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“Tulèm la lûš e po’ i’ gh’ vedrî”

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interruttoreinterruttoreLA LUCE ELETTRICA A CASTELLARO

La guerra era finita da più di un anno, ma la ripresa era incerta. Non tutti gli uomini, sorpresi lontano o deportati a forza, erano rientrati. Con l’angoscia dei familiari, impossibilitati a sapere se erano ancora vivi. A casa nostra era andata bene: i due considerati dispersi (zio Nello in Jugoslavia e zio Candido in Grecia) erano rientrati. Di tanto in tanto qualcun altro arrivava, sopravvissuto ai campi di Polonia o Germania, o al fiasco dell’Armir in Russia, grato alle famiglie della steppa che gli avevano dato ospitalità per superare il ciclone dell’inverno e della guerra, indipendentemente dal colore della divisa.

Intanto si cercava di cicatrizzare le ferite della guerra ricompattando quel poco di benessere sopravvissuto alla bufera e ripararne le falle. In particolare l’Emiliana, la società elettrica che riforniva parte del territorio della provincia, contava i danni subiti: tralicci abbattuti, centrali fatte saltare, linee di distribuzione da ricostruire. Quassù da noi era stato possibile salvare la centrale di Ligonchio dalla furia tedesca grazie ad una operazione strategica organizzata dai partigiani. Ed era stato un evento di portata storica. In pianura invece molte linee erano state demolite per impedirne l’utilizzo ai “nemici”, cioè alla gente comune. Perché il sospetto era che il popolo simpatizzasse per i ribelli.

Così, sul finire del ’46, gli amministratori della Emiliana si recarono nei nostri villaggi in cerca di pali di castagno per rabberciare, almeno in parte, le linee degli utenti civili in pianura. Fortuna volle che ne trovassero da noi una discreta quantità di quei bei pali di castagno selvatico, cresciuti a Nord (a Sud i terreni erano coltivati a campo), capaci di durare di più nel tempo rispetto ad altri alberi.

Ci fu la classica riunione dei capi famiglia e dei rappresentanti della ditta per studiare un piano interessante per ambo le parti. Castellaro e dintorni non avevano ancora la corrente elettrica. Era l’occasione per ovviare tirando la linea da Pietranera a Castellaro-Donadiolla. E c’era chi si atteggiava ad intellettuale, prodigo di consigli per convincere gli altri sull’utilità di avere la corrente elettrica, la Lûš, come veniva definita allora. “Tulèm la lûš e po’ i’ gh’ vedrî” diceva Marchèt da la Cêša con fine ironia in una situazione analoga alla nostra.

E questi furono i patti: l’Emiliana avrebbe messo a disposizione spezzoni di cavi dell’alta tensione recuperati dalle linee danneggiate in pianura dai bombardamenti o dalle rappresaglie, coi quali si poteva mettere insieme la linea necessaria per portare la corrente fino a Castellaro. In cambio chiedeva l’equivalente in pali di castagno. Certo il lavoro era lungo e certosino: bisognava disfare le corde di rame per ottenere un filo singolo, poi saldare i pezzi tra di loro fino ad ottenere la misura necessaria per raggiungere Pietranera. Inizialmente si pensava di scendere giù sotto il Sasso della prigione fino al mulino Rinaldi poi salire dritti a Castellaro, la via più breve. Ma nel frattempo si erano mossi anche gli abitanti di Casalecchio e Legoreccio, decisi anche loro a dotarsi di linea elettrica. Fu scelto allora di spostare il primo tratto di linea in direzione Mulino dei Paoli, poi, da qui, una linea si dirigeva verso La Capanna - Legoreccio e un’altra verso Casalecchio per scavalcare poi il monte Martino e raggiungere Castellaro e Donadiolla.

Per alcuni mesi fu tutto un lavorare frenetico. Gli uomini si erano divisi in squadre: chi provvedeva a piantare i pali, chi a pulire il bosco sotto le linee, chi a saldare i fili disponendoli in matasse da trasportare lungo il percorso della linea, e chi li tirava e li fissava agli isolatori. Alcuni tecnici dell’Emiliana predisponevano gli impianti nelle case, essenziali al massimo (una lampada, un interruttore), aiutati da qualche volenteroso ragazzotto del luogo. Le saldature dei cavi si facevano ancora col saldatore arroventato al fuoco, e si usava un acido per togliere l’ossido dai fili prima di fondervi sopra lo stagno.

Arrivò finalmente il momento di allacciare la linea. Unico inconveniente il limitatore al posto del contatore. Questo strumento consentiva il passaggio di una quantità minima di forza elettrica, superata la quale le lampade accese cominciavano a ballare, spegnendosi e accendendosi fino a quando una di esse veniva spenta. In più sopravviveva l’idea che bastava poca luce, il necessario per non andare a sbattere nei passaggi tra una stanza e l’altra o lungo le scale. Per cui nelle famiglie si usavano le famigerate lampadine da tre candele (tre watt). Al massimo, in cucina o nel salotto, si raggiungevano le 15 candele.

Lo staff dell’Emiliana aveva scelto Castellaro come sede operativa. Da lassù si poteva vedere Pietranera per eventuali comunicazioni. Ma c’era anche un altro motivo: a Castellaro avevamo una sala capace di ospitare una ventina di persone, e, quindi, la possibilità di organizzare la magnàsa. I tecnici, abituati ad altri ambienti ben più illuminati, esclusero il limitatore di casa collocando nella sala una lampada da 100 watt. Il che non fu gradito agli altri capifamiglia del borgo. Credevano che una grossa lampada, assorbendo più energia, la sottraesse agli altri utenti. Come se si trattasse di una conduttura d’acqua. E ci fu anche chi fece il furbo, ma questo fa parte di un altro capitolo. Io preferisco ricordare quella specie di faro lassù sulla costa e gli operai intenti a fare onore alla cuoca per l’abbondanza di carne di maiale messa a loro disposizione.

4 COMMENTS

  1. Interessante memoria storica. Mi piace pensare che anche i “Rosati” abbiano contribuito nel loro piccolo a convincere le genti del luogo alla utilità della luce elettrica. Al mulino Rosati loro la producevano ante litteram con l’acqua del Tassobbio.

    (Ilde Rosati)

    • Firma - ilderosati
  2. “Tulèm la lûš e po’ i’ gh’ vedrî”…
    e continuava:
    e axe jan fàt
    van da Gàli
    iàn cumbina,
    cata iomi
    i sen sgagià
    ma a far l’impiant i sen sbaglià…

    e cominciava così:
    Rivulvèc l’è un bel paisìn
    tòc parent quasi cusin…

    Chiedo scusa ai puristi del dialetto. Non ricordo chi la recitasse dei miei compagni di scuola, ma fu recitata alla radio per le scuole, in collegamento dalle scuole elementari che erano lì, davanti alla casa di Marconi, dove adesso c’è il Polivalente.

    (Giovanni Annigoni)

    • Firma - Giovanni Annigoni
  3. Grazie, signor Annigoni. Fa piacere incontrare chi ricorda le vecchie satire. Ormai se ne è persa ogni traccia. Io ho la fortuna di possedere la copia di “Il Cantastorie” (Anno XX°, 1963-1982) ove il prof. Giuseppe Giovanelli propone la biografia di Marco Castellari. Come Marchèt ci sono tanti altri satirai dimenticati, i cui componimenti ci permetterebbero di ricostruire abbastanza fedelmente degli spaccati della società di allora, ma anche di suggerire i principi morali che permettevano a quella società di progredire. Se è a conoscenza di altri frammenti, o satire intere, o satirai che non conosco, avrei piacere di raccoglierle. Ne ho di Isaia, di Ricciardo Guidetti, di Jàcme da la Cêša, di Enrico Rosati e frammenti di altri, anonimi. Semmai ci si potrebbe incontrare. Di nuovo grazie.

    (Savino Rabotti)

    • Firma - Savino Rabotti
  4. Leggere il titolo che ha dato al Suo articolo, signor Rabotti, mi ha prodotto un flash nella memoria dove, in modo non nitido, ho rivisto il direttore Cagnoli, i maestri Torlai e Tondelli e i bambini e le bambine, noi, nel grembiulino nero. Ricordavo, ma ho voluto controllarlo in internet, che il conduttore di quella trasmissione, la radio per le scuole, era Silvio Gigli. Non ho un background: è solo ritornato un ritmo di una voce, questo sì nitido e di bambina, che recitava quella satira a filastrocca.

    (Giovanni Annigoni)

    • Firma - Giovanni Annigoni