Ogni zona della terra è da sempre colpita, periodicamente, da calamità naturali. La loro forma ed intensità sono variabili di volta in volta, come le conseguenze prodotte nell'ambiente.
Le più sconvolgenti avvennero in epoche lontanissime, così da non consentire neppure una loro collocazione temporale più che approssimativa. Ma anche altre, di minore entità, hanno accompagnato la storia antica del nostro pianeta, prima ancora che l'uomo vi facesse la sua comparsa.
Tutto ciò dimostra come certi eventi naturali, nel passato e nel presente ma anche nel futuro, possano ritenersi indipendenti dal fattore antropico.
E' indubbio, tuttavia, che la presenza dell'uomo abbia contribuito alle mutazioni ambientali ed ancor più nei tempi moderni in cui i mezzi utilizzati per l'esercizio delle attività umane sono divenuti sempre più numerosi ed aggressivi.
Spesso, però, a causare disastri, soprattutto in montagna, è l'incuria o l'omissione delle pratiche, semplici ma preziose, di sorveglianza e di protezione di un territorio che oggi, per giunta, è sempre meno tutelato a causa dell'assenza dei contadini.
E di ciò la cronaca è spesso testimone. In questi giorni (non serve andare lontano: Sardegna, Basilicata...) ma anche nei tempi passati.
Alla fine di marzo del 1697, ad esempio, poco mancò che una grossa frana, scesa dal monte Castello, seppellisse l'intero abitato di Castelnovo ne' Monti. Pare di capire che fosse il primo evento di tale portata a colpire il nostro paese almeno nel periodo estense, cioè dal 1420 circa in poi. Pare anche che non avesse provocato vittime e di ciò il podestà, forse un tantino furbescamente, non mancò di ascriversi il merito. Il monte di cui si parla a quei tempi non portava il nome odierno ma è proprio quello sulla cui sommità sono ancora visibili i resti della rocca matildica già allora in rovina. Le sue pendici erano aride e solo in parte ricoperte da una rada macchia di cespugli e sterpaglie (foto 1).
Il movimento franoso avvenne dalla parte che oggi guarda la piazza del mercato e, dal rapporto inviato dal podestà al duca Rinaldo d'Este, si apprende che la frana fu dovuta alla trascuratezza nella manutenzione del territorio e, in particolare, alla mancata regimazione delle acque piovane fluenti a valle del ripido pendio.
Podestà era il dott. Giulio Rossi, scandianese, abitante a Castelnovo con la moglie Beatrice dal luglio del 1694. E' ricordato perchè un anno dopo il suo arrivo, e con reiterate richieste al governo di Modena, aveva ottenuto di trasferire la podesteria e la propria residenza dal palazzo “della fontana”, dove i podestà risiedevano dal lontano 1540, ad un altro poco distante. Nella vecchia residenza aveva sistemato gli otto birri con le loro famiglie. Le spese di questi trasferimenti, ovviamente, erano andate a carico dei sudditi castelnovesi presso i quali, dunque, il podestà non godeva buona fama.
Tornando al nostro caso, il 27 marzo 1697 il Rossi scrisse una allarmata lettera al duca Rinaldo.
La riporto integralmente con qualche piccolo aggiustamento, soprattutto nella punteggiatura, finalizzato ad una migliore comprensione del testo.
Serenissima Altezza, circa il mezzo del Monte che copre questa terra (= paese) da mezzo giorno s'è scoperta ieri l'altro d'improvviso e di sotto la neve una Lavina che, circondando da detta parte essa terra tutta assieme a con molte acque di sotto terra, si crede che abbi: divelto dai fondamenti 4 case intiere o tegge (= fienili); necessitato a demolire quasi affatto due edifizi contenenti 14 botteghe; smosso con pericolo da 8 a più case, una delle quali – dei fratelli Pacchioni – è delle più forti; e portato grave sospetto per tutte l'altre del paese. Tutto principalmente intento, a nome di Vostra Altezza Serenissima, a preservare questa terra dai primi morti, ho fatto uscire da più parti le acque e la neve sotterranee e sgravare dappertutto da quelle, col minor danno e dispendio possibile. Onde, fuoruscite assai acque che sotto minavano, si spera di fermare la suddetta frana molto indebolita, almeno in apparenza, continuando a soddisfare al bisogno. Benchè, essendo sotto terra la radice e causa prossima del male, non mi arrischio del tutto a far lavorare perchè dubito sopra l'effetto desiderato non sapendo dove trovare uomini esperti in questi lavori. Credo che il tutto sia causato dall'aver lasciato richiudere, rendendoli infruttuosi, i fossati che scaricavano il monte e le parti del paese poste lungo le sue pendici. Purtroppo a questa trascuratezza sono dediti alcuni, da queste parti, come riportai nella mia relazione sulle acque. Perciò credo sia necessario, appena il tempo sarà migliore, far tornare in esercizio i vecchi Cavi ritrovati in questa occasione e mantenerli per il bene pubblico, con quant'altro l'esperienza mostrerà essere propizio.
I “Cavi” di cui parla il podestà erano tubazioni in materiale cotto che venivano stese lungo le pendici del monte per captare le acque e convogliarle a valle dell'abitato o al di fuori di esso.
Dagli anni trenta del secolo scorso “il Monte che copre questa terra” è ricoperto da una fitta boscaglia di conifere il cui radicamento, oltre a renderne più amena la vista, dovrebbe impedire lo slittamento del terreno a valle.
Le conseguenze di un evento come quello del marzo 1697 oggi sarebbero ben più gravi per via dell'attuale intensa urbanizzazione in quella zona del nostro paese (foto 2).
Ma siamo anche sicuri che oggi quel fresco, ombroso e ripido pendìo non manchi di periodici, puntuali ed attenti controlli.
E non c'è alcun dubbio che anche il podestà Giulio Rossi da Scandiano, per una volta, sia d'accordo con noi.
(Corrado Giansoldati)
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Fonti consultate:
Archivio di Stato di Modena, sezione “Rettori dello Stato”
Archivio storico parrocchiale di Castelnovo ne' Monti
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