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La sagra di un tempo

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Madonna addolorata di S. Stefano
Madonna addolorata di S. Stefano

Un passo indietro nel tempo. Intorno alla metà del secolo scorso Sagra voleva dire rivedere una buona parte dei parenti che abitavano in un’altra parrocchia e stare con loro almeno mezza giornata. Voleva dire indossare i vestiti dalla festa per tutta la giornata, andare alla Messa solenne e, per noi bambini, potere suonare le campane al termine delle cerimonie. E anche trovare i cappelletti a pranzo, unica occasione nell’arco dell’anno.

Il clima di festa lo si respirava già qualche giorno: il triduo di preparazione ci portava alla chiesa parrocchiale per ascoltare il fervorino. I propositi, in quei momenti, erano sinceri: impegno sotto ogni aspetto. E all’uscita dal ritiro potevamo giocare con i compagni che non vedevamo più dal termine dell’anno scolastico.

La nostra frazione, Castellaro, dista circa quattro chilometri dalla chiesa parrocchiale di Santo Stefano, e le strade del tempo di agevole avevano solo il nome. Di solito il parroco veniva nel nostro oratorio per consentire agli ammalati e agli anziani del borgo di potere assistere alla Messa. Ma quel giorno toccava a noi andare alla chiesa madre. C’era una prima messa per le Rešdôre, per permettere loro di avere il tempo sufficiente per preparare il pranzo. La messa solenne era intorno alle undici. Per la messa cantata il parroco trovava collaborazione nei confratelli vicini, uno scambio di servizi consolidato, e nel frate missionario che veniva a predicare per il triduo di preparazione e la festa.

Finita la messa in chiesa si verificava tutto un trambusto per prepararsi alla processione. Le donne appartenenti alle confraternite, con medaglia e nastro azzurro al collo e un cero in mano, si mettevano in fila e creavano un gruppo omogeneo, riconoscibile all’interno della processione. Alcuni uomini inserivano le stanghe alla base del trono della statua poi, in quattro, se le appoggiavano sulle spalle. Al loro fianco altri quattro pronti a dare il cambio.

Nella confusione c’era chi tentava una furtiva carezza al piede della Statua. Quel gesto diventava un filo diretto con la Madonna. Significava comunicare con la Madre comune e raccontarle pene e dolori a lungo soffocati in fondo al cuore. O anche chiedere lume sul modo di educare i propri figli. In periodo di guerra diventava richiesta di protezione per i propri cari lontani.

In testa al corteo un chierichetto portava la croce “astile” e sbirciava alle proprie spalle per stabilire l’andatura una volta pronta la processione. Davanti alla statua della Madonna altri due chierichetti, uno con la navicella dell’incenso e l’altro con il turibolo dondolato solennemente per non lasciarlo spegnere. Dopo di questi venivano i tre concelebranti che alternavano preghiere a canti mariani, poi, dietro al trono con la statua della Madonna, il resto della gente, rigorosamente in un ordine caotico. La processione si svolgeva lungo il perimetro della canonica e della chiesa, fino a ritornare sul sagrato. Qui il celebrante (di norma il parroco) impartiva la benedizione verso i quattro punti cardinali per coprire tutto il territorio parrocchiale. Ed era sorprendente costatare come i portantini, (che nel frattempo avevano abbassato il baldacchino), seguissero le parole del sacerdote nell’interpretare un segno della croce con la statua.

Appena riposta la statua in chiesa i chierichetti si precipitavano nella stanzetta bassa del campanile per scatenare un concerto di campane il cui ritmo era difficile da decifrare, ma dava comunque un senso di allegria. Ricordo che una volta ci fu, tra i chierichetti, chi volle sfidare le forze di gravità. Si aggrappò alla corda della campana, ma si ritrovò a dare una zuccata contro l’assito del soffitto.

Poi si tornava a casa dove il pranzo era pronto, giusto in tempo per mettersi a tavola. Quella che, con malcelato orgoglio, chiamavamo la sala era destinata ai commensali adulti. Noi ragazzi e le donne addette alla cucina rimediavamo un angolo sul Tulêr, sopra la madia. Ci bastava. E ci consentiva di sgattaiolare fuori a giocare anche se il pranzo non era ancora concluso. Gli adulti invece la tiravano per le lunghe. Tanto per le lunghe che, a volte, prima che si alzassero da tavola, veniva servita anche la cena. Come passavano quelle ore gli adulti? Mentre il capofamiglia mesceva vino a più non posso i discorsi vagavano dagli interessi ai raccolti, ai figli lontano, all’andamento del mercato del bestiame o del latte. In qualche angolo della casa c’era anche un mazzo di carte che aiutava alcuni ospiti a far trascorrere il tempo. Ad una certa ora se ne andavano i parenti che avevano la stalla da accudire. Chi invece era libero da impegni si intratteneva anche a cena. Poi, quando il buio e l’effetto lambrusco suggerivano di non mettersi in viaggio, si rimediava un giaciglio alla meglio. Il giorno dopo si riprendeva. Era il lunedì della sagra e quindi, più per voglia che per precetto, era festa.

Il piatto forte della sagra erano i cappelletti cotti rigorosamente nel brodo di cappone. A volte si faceva un altro primo. Potevano essere tagliatelle al ragù o ai funghi, oppure i tortelloni. Come secondo c’era il lesso utilizzato per fare il brodo, poi l’arrosto di coniglio. E come contorno insalata e patate cotte nel forno a legna insieme all’arrosto. La torta di riso o quella di tagliatelle facevano da splendida cornice a tutto quel ben di Dio. Non c’era ancora l’usanza del caffè. E neppure dei digestivi. E ... quel vinello somministrato con abbondanza e frequenza costringeva gli ospiti ad alzarsi spesso per andare a fare spazio ad altri bicchieri.

Da noi la sagra “cadeva” in Settembre, la domenica prima del 15. Era un ottimo periodo: dopo i raccolti, dopo i pesanti lavori estivi e prima di riprendere l’avventura di un altro anno lavorativo con la semina. Lo si capiva anche dal volto disteso del Rešdûr.

 

5 COMMENTS

  1. Chi ha la mia età può certamente ricordare le sagre di una volta, le cosi dette Madonne, quando le massaie dovevano economizzare tutto l’anno sulle spese di casa per arrivare a quei giorni e potere dare sfoggio a tutta la loro bravura nel cucinare i migliori cibi di tutto l’anno. Vi erano due giorni durante tutto l’anno che si potevano gustare le migliori leccornie, il giorno della sagra ed il giorno o i due giorni che si trebbiava il grano; anche in quei giorni le massaie facevano a gara a chi cucinava meglio per i macchinisti, perchè poi la voce si diffondeva tra gli addetti alla trebbiatura e ricordo che i più anziani andavano sempre dove si mangiava meglio. Ai marmocchi toccavano i posti dove la padrona di casa era più tirchia e cercava di economizzare anche in quei giorni che dovevano essere di grande festa. Ricordo sempre a tale proposito un aneddoto, un ragazzino che spesso chiedeva a suo papà “Pà quand el al di che es mangia à sa” (“Papà quand’è il giorno che si mangia abbastanza?”), riferendosi al giorno della Madonna.

    (Beppe Bonicelli)

    • Firma - BonicelliBeppe
  2. Un ricordo a mio zio Roberto Arlotti di Castellaro di Vetto, 1947-1978. La sua ultima sagra é stata nel 1977. L’ultima sagra con famiglia completa. Un ricordo anche a mia nonna, Maria Tommasi in Arlotti, 1912-1985. La sua ultima sagra nel 1984. Come descrive il signor Rabotti, immancabili i cappelletti, i due secondi (lesso e arrosto) e la torta di riso.

    (Marco Fedolfi)

    • Firma - Marco Fedolfi