Cento anni fa, il 25 maggio 1913, a Poiano di Villa Minozzo, nasceva don Domenico Orlandini, noto nella storia della Resistenza come il comandante “Carlo”, fondatore e capo della 284a Brigata Fiamme Verdi “Italo”. Una figura emblematica che ha saputo incarnare lo spirito dei partigiani della montagna che, nel loro stesso comportamento di combattenti, hanno voluto prefigurare quello spirito di libertà, di legalità e di operosa convivenza che sognavano per il futuro Stato del dopo Fascismo.
Per sopperire alla povertà della famiglia, il papà si trasferisce a La Spezia dove nascono due dei sette figli e da dove – convinto seguace del socialismo umano di Prampolini – ritorna per non aver voluto accettare il lavoro in cambio della tessera fascista.
A Poiano don Carlo completa gli studi elementari, poi, aiutato anche economicamente da don Francesco Milani, entra nel seminario di Marola. Qui trascorre nove dei dodici anni di formazione al sacerdozio, allora di prassi, respirando, insieme a quello per la Chiesa e per il Vangelo, l’amore per la Patria che, dal Risorgimento in poi, caratterizzava l’educazione di quell’istituto. Un amore di Patria che andava oltre l’antifascismo perché, nel suo fondarsi sulla dottrina sociale della Chiesa, conteneva implicitamente il rifiuto di ogni dittatura e di ogni concezione assolutistica dello Stato.
Il prete che non sta con le mani in mano
Ricevuta l’ordinazione sacerdotale il 19 giugno 1940, svolge il suo primo ministero a Montecchio accanto a monsignor Attilio Alai. Poi ritorna a Poiano per sostituire il suo stesso parroco, don Domenico Ghirardini, reso inabile da una malattia che pochi anni dopo lo porterà alla morte.
Formazione familiare e seminaristica e prime esperienze pastorali lo portano ben presto a maturare una naturale reazione al Fascismo. Non è però l’uomo della violenza, bensì del dialogo; il suo obiettivo – e lo sarà in tutta la Resistenza – non è l’eliminazione dell’avversario, ma il suo ritorno alla ricerca della verità e, soprattutto, del senso di umanità insito per natura in ogni persona.
Appare evidente a tutti che egli non è il tipo che sta con le mani in mano. Gli piace lasciarsi coinvolgere dagli impegni che non sono per sé di politica, ma di perseguimento della verità e della giustizia. Diventa perciò inevitabile lo scontro con alcuni «gerarcucci» (così li chiama) del Fascismo locale abituati, come si suol dire, a fare il bello e il cattivo tempo. E da questi al Fascismo nazionale il passo è breve. Come è breve il passo verso il suo internamento in un campo di concentramento della Puglia che evita per un soffio grazie all’esplodere del 25 luglio 1943.
Dopo l’8 settembre, entrato in contatto con altri resistenti reggiani, la sua attività contro il Fascismo e contro l’occupazione tedesca, si fa sempre più ampia e profonda. Aiuta i soldati sbandati a ritornare alle loro case e ne mette al sicuro le armi; accoglie gli ex prigionieri alleati che fuggono dai campi di concentramento e cercano di ritornare al Sud.
I suoi primi collaboratori sono in famiglia: dal papà ai fratelli Angelo e Giulio, alle sorelle Annita e Giulia. Lo seguiranno in tutta l’attività resistenziale nelle attività più difficili e più rischiose. Larga la solidarietà al suo operato tra i sacerdoti della montagna. Alcuni nomi tra i più noti: don Vasco Casotti, don Venerio Fontana, don Pietro Rivi, don Enzo Bonibaldoni, don Battista Pigozzi. E, soprattutto, trova piena sintonia spirituale e operativa in don Pasquino Borghi, l’ex missionario in Sudan inviato parroco a Tapignola sul finire dell’estate 1943.
Due missioni spericolate al Sud
Con lui e con alcuni ufficiali alleati suoi ospiti, con il consiglio di un sacerdote saggio come don Pigozzi, matura un progetto ardito: raggiungere i comandi alleati del Sud per chiedere che aiutino la Resistenza che si sta via via organizzando sulla montagna reggiana e modenese. Vorrebbe andare don Pasquino, buon conoscitore dell’inglese, ma, essendo parroco, la sua assenza darebbe troppo nell’occhio. Don Carlo non è parroco e la sua partenza è meno sospetta. Parte il 4 ottobre e, dopo avventure rocambolesche (riesce a scampare una fucilazione da parte dei Tedeschi buttandosi dal sidecar che lo porta a morire), raggiunge Bari dove ha i primi contatti con gli Alleati e le prime promesse di aiuto. Ma deve dar prova di affidabilità, per sé e per quella Resistenza a nome della quale si è presentato compiendo, come agente dell’A’ Force inglese, una prima difficile missione di spionaggio tra Abruzzo, Marche e Romagna. Con lui altri sei volontari uno solo dei quali sopravviverà.
Compie una seconda missione al Sud dal 27 novembre al 12 aprile, sempre come Agente dell’A’ Force, finalizzata al ricupero di ex prigionieri alleati dispersi nei territori occupati dai Tedeschi. Riesce nell’impresa liberando circa 2700 prigionieri, tra i quali il figlio del generale Montgomery. L’impresa gli varrà la concessione della Victoria Cross, la più alta onorificenza militare inglese assegnata per il valore mostrato «di fronte al nemico». Ma soprattutto, sul momento, gli vale la stima del Comando dell’VIII Armata Inglese e del generale Harold Alexander, e, quindi, l’assicurazione che verranno concessi gli aiuti da lui richiesti per il partigianato.
Infatti, appena dopo il suo ritorno a Reggio, si costituisce sull’Appennino la Missione inglese, comandata dal maggiore Johnston, che inizia a paracadutare aiuti in armi e vettovagliamenti ai partigiani. I quali, in assenza del professor Pasquale Marconi, incarcerato e deferito al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato fascista per aver curato e nascosto nel suo ospedale i feriti della battaglia di Cerrè Sologno (15 marzo 1944), erano stati organizzati dal Partito Comunista nelle Brigate Garibaldi.
Fondatore e comandante delle Fiamme Verdi
Da questo punto inizia a definirsi la posizione molto chiara di don Carlo: vuole brigate partigiane assolutamente apartitiche; inserite nel Corpo Volontari della Libertà; obbedienti non a un partito ma alle direttive del Comitato di Liberazione Nazionale; militarmente preparate, operanti in modo tale da non mettere in pericolo la popolazione che le ospita e spesso le mantiene; preparate ad operazioni di “commando”; pronte, in caso di necessità, anche a sacrificarsi pur di non mettere a repentaglio l’organizzazione partigiana o la popolazione.
Queste, tutto sommato, erano anche le direttive poste dagli Inglesi (e lo dimostreranno con i reparti autonomi che verranno da loro costituiti tra il febbraio e il marzo del 1945: Gufo Nero, Formazione Militare e Battaglione Alleato). Ed erano pure le direttive dei vari livelli del Comitato di Liberazione Nazionale e, ufficialmente, dello stesso Partito Comunista. Naturale, perciò, che don Carlo si ostini a non accettare i commissari politici, a non tollerare uccisioni sommarie e rapine a danno della popolazione, a non volere formazioni partigiane gonfiate con gente che – come ammetterà lo stesso “Eros” nella relazione al Partito Comunista dopo il disastroso rastrellamento dell’estate 1944, – cercava nel partigianato soltanto un comodo rifugio, senza attendersi di dover combattere contro i Tedeschi.
Nel settembre 1944, vincendo l’opposizione di “Eros”, sostenuto dal Comitato di Liberazione Nazionale di Reggio e sotto la spinta dei partigiani della montagna che si riconoscono in lui, fonda la Brigata autonoma “Fiamme Verdi”; un titolo che per lui come per tante altre formazioni dell’Alta Italia, significa “alpine”. Le “fiamme verdi”, infatti, sono le mostrine che contraddistinguono il corpo degli alpini. Nel gennaio seguente, la Brigata – caso unico in tutto il partigianato reggiano – viene riconosciuta come reparto del Regio Esercito Italiano combattente in territorio occupato dal nemico e denominata “Battaglione Fiamme Verdi del Cusna”.
L’autonomia delle Fiamme Verdi era solo disciplinare. Militarmente esse erano coordinate a tutte le altre formazioni partigiane dipendenti dal Comando Unico di Zona.
Il difficile rapporto con Giuseppe Dossetti
Ma, in quel frangente, verde vuol anche dire non rosso, non comunista, dunque democratico cristiano. Benché sostenuto dalla Democrazia Cristiana, don Carlo si rifiuterà sempre di accettare anche questa appartenenza politica. E, in effetti, tra i suoi uomini, pur riconoscendosi in maggioranza cattolici, c’erano uomini dalle convinzioni personali più disparate: dal socialista al liberale. Don Carlo non era contro la politica, ma la demandava ai luoghi, ai tempi e ai mezzi a ciò delegati, lasciando alle brigate il solo scopo di liberare militarmente l’Italia dal Fascismo e dalle forze armate tedesche.
La sua posizione non era condivisa da Giuseppe Dossetti che, nel febbraio 1945, sale in montagna e si mette a ruolo nelle Fiamme Verdi. Mentre don Carlo vorrebbe apartitiche anche le Brigate Garibaldi, Dossetti, nell’impossibilità concreta di raggiungere un tale obiettivo, vorrebbe ascrivere alla Democrazia Cristiana le Fiamme Verdi. Il suo pensiero va al dopo liberazione, quando il conteggio del partigianato di un colore o dell’altro verrà messo sulla bilancia con la quale spartire il potere. Ma, contro Dossetti che vorrebbe riservare a don Carlo un ruolo di semplice cappellano delle Fiamme Verdi, si fa sentire la voce della Brigata che solo in don Carlo riconosce il suo fondatore e comandante. E non solo per sentimento d’affetto, ma per unanime riconoscimento del suo coraggio, del suo modo di pensare il partigianato, della sua competenza militare.
Combattenti davvero eroici
Varie sono le azioni militari nelle quali le Fiamme Verdi si distinguono. Valga citarne tre:
a) il contrasto all’intrusione tedesca nel rastrellamento del gennaio 1945, con due caduti (il vicecomandante della Brigata Aldo Dallaglio “Italo” e il suo successore Dante Zanichelli “Pablo”);
b) La battaglia di Cà Marastoni, 1 aprile 1945, dove, nel respingimento di una grave intrusione di truppe tedesche, le Fiamme Verdi perdono 6 uomini, tra i quali anche il nuovo vicecomandante di Brigata William Manfredi “Elio”;
c) la liberazione di Reggio, 24 aprile 1945, con le Fiamme Verdi che, prime fra le Brigate della Montagna, entrano in città ed alzano il tricolore sul Municipio; ma che, anche, hanno l’ultimo caduto negli ultimi combattimenti della giornata: Bruno Bonicelli “Grappino”.
Combattenti davvero eroici che, insieme a tutti i caduti della Brigata, sono ricordati nella Cappella votiva delle Fiamme Verdi eretta a Cà Marastoni di Toano.
Significativo poi, che, concluse le operazioni della liberazione, le Fiamme Verdi abbiano immediatamente riconsegnate le armi e che nessun uomo della Brigata sia stato coinvolto nei fatti di sangue del dopo guerra. Questo l’ordine di don Carlo: «Deponiamo le armi, ognuno di noi riprenda il suo posto nella vita e, con lo stesso entusiasmo col quale abbiamo distrutto uno stato imbelle, ricostruiamolo solido e presente al servizio di tutti, ma in modo particolare della povera gente. Arrivederci»[1].
Parroco di montagna, in onorata povertà
Questo «arrivederci» segna la fine dell’avventura militare. La vita di don Carlo rientra anch’essa nella normalità; altri – dirà con amarezza – si faranno sgabello dei suoi meriti. Poiché la sua figura appare scomoda a qualcuno, si fa da parte accettando di fare, per un anno, il cappellano militare di complemento nel 76° Reggimento Fanteria "Napoli". Al ritorno il vescovo Socche gli affida la redazione della pagina reggiana del quotidiano Avvenire d’Italia, sul quale egli si firma con l’abbreviativo donor. Un incarico di tutta fiducia. La città ha modo di conoscerlo per il suo carattere schietto, aperto, risoluto, energico, esuberante, per la sua cordialissima pacca sulla spalla con la quale ama presentarsi, per il sorriso che insieme al berretto basco gli incornicia il volto.
Il 25 aprile 1948 muore il suo papà, Saturno. Per aiutare la mamma e le sorelle, nell’agosto 1949 va parroco a Talada. Ha in valigia la Victoria Cross che restituisce agli Inglesi quando questi, a Trieste, sparano sugli Italiani.
Nel 1954 passa alla parrocchia di Monzone, la cui chiesa è in parte crollata sotto la pressione di una frana. Parrebbe una situazione un po’ più comoda, ma, nel frattempo, la mamma abbisogna di una più salubre aria di mare. Rinuncia a Monzone e accetta un posto di coadiutore presso il santuario mariano di Rapallo. Nel 1970, morta la mamma, rientra in diocesi. Sosta per circa un anno a Felina dove si fa subito ben volere anche da persone lontane dalla Chiesa. Incontra tutti al bar, dove, dal gioco, sa passare alle cose serie e sa portare al santuario di Bismantova persone che dalla guerra in poi non mettevano più piede in chiesa. Perché va detto che don Carlo si è sempre sentito, prima di tutto, in ogni circostanza, prete, fedele alla sua vocazione giovanile; al servizio, sempre e solo, dei poveri e degli oppressi.
Nel 1971 gli viene assegnata la parrocchia di Pianzano. La prende volentieri, in onorata povertà, iniziando a sistemare la canonica con le sue stesse mani, con l’aiuto di sempre nuovi amici. Poi la malattia e la morte il 13 ottobre 1977. Solo quattro mesi prima lo Stato italiano si era ricordato dei servizi ricevuti da lui e lo aveva nominato Cavaliere al merito della Repubblica. In tempo solo per mettere quell’ultima croce sulla sua bara.
(Giuseppe Giovanelli)
Come familiare e Poianese ringrazio il Prof. Giuseppe Giovanelli del bellissimo profilo e di averlo ricordato nel centenario della sua nascita. Don Domenico “Carlo” è stata sicuramente, e sarà, una figura molto discussa, ma anche ammirata e ricordata fra i suoi e fra gli altri. La storia, comunque, ci ha detto, di lui, che ha saputo vivere sciegliendo la parte giusta: combattè contro l’ingiustizia, il sopruso e l’oppressione, per far vincere la Democrazia e la Libertà. Nei Comuni della montagna, dove ha operato come partigiano e prete, è vivo il suo ricordo, per la sua disponibilità e la propensione all’aiuto dei poveri. Nella sua scelta resistenziale ed antifascista volle chiarire a sè stesso e agli altri che la miseria si combatte soltanto realizzando la giustizia ed elevando, nella giustizia, le classi diseredate. Con ciò non voglio affermare che il prete e il cattolico debbono essere necessariamente classisti. Voglio soltanto affermare che il prete e il cattolico dovrebbero tendere, per propensione naturale, alla realizzazione della giustizia. E don “Carlo” questa propensione l’ebbe, sicuramente, più forte di altri che preferirono, pur non fascisti e non conservatori, rimanere nel loro guscio senza fare nè, tanto meno, rischiare. Sono nato e vissuto con la mia famiglia per diversi anni nella casa di “Don Carlo”, quanti ricordi… e quanta allegria che portava nelle sue visite al Predale, specie in occasione di avvenimenti familiari o alla sagra. Ai miei genitori chiese che mi venisse messo il nome di “Elio” a ricordo del cap. William Manfredi “Elio” Vice Comandante della Brigata Fiamme Verdi, caduto nella battaglia di Cà Marastoni. Grazie, don “Carlo”.
(Elio Ivo Sassi)
Preti della montagna. Don Carlo, un esempio fulgido di amore verso la giustizia e la libertà. Leggendo il profilo fatto dal prof. Giovanelli mi sono appassionato a questo prete, ho approfondito la sua opera ed ho accresciuto la mia stima. Nella stessa maniera ho avuto occasione di stimare un altro sacerdote della montagna, don Nino Zanichelli, dopo aver letto il profilo fatto dallo stesso professore. Don Zanichelli, in altra epoca, ha combattuto altra battaglia in favore degli umili, degli anziani, degli oppressi, dei reietti, militando nell’ordine di Don Orione. La montagna può essere orgogliosa di questi suoi figli che nella Chiesa non “sono stati preti da salotto, ma sono andati in mezzo alla gente, in mezzo ai lupi”, ed hanno dato la loro testimonianza. Sarebbe bene che si scrivesse di più su don Carlo come già si è scritto su don Zanichelli. “C’era una volta un prete…”, affinchè le nuove generazioni sappiano e le vecchie non dimentichino.
(Bruno Tozzi)