Basta osservare i titoli di cronaca per comprendere che la nostra società consuma sostanze e si appoggia a stampelle per funzionare. Sempre più. Uso e abuso di droghe, alcol, comportamenti. Le dipendenze ci sono sempre state, ogni epoca ha avuto le sue di elezione. Cambiano rapidamente le sostanze e le procedure, i rituali. “Oh tempora, oh mores” ripete da secoli Cicerone. Il degrado degli esseri umani è esistito da sempre, segno che al fragilità dell’uomo è da contemplare, i comportamenti autodistruttivi, la fragilità appartengono alle ferite esistenziali del genere umano. Il come una società gestisce e declina le sue invece è segno o meno di evoluzione.
Fatti recenti come i video su Facebook di ragazzini che ingurgitano litri di birra perché “sono stati nominati”, o di adolescenti che prima della scuola si dedicano all’assunzione di sostanze, impongono al mondo adulto e alla comunità educante una riflessione.
Prevenire, insegnare, discutere, rendere consapevoli. Lo si fa? Le famiglie lo sanno che gli adolescenti sono fragili e smarriti? Quale attribuzione di senso dare a questi comportamenti?
Le nuove dipendenze sono solo forme diverse di un disagio antico e atavico. Ma bisogna conoscerle per dialogare con le fasce deboli che ci cascano dritte dentro.
Se alcol, fumo, droga sono dipendenze già note, ore esistono forme subdole di comportamenti pericolosi che danneggiano chi li mette in atto, e indicano la povertà di valori in cui alcuni sembrano galleggiare, andando già in giovane età verso una deriva autolesionista. Compito dello psicologo sociale non è quello di moraleggiare o fornire soluzioni preconfezionate, ma bensì tessere un’analisi corale con altre agenzie dedite al comprendere chi siamo e dove andiamo, del chi cosa come quando e perché.
Il Cosa: le nuove sostanze si conoscono, basta fare una ricerca su internet, ecstasy, MDMA, francobolli facili da smerciare e da leccare, intrisi di droghe chimiche, sballo comodo da mescolare alla vecchia birra, o a cocktail che promettono stordimento immediato. E non ci sono solo le sostanze, le nuove dipendenze, le new addictions, imperversano. Poker on line, gioco d’azzardo, slot machines nei bar, dipendenza dal cellulare, dai social network, da internet, dalla pornografia, dallo sport compulsivo, dal lavoro, dallo shopping. Sono molti i comportamenti che ti portano a fuggire da te stesso.
“Ah beh, allora tutto può diventare dipendenza.” Direbbe qualcuno.
Sì, perché è nel meccanismo di fuga il nodo cruciale. Si dipende perché è difficile stare nel SENZA.
Perché? Chi si comporta così dice di divertirsi, di intrattenersi, di non pensare. Le droghe sciolgono paure e inibizioni. Ma anche i comportamenti compulsivi, nella coazione a ripetere, nel reiterare un rituale, permettono di non sentire dolore.
Fragilità e insicurezza, le vere malattie dei nostri giorni, sembrano sfumare, e chi consuma per qualche ora si sente più sicuro di sé, con dieci euro si compra l’illusione di essere sciolti, simpatici, disinibiti, brillanti. E non si sente la paura, lo smarrimento. Perché la paura della vulnerabilità rode dentro, sentirsi inadeguati, spaventa. Fa sentire non efficaci. E comprarsi una sicurezza finta distoglie dalla sensazione di vuoto, dalla paura di essere soli.
Il quando: è facile scappare, a tutte le ore, a tutte le età. Lo sballo, la fuga da se stessi sono facilmente reperibili. Credo invece che soffermarsi sul Chi sia importante.
Le dipendenze sono in agguato a tutte le età, poiché la fragilità non ha età. Tuttavia la comunità degli adulti ha delle responsabilità di passare dei significati, dei pensieri da approfondire, dare punti di riferimento a chi viene dopo. Gli adolescenti vanno protetti, e l’età in cui si adottano comportamenti lesivi diminuisce sempre più. Chi sono i ragazzini che sentono il bisogno di fumare canne prima della scuola? Chi sono i teenny che bevono un boccale di birra da un litro per fare un video, perché glielo hanno detto gli amici? Opporsi alla massa e alla pressione sociale è difficile per un adulto, figuriamoci per un adolescente che si sente invisibile, che sente di non avere potere di incidere sulla realtà. La paura di non essere nessuno, di essere “solo” fa sì che ci si uniformi, se non viene fatta una riflessione guidata, se gli adulti non si costituiscono sponde relazionali sicure. Come sostiene lo psicologo americano Bruner, chi è grande deve “tenere” come una impalcatura chi è più piccolo, trasmettergli saperi e sicurezze, fino a quando egli non è in grado di staccarsi e stare in piedi da solo.
Cosa succede ai nostri piccoli invece?
O li teniamo troppo o li mandiamo allo sbaraglio. Ma l’errore più grande della comunità degli adulti è di non educare allo spazio vuoto. Stare senza, da soli, non viene insegnato. La rete protegge, riscalda, la famiglia accoglie. Vero. E quando si insegna ai più piccoli a stare con se stessi? A differenziarsi dal branco? Il bisogno di emulazione è forte. Deve essere altrettanto forte anche il processo di individuazione, il coltivare il dialogo con se stessi, nel silenzio.
Allora magari c’è chi potrà dire” io no, grazie, la canna al mattino non mi serve, né mi serve lo sballo al sabato sera, non ho paura di stare con me, da solo, anche in mezzo a chi fa diverso.”
Educhiamo i nostri ragazzi alla autonomia vera, a staccare da tutto e fare una passeggiata da soli, a leggersi un libro per riflettere. Se i grandi non si fanno esempio, se le famiglie non collaborano “spegnendo” le stampelle a cui ogni giorno insegniamo i nostri figli ad attaccarsi, sarà difficile che abbiano il coraggio di differenziarsi dalla massa che impone stordimento come illusione di esistere e di valere.
Ci vuole molta forza d’animo per apprendere a stare con se stessi. E se non si impara questo passaggio si dipenderà a vita da qualcosa o da qualcuno. Educare a stare CON, ma a fare anche SENZA. E attraversare quello spazio vuoto che il saper fare da sé rende necessario.