La mattina della domenica 30 gennaio 1944, otto “borghesi”e un prete – don Pasquino Borghi – vengono condotti al poligono di tiro di Reggio e fucilati. Il colpo di grazia a don Pasquino viene dato da un ragazzo di appena quindici anni. La fucilazione è stata decretata dal fascismo locale come rappresaglia per l’omicidio di Angelo Ferretti, caposquadra della Guardia nazionale repubblicana eliminato da un commando gappista. La condanna sarebbe stata emessa da un tribunale speciale straordinario, ma studi recenti non riescono a trovare la conferma che il Tribunale stesso abbia potuto costituirsi o,comunque, agire secondo procedure minime di diritto giudiziario. Tutto ciò all’insaputa del vescovo Eduardo Brettoni che, secondo il Concordato di cui tanto il fascismo si vantava, avrebbe dovuto esserne immediatamente avvisato. Quella domenica mattina il vescovo celebrava in Ghiara una solenne commemorazione funebre per i caduti italiani dell’Istria, presenti le massime autorità della Provincia che lo ossequiano e nulla gli dicono di don Pasquino. Un comportamento subdolo che monsignor Brettoni non poteva aspettarsi, tanto più che il giorno prima, 29 gennaio, il Capo della Provincia Enzo Savorgnan (lo dice Brettoni in una lettera ancora inedita) era stato a colloquio con lui e, in via del tutto confidenziale, gli aveva preannunciato" «che fra breve sarà imposto agli abitanti della montagna di sfollare perché la guerra, evitando, pare, la pianura, passerà dai nostri monti». Da qui la famosa lettera del vescovo del 2 febbraio: «Una cosa sono in dovere di dire apertamente, come è la verità e come m’impone la coscienza del mio ufficio di vescovo; ed è che, quanto al resto, la condotta del sacerdote don Pasquino Borghi, sia quale cappellano curato, sia quale parroco, non ha patito eccezioni, e che per zelo generoso e desiderio di fare del bene senza badare a sacrifici, come anche per integrità di vita sacerdotale, io non ho avuto se non a lodarmi di lui». È un passaggio molto importante perché dopo quella condanna, se mai qualche prete reggiano aveva ancora dei dubbi, la Repubblica sociale stessa e il suo asservimento ai nazisti diventano definitivamente inaccettabili da tutto il clero reggiano e, come scrive don Vasco Casotti, entusiasmo e ardore del martire vengono centuplicati.
Ragionamenti antifascisti
Sulla figura di don Pasquino resta fondamentale quanto scritto da don Carlo Lindner che evidenzia le modalità della sua lotta resistenziale. Don Vasco Casotti aveva scritto che la venuta di don Pasquino a Tapignola (24 ottobre 1943) aveva portato in montagna un «calore guerresco». Pur avendo don Pasquino accettata l’ineluttabilità della resistenza armata, l’espressione va intesa nel suo giusto senso, come ricordava Dante Zobbi, il suo primo e fidato aiutante: «Trascorrevamo molte ore con don Pasquino; furono le sue istruzioni politiche a farci sentire il dovere di combattere il fascismo. [...] Ci faceva capire senza esporsi direttamente. Ragionando, ragionando, aveva creato un clima di avversione nei confronti dei nazifascisti». In questo suo “ragionare” sta la chiave prima del suo antifascismo. Come nei suoi confratelli di montagna (don Mario Prandi, don Paolino Canovi, don Battista Pigozzi, don Vasco Casotti, don Venerio Fontana), l’avversione al fascismo non è alle persone ma alle idee; ed è soprattutto qualcosa di propositivo. Lo dice una sua lettera scritta il 30 gennaio 1942 a un amico di Cànolo richiamato alle armi:«Si parla tanto di ordine, di giustizia, di pace duratura, ma senza la pratica della legge di Dio credi pure che tutto si riduce a delle parole inutili e vuote». Una riflessione, come si può ben vedere, rivolta non solo al fascismo. Nel clima di ribellione armata, il rispetto della vita rimane per lui fondamentale. Come dimostra il salvataggio del disertore tedesco, inviatogli dal professor Pasquale Marconi, che i partigiani rifugiati nella sua canonica volevano senz’altro fucilare.
Santi e missionari
La sua formazione riporta l’attenzione sull’educazione nei seminari reggiani (Marola 1916-1921, Reggio 1921-1922). Innanzitutto su quello di Marola nel quale i giovani ginnasiali compiono un primo discernimento vocazionale. Benché vestano la talare dei preti, l’orientamento non è alla vita ecclesiastica, ma, piuttosto, alla santità di vita. Lo si legge chiaramente nel suo diario interiore alla conclusione della quinta ginnasio: «Devi farti santo o per amore o per forza, ché i mezzi li hai. Studia, studia, studia; prega, prega, prega e sii allegro in Domino». Sono gli anni che seguono la Grande Guerra; una stagione ineguagliata di vocazioni missionarie che mai più si vedrà nei seminari reggiani. Tanti andranno missionari in Africa o in Asia. Tra i più noti i padri Leone Zanni, Alceste Corbelli, Cesare Bezzecchi, Luigi Valcavi, Gisberto Cocconcelli e, appunto, Pasquino Borghi. Ma anche coloro che resteranno in diocesi vivranno – e lo introdurranno tra i confratelli – uno spirito di dedizione missionaria che rivelerà i suoi frutti proprio durante la seconda guerra mondiale. Questa felice stagione – una vera e propria stagione di santità – non va ricercata nella propaganda degli istituti per le missioni ad gentes. Ora che tanti profili biografici dei preti reggiani vanno emergendo dalle ricerche storiche, si può affermare che essa ha la sua radice in una educazione seminaristica che mira al dono totale di sé nella carità, al significato di un sacerdozio centrato sulla sua missione di salvezza e di evangelizzazione, in un clima di vita povero e austero, ma altrettanto sereno e allegro. Nel 1922 Pasquino Borghi è nella camerata di San Francesco del Seminario urbano. I suoi compagni sono Ferdinando Fulloni, Alberto Zuliani, Oreste Gambini, Umberto Pessina. Redentore Ollari, Giuseppe Vezzani, Lino Vernazza, Arturo Tondelli, Giuseppe Alessandri, Attilio Taddei, Cesare Cilloni, Celeste ed Ettore Ilariucci, Alfredo Folloni, Mario Bertini, Carlo Terenziani, Cesare Bezzecchi, Giovanni Reverberi, Igino Lombardini, G. Strozzi, Savino Bonicelli, Dino Torreggiani, Giovanni Palazzi, Gisberto Cocconcelli, Giuseppe Gobbi, C. Rivoli, Mario Grazioli, Alberto Ugoletti, Igino Gori, Vincenzo Pifferi, Beniamino Gatti. Ventinove diventeranno preti. Pubblicando la fotografia del gruppo, Sandro Spreafico vi appone una didascalia quanto mai significativa del clima formativo vissuto da quei giovani: «La Camerata San Francesco di Sales come sintesi eloquente e drammatica di un quarto di secolo di storia della Chiesa. I suoi componenti sono attesi ad orientare l’Azione Cattolica, a fondare oratori cittadini e nuovi istituti religiosi, a diventare guide e maestri di vita spirituale, a sperimentare il campo di concentramento, a morire di morte violenta in tre, travolti dalla guerra civile o dalle sue subitanee conseguenze».
Da Torit a Tapignola
Il 5 aprile 1930, Pasquino viene ordinato sacerdote e inviato nella missione di Torit, nel sud Sudan, quasi ai confini con l’Uganda. Una missione impegnativa, in mezzo a popolazioni nere ad uno stato economicamente primitivo,delle quali si ingegna a imparare lingua e tradizioni. Nel 1937 scampa a un attacco di “cerebro-malaria” che lo costringe a rimpatriare. Nel 1938 si fa certosino a Farneta di Lucca, in quel monastero che sei anni dopo, distrutto dai tedeschi, vedrà l’impiccagione di 12 religiosi. Ragioni di famiglia, sulla fine del 1939, lo inducono a rientrare nel clero diocesano. Dal 6 gennaio 1940 è cappellano coadiutore a Cànolo di Correggio, dove affianca don Mario Grazioli, che sarà poi deportato a Mauthausen. La sua esperienza missionaria, il suo vedere le cose dell’Italia da lontano, gli consentono di cogliere i condizionamenti ai quali il monopolio fascista dell’informazione assoggetta gli italiani, di ricostituire scale obiettive di verità e di valore, di evidenziare i vuoti della retorica fascista smascherandone, soprattutto, lo sfruttamento del nome cristiano. Non valgono a fermarlo i ripetuti avvertimenti delle autorità civili e di polizia. È forse per toglierlo dai rischi conseguenti che il vescovo gli chiede di salire a Tapignola, fuori del mondo, come si sarebbe detto allora? Sono domande ancora senza risposte. Ma a Tapignola don Pasquino trova una inimmaginabile prosecuzione della sua attività contro dottrine e comportamenti sociali dei nazifascisti. L’aiuto ai prigionieri alleati in fuga ed ai primi partigiani – ai quali dona i suoi stessi effetti personali – gli appare come una opera di carità e quindi irrinunciabile. La montagna dilata il suo agire aperto, senza mascheramenti. Ancor più imprudente? O ancor più caritatevole? I richiami di chi, pur condividendo le sue scelte, lo vuole più prudente, sembrano cadere nel vuoto. Sembra farsi più cauto solo quando ne va della vita altrui. Il 27 dicembre 1943 scrive al vescovo: «Ho l’impressione che stiamo tornando ai tempi delle catacombe. Ad ogni modo, fiat voluntas Dei. Mi benedica». L’11 gennaio 1944 don Angelo Cocconcelli e Giuseppe Dossetti lo mettono ancora in guardia. Occorre mandare altrove i partigiani. «Ma dove li mando, questi poveri ragazzi, se nessuno li vuole ospitare», osserva, e continua a fornire la consueta ospitalità ai partigiani. E sarà proprio per aver dato loro ospitalità che verrà arrestato il 21 gennaio 1944, carcerato a Reggio e a Scandiano, per essere poi portato davanti al plotone di esecuzione.
(Giuseppe Giovanelli)
(Tratto dal settimanale diocesano di Reggio Emilia-Guastalla "La Libertà", 25 gennaio 2014)
Da villaminozzese voglio ricordare anche il leggendario partigiano anarchico, volontario della guerra civile spagnola, Enrico Zambonini detto “Faìn”, fucilato lo stesso giorno insieme a Don Pasquino Borghi a Reggio Emilia! Onore anche ad un grande combattente!
(Mauro Pigozzi)
Molto accurata ed esauriente la ricostruzione della vita e della morte di don Pasquino Borghi, scritta dallo storico prof. Giuseppe Giovanelli. Sono passati 70 anni da quando la mattina del 30 gennaio del 1944 sette civili e un prete furono portati al poligono di tiro di Reggio Emilia per essere fucilati alla schiena. Don Pasquino, parroco di Tapignola, era stato arrestato il 21 gennaio e condotto a Scandiano e poi a Reggio. La sentenza per queste otto persone pare, come scrive il Resto del Carlino del 2 febbraio 1944,sia stata pronunciata il giorno 29 dal Tribunale Speciale Straordinario di Reggio Emilia con l’accusa, per don Pasquino, di favoreggiamento e ospitalità ad una banda armata e a prigionieri nemici; sentenza da eseguirsi immediatamente, cioè la mattina dopo. Il Vescovo Eduardo fece sapere ai sacerdoti gli ultimi momenti di vita di don Borghi, come aveva saputo da un testimone diretto: “Egli si è confessato, ha ricevuto la Santa Comunione, ha rivolto agli altri condannati esortazioni di fede e di rassegnazione cristiana. Ha detto di accettare la morte per il bene della Diocesi e per ottenere la grazia della cessazione di tutti i mali che affliggono il Paese. ‘Chiedo perdono a tutti, dispiacente del dolore che recherò a Mons. Vescovo e ai miei confratelli’. Poi, forte e sereno, si portò sul luogo della esecuzione, pregando”. Mi sono permessa di aggiungere nel ricordo che ho voluto dedicare a questo eroico prete, ucciso dai nazi-fascisti per aver dato aiuto e ospitalità ai partigiani, le notizie sul tribunale speciale e sulla esecuzione che ho letto sul libro “Le Fiamme Verdi”, a cura di Luca Pallai.
(Paola Agostini)
Don Pasquino Borghi e Enrico Zambonini! Ricordiamoli sempre con onore!
(Aurelio Corsini)
Devo dire che il mio articolo su don Pasquino Borghi, così come mi era stato richiesto dal Direttore de “La Libertà”, non aveva lo scopo di ricostruire, per quanto sommariamente, l’intera vicenda della sua vita e della sua morte. A ciò non è bastato neppure il corposo volume edito nel 2004 da Istoreco e Comune di Bibbiano dal titolo “Il tempo e la vita di don Pasquino Borghi”. L’articolo voleva sottolineare uno degli aspetti meno noti: la sua formazione alla santità entro la quale si spiegano le sue vicende di missionario, di certosino, di parroco in una delle più remote parrocchie della nostra montagna. E già che si vogliono correttamente ricordare altri martiri fucilati insieme a lui, allora è giusto ricordarli tutti, prendendo l’elenco, sia dal dispositivo della Sentenza (pubblicato nel libro di Pallai), sia dalla lettera inviata dal Prefetto Enzo Savorgnan ai Podestà dei Comuni di Correggio, Rio Saliceto e Villaminozzo (prot. P.S. 513 del 31 gennaio 1944): 1) Destino Giovanetti, 2) Ferruccio Battini, 3) Enrico Menozzi, 4) Romeo Benassi, 5) Umberto Dodi, 6) Dario Gaiti, 7) Contardo Trentini, 8) don Pasquino Borghi, 9) Ernesto Zambinini.
(GG)
Ho visitato la mostra dedicata a Don Pasquino Borghi nella Basilica della Ghiara ed è stato un momento veramente emozionante e di profonda riflessione sulla barbarie umana, senza distinzione di “colore politico”. Rolando Rivi e Don Pasquino Borghi stanno a testimoniare che l’unica strada percorribile è quella dell’amore e del rispetto reciproco e che l’unica vera bandiera da seguire è quella di Cristo Signore.
(Ivano Pioppi)