Sono due le ragioni principali della presenza millenaria della Pieve di Castelnovo ne' Monti nel luogo dove si trova ancora oggi e sono le stesse delle principali pievi erette sulle montagne durante il Medioevo. Innanzitutto quel luogo si rese sempre ben visibile dall'alto della collina detta, in antico, “Campiliola”, “Campiola” o “Campiolo”. Inoltre era situato su una strada che oggi definiremmo “di grande comunicazione”.
Aperta, verso nord, ai grandi spazi della pianura padana, con prospettiva sul parmense e sul bresciano in virtù del corridoio naturale ben visibile in direzione di Canossa, essa conduceva, dalla parte opposta, ai valichi appenninici e, da lì, agli scali marittimi liguri e toscani.
La Pieve assistette per secoli al transito di viandanti diretti nell'uno e nell'altro senso di marcia, ben prima del suo futuro borgo di riferimento, Castelnovo ne' Monti, che, per entrare in scena, dovette attendere la benevolenza della gran contessa Matilde. Nei secoli successivi, come sappiamo, anche il paese trasse enormi vantaggi dalla presenza di quell'importante strada transappenninica che lo attraversava poco dopo la discesa dalla sommità del colle di Campiola.
Lassù, negli ambienti canonicali, aveva da sempre funzionato un “hospitale” dedito all'alloggio ed al ristoro dei viaggiatori stremati dal lungo camminare a piedi o, tutt'al più, a dorso di mulo.
Uno dei campi del beneficio parrocchiale, posto quasi a ridosso del muro occidentale della canonica, oltre quella che secoli fa era la “via comune” (cioè il terreno dove tra poco sorgerà il nuovo oratorio), era denominato “campo spedale” anche negli antichi documenti catastali, perchè fin dal Medioevo i suoi prodotti venivano riservati al sostentamento dei viandanti di passaggio. Ed anche in seguito, sino agli ultimi decenni del XX secolo, i contadini della Pieve chiamarono sempre quel prato col nome dialettale “Campesdal”.
Era un'umanità multiforme quella che transitava dalla Pieve: mercanti, venditori ambulanti, soldati, uomini e donne a piedi oppure a cavallo, persone oneste oppure avventurieri, banditi e briganti. A volte erano pellegrini in cammino, lontanissimi dai luoghi di partenza e di arrivo.
L'ultimo quarto del XVII secolo ha lasciato le prove del passaggio di pellegrini toscani di ritorno dai sacri luoghi di Roma e Loreto.
Il 21 giugno 1677 troviamo la seguente annotazione sul libro dei defunti: ”Aurelia N. da Torano nel ritorno da Roma e dalla Santa Casa di Loreto morse (morì) in Castelnovo e fu sepolta in questa Pieve fatte le dovute essequie da me Ruggiero Tagliati curato, alla presenza di molti”.
Torano è un piccolo borgo posto tra Gragnana e Colonnata, poco sopra Carrara.
Il 17 maggio 1698 l'arciprete, conte don Giovanni Paolo Palù, scrisse in latino nello stesso libro: “Domenico, figlio del fu Pellegrino da Turlago, diocesi lunense e parrocchia di S. Lorenzo, di ritorno dai luoghi santi di Roma e Loreto, consunto dalla fame e dalla malattia, dopo essersi confessato ha reso la sua anima all'Altissimo nella Canonica di Castelnovo ne' Monti. Il suo cadavere è stato sepolto nel Cimitero di questa Chiesa Arcipresbiterale alla presenza di alcuni contadini del luogo”.
Turlago si trova sugli impervi monti della Lunigiana, tra Fivizzano e Càsola. A quei tempi apparteneva alla diocesi di Luni, la cui sede vescovile, dall'inizio del XIII secolo, era a Sarzana.
Non è difficile ricostruire con buona approssimazione l'itinerario percorso dai pellegrini provenienti dalla Lunigiana e dalla Garfagnana per giungere da noi dopo le visite ai sacri luoghi dell'Italia centrale: camminavano, a piedi, lungo l'antica Via Francigena che da Canterbury portava a Roma. Dopo essere scesa in Toscana dal passo di Montebardone (oggi della Cisa) e da Pontremoli, essa conduceva alla Città Eterna passando per Lucca, Siena e Viterbo [va ricordato che la Via Francigena, così come le altre vie romee, non era un'unica strada ma piuttosto un sistema di vie e sentieri che costituivano un insieme di varianti alternative; una di esse veniva scelta dal viaggiatore all'ultimo momento, in base alla stagione, alle condizioni atmosferiche, alla presenza di situazioni di crisi o di guerra].
Compiuta la visita a Roma, i pellegrini attraversavano il corpo della penisola passando per Rieti, Spoleto ed Assisi e giungevano alla Santa Casa della Madonna di Loreto. Da qui riprendevano il cammino costeggiando il litorale adriatico fino a Rimini. Avevano così percorso, da Roma a Rimini, un tratto della storica Via Carolingia, cioè dell'itinerario seguito da Carlo Magno nell'anno 800, in senso contrario, per recarsi da Aquisgrana a Roma, dove il papa Leone III l'avrebbe incoronato imperatore del Sacro Romano Impero nella notte di Natale.
Da Rimini, poi, i “nostri” pellegrini, seguendo la Via Emilia, giungevano a Reggio o dintorni dove, volgendo a mezzogiorno, imboccavano la mulattiera diretta alla montagna ed al crinale appenninico.
Quasi sempre arrivavano a Castelnovo dalla “strada della Braglia” cioè dal sentiero che, dopo avere disceso dalla parte dell'odierna Terrasanta la valle del rio Scarzarolo (antica denominazione, oggi perduta, del ruscello di fondovalle), la risaliva da quella opposta portandoli alla Pieve. Qui venivano ospitati, rifocillati, curati e riforniti di quanto era necessario per portare a conclusione il loro pellegrinaggio dopo mesi e mesi di cammino.
Non tutti, però, riuscivano a fare ritorno a casa poiché alcuni (o forse molti, chissà!) morivano durante il lungo ed estenuante viaggio, per la fatica o per malattia e mancanza di cure o per fame oppure a causa del brigantaggio, diffuso ovunque a quei tempi.
E' probabile che altri pellegrini fossero venuti a morte a Castelnovo prima dei due di cui ho riferito. Non è possibile, però, documentare tali avvenimenti poiché alla Pieve non è stato rinvenuto alcun registro dei defunti anteriore al 1663.
(Corrado Giansoldati)
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Fonti consultate:
Archivio storico parrocchiale di Castelnovo ne' Monti
“Alla scoperta delle radici europee”, TCI, 2011
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