Quasi tutti, da noi, festeggiavano solo il Martedì Grasso
Nel pomeriggio c’era lo spettacolo ambulante: le Maschere, un’espressione artistica che meriterebbe maggiore attenzione e ricerca. Durante l’inverno, quando si andava a veglia (in vè-g), si costituiva una ridotta compagnia teatrale (cinque o sei personaggi) che riproponevano episodi realmente accaduti nel territorio durante l’ultimo anno. Di solito si preferiva un tema boccaccesco, con Lui-Lei-L’altro e l’intervento dei gendarmi quali deus ex machina. Il testo doveva essere rigorosamente in rima e in dialetto, perché la storiella veniva cantata, accompagnata da un violino e da una chitarra. Subito dopo la fine della guerra da noi Enrico Rosati e Dino Giuliani erano i parolieri di moda, Nello Rabotti di Donadiolla rappresentava la Forza Pubblica, altri avevano le parti del marito tradito, della moglie e del dongiovanni. Dino Giuliani di solito fungeva anche da Mnûn, (= il conduttore), che guidava il drappello da una casa all’altra. Ogni attore provvedeva a crearsi l’abito, (grottesco il più possibile) e le maschere. E tra gli spettatori si faceva a gara per individuare gli attori. Come compenso la compagnia riceveva torta, gnocco fritto e vino di casa.
Per divertirsi qualcuno andava lontano, dove c’era una festa da ballo; gli altri si accontentavano di poco: un grammofono con alcuni dischi ormai logori per l’uso e una stanza ove ballare. Ma la partecipazione era quasi obbligatoria, per non sentirsi dire, con un tono ironico,
Chi ch’a n’ bàla a Carnevâl
o ch’l’è môrt o ch’al sta mâl.
La coreografia? Dire essenziale è già troppo: qualche striscia di bandierine fatte in casa con pagine di giornali o di quaderni, incollate a uno spago e tese da una trave all’altra; un’unica lampadina rigorosamente da tre candele per non consumare corrente, alcune sedie per riposare di tanto in tanto. E in cucina c’erano la mamme indaffarate a sfornare padelle di chersênta. E quando la festa si era scaldata per bene ecco il rompiscatole di turno pronto ad avvertire che era mezzanotte. Perché a quell’ora iniziava la quaresima e guai a chi non l’osservava:
A Carnevâl a s’ bàla e a s’ cânta,
ma in Quarêšma a s’ fa la vìta sânta.
E non mancavano le riflessioni filosofiche, magari da parte di chi non era più in grado di ballare e divertirsi come tutti:
Carnevâl l’é un bûn cumpàgn
perché ‘l vên ‘na vôlta a l’àn,
che s’al gnìsa tú-c i mêš
al srê l’arvîna dal paêš!