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Sonny: “due metri di uomo di colore; imponente come una montagna, ma così lento, sorridente e benevolo da trasformare la sua fisicità, da temersi, in una presenza quasi rassicurante”

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Pubblichiamo quanto trasmessoci da un nostro lettore che desidera restare anonimo, tuttavia, chi fosse interessato a dare una mano a Sonny può segnalarlo alla redazione con una mail ([email protected]) corredata da riferimenti (mail, telefono,...) che verrà inoltrata a chi ci ha scritto.

“Dio lo sa, amico! Dio sa tutto”

 Non ricordo una sola visita di Sonny a casa nostra, che non si concludesse con il nome di Dio.

Non invano, come il nostro blasfemo orecchio sociale ci ha purtroppo abituati, ma solo per chiedere benedizioni per noi, i nostri figli, mentre lui, grato, se ne tornava al suo “altrove”, portando con sé, come un tesoro, il nostro superfluo, o al massimo, il nostro “facilmente sostituibile”.

Lo abbiamo conosciuto circa cinque anni fa. Era capitato nel cortile dove abitavamo allora: due metri di uomo di colore; imponente come una montagna, ma così lento, sorridente e benevolo da trasformare la sua fisicità, da temersi, in una presenza quasi rassicurante.

Arrivava col suo borsone nero, il cui contenuto, però tardava ad esporre, quasi non fosse lì per venderlo, ma solo per interessarsi a te, alla tua vita… per conoscerti, come farebbe un amico di ritorno da un viaggio, che fosse passato a salutare, prima di tornare alla propria casa e nel borsone ci fossero, in realtà, i suoi effetti personali.

Le visite avevano forse una cadenza regolare, ma la percezione era quella di un casuale susseguirsi di incontri, di calze di spugna e fazzoletti, durante i quali lo “sconosciuto” diventava “famigliare”.

Durante le chiacchierate si affacciava, di tanto in tanto, come una scenografia intuita dietro un sipario timidamente socchiuso, quella che era la sua vita “altrove”.

“Bevi un caffè, Sonny?”

“Si, si, si!”

Quanti “si” diceva Sonny! Quasi temesse che la singola parola fosse di poco peso e, pronunciata una volta sola, non contenesse abbastanza gratitudine.

Mettevamo su la Moka; riempivamo le tazzine, niente zucchero… “Brutta malattia il diabete, Sonny, mi dispiace!”

“No, no, no! E’ l’insulina che è una buona medicina! Con l’insulina io sto bene!”

Sonny era venuto dalla Nigeria, regolarmente, con un probabile bagaglio di cose da dimenticare e qualche speranza per sé e la sua famiglia.

Nel suo paese aveva studiato: qualcosa tra il ragioniere ed il commercialista; parlava quattro lingue tra cui un italiano chiaro, ma con un buffo accento nasale che ricordava  Mamy di “Via col Vento”.

Così ci aveva parlato del padre infermo, venuto poi a mancare… “laggiù” in Africa, mentre i miei figli gli chiedevano se a casa sua ci fossero leoni e giraffe, quasi gironzolassero come originali animali da cortile…

Quello che invece era più vicino, anche se comunque “altrove”, era il suo lavoro in ceramica, svanito con la chiusura dello stabilimento, erano i brevi periodi di impiego qua e là, intervallati da lunghi periodi col borsone.

Di vicino, anche se “altrove”, c’erano i suoi bambini: tanti, sei; il primo di 11 anni, fino all’ultimo, nato quest’anno, ma che aveva avuto problemi respiratori durante l’inverno ed era stato ricoverato…

Una famiglia importante per un padre orgoglioso… senza lavoro.

Con quel sorriso così famigliare, anche se malinconico, ci aveva un giorno comunicato la sua decisione di portare in Nigeria il maggiore dei figli, almeno fino a quando non fosse riuscito a trovare un impiego.

“Laggiù” la vita costava poco… “laggiù” lo poteva mantenere… qui, non più.

Questo aveva promesso al suo bambino: solo fino al giorno in cui avesse trovato un lavoro.

Suo figlio non l’aveva presa bene; unico dei figli a doversi allontanare: troppo grande per arrogarsi ancora la vicinanza stretta di mamma e papà e troppo poco uomo per pensare di mantenersi economicamente, in un paese ricco solo per gli altri, che negava persino al suo colossale papà, la possibilità di lavorare.

Si guardava le mani Sonny e mi faceva pensare al Mangiaroccia, un personaggio del film “La Storia Infinita” che avevo visto da bambina e che, ricordo, ripeteva che si sarebbero dette due mani grandi e forti le sue; ciononostante, non erano state in grado di trattenere le persone a cui teneva, che gli erano state strappate via dal Nulla.

Le visite erano poi continuate, come prima. Lui arrivava con una macchina non sua che addomesticava temporaneamente la sua figura, per il tempo necessario ad arrivare da Modena a casa nostra.

Scendeva ed aspettava un po’ prima di avviarsi: come per riabituarsi alla sua statura, prima sincopata nell’abitacolo, o forse per dare tempo alle cose e persone attorno, di abituarsi alla sua imponenza… poi arrivavano la sua voce baritonale che intonava il suo allegro saluto e l’andatura quasi danzante.

Era diventato più malinconico , negli ultimi tempi: il terremoto, la crisi che non faceva intravvedere soluzioni a breve, né per sé, né per altri; il piccolo, fragile di salute, il suo ragazzo lontano che, sempre, al telefono gli chiedeva di tornare a casa…

L’ultima sua visita era stata diversa: dal suo arrivo percepivo un imbarazzo; qualcosa di non detto, una difficoltà che pensavo si sciogliesse con i soliti discorsi di circostanza.

Ce lo aveva detto alla fine: il suo bambino aveva avuto un incidente “laggiù”, sulle strisce pedonali, mentre tornava da scuola… una macchina non si era fermata… era in ospedale… coste rotte… sembra…

La sua pacatezza ci disarmava, ma ci rassicurava anche, riguardo la gravità delle lesioni.

Al nostro sollecito a raggiungerlo, capimmo che il “non detto” era, in realtà, la richiesta di un aiuto economico per raggiungere la Nigeria. La povertà continuava a perseguitare i suoi affetti: lo aveva fatto partire; lo aveva separato dal suo bambino e ora impediva il più sacro dei ricongiungimenti.

Era difficile chiedere, per lui, e la domanda è rimasta inespressa, grazie a Dio: mio marito, intuendo il bisogno, aveva spalancato uno di quei rari e preziosi corridoi umani che talvolta congiungono persone diverse, senza parole… padre con padre.

La sua riconoscenza, quella volta, ci aveva messo più a disagio che mai: la sua necessità era un diritto umano innegabile e sacrosanto, che io avrei preteso, che io avrei estorto al primo individuo che avessi incontrato, se fossi stata al posto suo… al posto suo… che sollievo l’”altrove”!

Non avevamo più pensato al suo viaggio, fino a sabato scorso: mio marito risponde al telefono, sorridendo e facendo domande normali: da ciò che dice capisco che Sonny si sta spendendo nei soliti imbarazzanti ringraziamenti, poi mio marito si fa pallido e tirato; inizia a balbettare goffe e malferme frasi di consolazione.

Sonny ringraziava per la possibilità datagli di raggiungere il suo ragazzo, purtroppo già in coma, che di lì a poco si era spento, senza rivedere e riconoscere il padre.

Ringraziava per l’opportunità concessagli di essere presente al funerale del proprio figlio!

“Dio lo sa, amico, Dio sa tutto!” Ripeteva Sonny, sottintendendo che se la Sua volontà era quella, quello era il Giusto. Era la penosa resa di chi è abituato a lottare e a perdere e, lucidamente, non ha la nostra illusione di possesso o controllo nei confronti della vita.

Dio sa tutto?! Io ho sentito salirmi in gola la bestemmia più facile per me, debole credente di comodo: il dubbio.

Dio sapeva veramente che cosa vuole dire essere così in ginocchio nella vita, da dovere allontanare da te l’unica cosa bella e preziosa che ti rimane? Dio sapeva cosa voleva dire convincere tuo figlio, il tuo bambino, ad andare incontro al suo destino: portarlo tu stesso alla sua Samarcanda per poi lasciarlo lì a supplicarti di tenerlo ancora con te, di tornare a prenderlo? Dio sapeva veramente che cosa vuol dire vederlo morire, senza che a sua volta, possa vederti, riconoscerti? Lasciarlo andare per sempre, convinto di essere stato abbandonato, di non essere abbastanza figlio?

Dio sapeva cosa rimane dell’anima, dopo che la morte vi ha dilaniato l’amore?

Ho abbracciato i miei figli, li ho baciati, li ho respirati… l’altrove era lì tra le mie braccia: se solo avessi potuto abbracciare quel bimbo, se solo avessi pagato il viaggio anche alla madre, se avessimo potuto portare lui qua, in un buon ospedale e non lasciarlo in una sperduta clinica africana a vaporizzare, sotto il sole, l’ultima possibilità di sopravvivere; se avessimo lasciato lavorare un uomo onesto… se, se, se. Quanti se… Sonny ha ragione: una parola spesso non basta.

Il mio Dio è uomo.

Ascolta le mie richieste meschine.

Dio sappia che la fede di Sonny è immensa rispetto alla mia! Dio sappia che le sue sofferenze meritano già ora un pezzo di Paradiso, dove c’è chi lo attende! Dio sappia che io lo pretenderei, lo estorcerei a qualunque dio anche pagano, per il mio bambino, se fossi al posto suo… al posto suo…

Sonny ora è “altrove” con il suo borsone, ad ascoltare una casalinga che chiede che il copriasse da stiro sia di una fantasia meno pacchiana di quella che lui, paziente, le sta porgendo.

Scusa.

 

4 COMMENTS

  1. Le lacrime bruciano e di lacrime così ne ho viste molte ma non riesco ad abituarmi al bruciore di queste lacrime e anche questa volta bruciano forte. Scusa Sonny e ai tanti Sonny che spesso vediamo e facciamo finta di non vedere o non vorremmo vedere. Spero abbia ragione Sonny, che ci sia un Dio che vede tutto e che sa tutto. Un abbraccio

    (Monja)

    • Firma - Monja
  2. Le parole dette nel racconto toccano il cuore, ma le parole non dette di Sonny lo spezzano proprio. Prego che ci sia un Buon imprenditore che gli possa offrire la Dignità di un vero posto di lavoro per affrontare questa vita con quel che resta della sua famiglia, un abbraccio a Sonny.

    (Claire)

    • Firma - Claire