini, i Parmeggiani. Quando mi arrivò la cartolina di precetto per tornare in risaia, il padre dei bambini andò a Baiso, da Benassi Vittorio, il quale organizzava le squadre di mondine; chiese a lui se, con il pagamento della cifra corrispondente, potevo rimanere a casa, ma Benassi gli disse che erano previste multe e persino tre mesi di carcere per chi non avesse risposto alla chiamata. In realtà quelle che son state a casa sono state meglio di noi. Non hanno preso paura. Noi che ci siamo andate invece ci sdraiavamo sotto gli alberi quando passava Pippo perché temevamo mitragliasse. Fortunatamente tornai a casa presto, a causa di un infortunio alla mano. Una volta ritornata, lavorai ancora presso la famiglia Permeggiani sia a Reggio che a Baiso, perché qui in estate vi soggiornavano i bambini.
Mi ricordo anche dei bombardamenti a Milano, dove ho lavorato prima di andare a servizio a Reggio; lì ero con le sorelle Lugli e non essendo nessuna di noi maggiorenne, lavoravamo in un istituto di suore. Trovandosi l’istituto vicino al carcere di Opera, noi stiravamo i vestiti dei carcerati. Doveva essere il 1940, la guerra era già in movimento e a volte alcuni aerei bombardavano la città; allora le suore ci dicevano “ragazze, mettete la testa sotto il cuscino e dite un Atto di dolore”.Mamma mia quando buttavano giù queste bombe, io non so dove le volessero buttare, facevano dei rumori in grado di rompere i vetri per vari chilometri. Una paura chissà, non avevo neanche 18 anni. Dopo da Milano sono venuta a Reggio per avvicinarmi alla famiglia.
Lei come si definisce in merito alla sua attività in guerra? Partigiana, steffetta?
“ oh Dio. Sa, lì a La Costa erano tutti partigiani. Così era al Torrazzo e a Ca’ d’Tughel, dove abitavo io. Vi erano diverse squadre di partigiani, direi 5 o 6 in totale. Mio padre ha tribolato tanto perché, poveretto, aveva un fienile dentro cui i partigiani andavano a dormire; appoggiavano le bombe a mano in terra, spesso dietro la porta e così un ragazzo, inciampando nella porta, è morto. Aveva 12 anni. Comunque sono stata riconosciuta staffetta e crocerossina.
Quando è iniziata la sua attività?
È iniziata nei primi del settembre 1944: è in quel periodo che a casa mia stazionava il distaccamento di partigiani e nelle case vicine il Comando di Divisione.
Quale compito aveva?
Portavo ordini alle varie postazioni dei paesi vicini oppure raccoglievo informazioni nelle zone in cui erano presenti tedeschi o brigate nere; ci informavamo sul numero dei militi, sulle armi, sulle postazioni, sulle loro intenzioni.
Una volta i partigiani mi mandarono a prendere il tabacco da fumare in un luogo preciso a Reggio; mi diedero l’indirizzo su un foglietto che nascosi nella scarpa, sotto una calza: se lo trovavano fucilavano anche me. Essendo anche il tabacco tessera, ero andata dalle famiglie de La Costa a prendere tutte le tessere e le misi dentro la valigia con cui avrei riportato a casa il tabacco. A Reggio, oltre al tabacco, presi anche un cappello per mio fratello Edo. Salii sulla corriera che da Reggio doveva arrivare a Casina; mi sarei fermata a Marola e da lì sarei andata a piedi sino a La Costa. Procedevamo in una fila di diverse corriere: nella prima vi era una decina di militi. Quando arrivammo a La Bettola, quattro caccia iniziarono a mitragliare le corriere. La prima si incendiò e i soldati scesero a caricare sulla seconda corriera quanto stava sulla loro. Scesi anch’io e nel farlo caddi sul corpo di una giovane donna, credo fosse una maestra; era stata colpita e il colpo le aveva staccato una gamba. Pensai subito di andare dritta vicino agli alberi: avevo paura che ci colpissero e che i colpi ci tagliassero.
Mamma mia che lavoro. Non voglio più pensare a quelle cose lì.
… In conclusione, arrivai a Marola senza riuscire più a parlare dallo spavento. Quando fui sulla strada che portava al seminario, mi venne incontro in bicicletta un mio cugino, don Ivo: sapeva del mio tragitto e, grazie alla radio, anche dell’incendio. Rimasi a dormire a Marola, vicino al seminario; al mattino partii e tornai a San Cassiano. Mamma mia, mamma mia che roba.
Mi ricordo bene anche di quando i tedeschi giunsero a La Costa e volevano bruciarci la casa. Noi, sapendo del loro arrivo, avevamo come al solito portato tutto fuori di casa e lo avevamo nascosto nei campi, in mezzo al granoturco; mi ricordo di averci portato anche i vestiti e una macchina da cucire. Le vacche invece le avevamo nascoste nel bosco. Quando arrivarono spararono ai conigli; li avevo liberati perché non li mangiassero ma ne uccisero comunque uno. Dopo iniziarono a parlare e si accorsero che intorno a casa vi erano tracce di zoccoli di cavallo: capirono che erano i cavalli usati dai partigiani. Iniziarono a parlare di “ribelli” e minacciarono di bruciarci la casa. Io allora gli presentai una lettera che mi era stata scritta da un ragazzo di San Cassiano che si era arruolato volontario nelle SS in Germania; dissi loro che era stata iscritta da mio fratello, che in realtà era nascosto in solaio, e così loro risparmiarono la casa, a differenza di quanto avvenne al Querceto, a poca distanza dalla mia borgata.
Sapevano quindi che a La Costa di San Cassiano vi erano diversi partigiani?
Sapevano che c’erano i “ribelli” . Quando noi staffette andavamo a Ca’ Lugarini, lì a Ponte Secchia, ad informarci sulle munizioni, sulle mitragliatrici, le bombe e tutto l’armamentario di cui disponevano, spesso chiacchieravamo con i tedeschi e cercando di adescarli li invitavamo su a La Costa con il pretesto di ballare. Una volta ricordo che risposero “sì, ribelli su, ribelli”.
Sempre nell’autunno del ‘44 notammo una maggiore quantità di tedeschi a Ponte Secchia; dopo pochi giorni sapemmo che avevano intenzione di compiere un rastrellamento. Dovetti andare in montagna perché nel frattempo ero ricercata dai fascisti e non volevo mettere la mia famiglia in pericolo di rappresaglie. Lì continuai il mio lavoro di staffetta, per poi prestare aiuto come crocerossina. In veste di crocerossina ho prestato servizio a Lizzano in Belvedere e a Pescia, in provincia di Pistoia, all’ospedale Anna Maria Enriquez; essendo in territorio libero contava anche sulla presenza di dottori americani .
Una volta, a Pescia, ho fatto la nottata ad un ragazzo di Carpi, mi pare fosse stato operato all’appendicite. Non doveva bere perché era stato operato in giornata e pertanto gli bagnavo appena la bocca con una garza bagnata. Quando vi fu il cambio di turno, mentre io scendevo le scale per cambiare reparto ed un'altra infermiera si recava da quel ragazzo, lui ha bevuto tutta l’urina del pappagallo. Mi ricordo che questo ragazzo, penso lo chiamassero “il Prete”, dopo circa 20 anni dalla fine della guerra venne a cercarmi; venne qui a Ca’ del Pino Basso in camion, data la sua attività di camionista.
Ed una volta avvenuta la Liberazione?
Dopo il 25 aprile vollero mandarmi da Pescia all’ospedale di Gaiato; io rifiutai, rimasi ancora un po’ a Pescia e poi decisi di tornare a casa. Andai alla centrale di Farneta a prendere la liquidazione da partigiana. Non ottenni mai la pensione di combattente; una volta sposati, nel 1946, mio marito nascose nel solaio i documenti che attestavano la mia precedente attività. Non so bene il motivo, penso fosse geloso.
A Farneta mi diede la liquidazione un partigiano detto “Mario”.
Chi era il caposquadra lì a La Costa?
il caposquadra che era in casa dei miei lo chiamavano “Boia”.
C’era qualcuno di Baiso o delle altre frazioni del Comune?
Di Baiso ricordo un certo Sipe, ma conosco solo il nome di battaglia. Lo vidi varie volte dopo la guerra, quando venivo a Baiso; non ci parlammo mai. Di Levizzano invece ricordo Augusta, una ragazza con cui passavo molto tempo; ho perso i contatti anche con lei.
Si parlava di politica?
No, non parlavamo di politica. Anche se devo ammettere che io non passavo molto tempo in mezzo ai partigiani; quando ci fermavamo nelle case spesso andavo a fare vari lavori, ad esempio la sfoglia.
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Chi avesse memoria dei racconti della signora Lusoli ce li comunichi e, volentieri, li pubblicheremo.