ANTICHI MESTIERI A DOMICILIO
Nell’economia familiare di un tempo rientrava anche la prestazione d’opera a domicilio. Per la maggior parte di questi mestieri si esigeva un’esperienza specifica da cui dedurre l’abilità e una certa inventiva degli operatori. Questi erano i prestatori d’opera specialisti. Poi venivano i commercianti, che proponevano (sempre a domicilio) vari tipi di merci, a pagamento o a baratto. C’erano poi coloro che offrivano solo la propria manodopera. Due braccia in più a disposizione del Rešdûr, tutto sommato, non era poco. In cambio? Vitto e alloggio. Il vitto era quello della famiglia. L’alloggio poteva anche essere un letto in una stanza, oppure una cuccia nel fienile o nella stalla.
Al primo gruppo appartenevano: il calzolaio, il sarto, l’ombrellaio, lo scrannaio, lo stagnino, l’arrotino, il rabdomante, il norcino. Nel secondo troviamo in primo posto il raccoglitore di uova; poi il merciaio, il fruttivendolo. Al terzo tipo appartiene prima di tutti il garzone. Esisteva anche la prestazione d’opera reciproca, come scambio alla pari. Questo capitava nei momenti cruciali quali la falciatura del fieno e dello strame, la mietitura e la trebbiatura del grano, la sfogliatura delle pannocchie di granoturco. Altri tipi di prestazione d’opera a domicilio erano saltuari, come quella del maniscalco, del medicone, del segnatore contro il malocchio. Ognuno dei prestatori d’opera aveva, nel mondo agricolo di un tempo, il proprio modo di esprimersi, di attirare l’attenzione, e il proprio protettore in cielo. Ce li studiamo uno per uno.
Arrotino (Mulèta)
Passava ad intervalli distanziati: quattro, cinque mesi. Aveva un suo programma e sapeva essere discreto. Non entrava in casa se non era esplicitamente invitato dai padroni. Nelle famiglie contadine di un tempo da affilare c’era poco: il bipenne (pudàja), qualche coltello da cucina, uno o due paia di forbici da stoffa, le forbici da potare, e, a primavera, quelle per tosare le pecore e i coltelli per innestare. Le forbici da stoffa non venivano usate quotidianamente. Il lavoro dei campi assorbiva uomini e donne e gli impegni di sartoria si riducevano a qualche rammendo frettoloso (i tacûn) fatto di domenica.
Nella propria mente l’arrotino si riteneva un artista. Di conseguenza aveva un suo modo particolare per presentarsi. Se era originario di altri territori si udiva un prolungato “Arrotinooooo! Se invece era dei dintorni, conosciuto e con un dialetto comprensibile, si limitava a urlare: Mulèta!!! Se poi era un tipo allegro e intonato si serviva del ritornello: Bèli dùni a gh’é ‘l mulèta. / Cúša gh’îv da far mulâr? / Un pudàj o ‘na runchèta? / Bèli dùni a gh’é ‘l mulèta! Per noi ragazzi era un mago o un essere straordinario: riusciva a produrre fontanelle di scintille che facevano un arco in aria ma non incendiavano l’ambiente circostante, lasciandoci meravigliati.
L’arrotino però era vittima di un pregiudizio. Equivocando volutamente sull’ambiguità del verbo dialettale Gusâr, gli si attribuivano avventure non sempre verificabili. Il condensato di questo modo di vedere l’arrotino è nella canzone popolare: Donne, donne, gh’è chì ‘l magnano, dove il dialogo si svolge su un binario di doppi sensi.
La vita del mulèta era un continuo viaggiare, spingendo perennemente quel mostriciattolo di macchinario che era la möla, una specie di carriola chiusa come un mobile, che all’interno conteneva gli attrezzi ben sistemati. Certo, al tempo dei tempi quell’attrezzo era stata una invenzione formidabile. La stessa ruota serviva per il trasferimento ad altra località e, una volta fermo in un luogo, per far girare la mola. Poi i tempi sono cambiati e gli ultimi arrotini si sono aggiornati: “Se invece di spingere la carriola ci fosse qualcosa che riesce a trasportare anche me?” pensavano. Ecco allora che l’arrotino attrezza a dovere una Ape. Col nuovo mezzo si riduce di molto l’ingombro. Poi sull’ape si possono mettere anche articoli da vendere; forbici di diverse dimensioni, coltelli, e altri oggetti analoghi. Ebbene, anche gli arrotini hanno un protettore in cielo: nientemeno che l’arcangelo S. Michele, e Santa Caterina di Alessandria. Studiare l’origine della parola qui diventa doppia fatica. Arrotino traduce immediatamente l’idea di qualcuno che usa la ruota per ottenere un risultato, per esercitare un mestiere. Quindi quella ruota (smeriglia), diventa uno strumento di lavoro e chi la usa un artigiano. Mulèta richiama immediatamente la presenza di una mola, (möla in dialetto), logicamente quella per affilare le lame. Resta da esaminare il verbo Gusâr che genera tanta perplessità e ilarità. Ha come radice il termine latino àcus = ago, da cui il verbo popolare Acutiàre, che significa: affilare, acuminare, aguzzare.
Calzolaio (Scarpulîn – più raro Calsulâr)
Nel nostro dialetto lo chiamavamo al scarpulîn, mentre in pianura aveva una discreta variabilità: Calsulêr, ma anche scarpuléin o savatêr. Apparentemente le parole hanno lo stesso significato. In realtà anche questo breve vocabolario ha una sua gerarchia, una sfumatura impercettibile, sottile ma significativa. Partiamo dal basso: Savatâr (savatêr in pianura) era il livello inferiore, colui che al massimo poteva riparare una ciabatta. Scarpulîn (Scarpuléin) già indicava una buona esperienza che però si limitava alle scarpe grossolane o agli zoccoli. Al vertice della piramide c’era invece al Calsulâr (Calsulêr). Da costui si chiedeva anche un poco di abilità che personalizzasse le calzature prodotte. Oggi diremmo che realizzava un prodotto firmato.
Il calzolaio si recava presso le famiglie e vi rimaneva finché c’era lavoro. A volte anche una settimana. Arrivava col suo deschetto (banchèt), la seggiola speciale, comoda ma molto bassa, e tutti gli attrezzi. Si piazzava in un angolo della stanza che gli veniva messa a disposizione e cominciava a riparare quanto gli veniva portato davanti. A volte lo scarponcino non meritava più d’essere riparato tanto era mal messo. Allora il calzolaio suggeriva un’altra soluzione: recuperare la tomaia e applicarla ad una suola di legno. Chiaramente lo zoccolo derivato sarebbe stato di qualche misura più stretto, ma intanto si salvava il salvabile. Ma l’orgoglio del calzolaio era potere dimostrare tutta la propria abilità nel produrre scarpe nuove, fossero un paio di scarpe di vernice (si diceva d’ crúma, di cromo), un paio di scarpe basse o i più comuni tronchetti, gli stivaletti alla polacca, fatti con la vacchetta. Insomma anche il calzolaio ambiva salire al grado superiore della scala! Durante il lavoro (da buon sornione) cercava di farsi un’opinione della famiglia che lo ospitava, curiosando qua e là e ascoltando i discorsi. Altre volte approfittava dell’occasione che fa l’uomo ladro o quasi. Come quel tale che, collocato sotto il portico con le galline che gli si avvicinavano fino a disturbarlo, pensò bene, mentre cuciva una suola alla tomaia, di allungare la bracciata quel tanto che bastava per prendere al laccio il collo di una gallina e tirare velocemente lo spago con tutta la forza. Salvo poi a raccontare alla padrona di casa che, senza volere e mentre era sovrappensiero, non si era accorto che la gallina si era avvicinata troppo e così era finita dentro il cappio. Ma intanto sperava che il giorno dopo a pranzo ci fosse il brodo di gallina al posto del minestrone. La paga? In genere veniva discussa all’inizio, prima di dare principio all’opera. E consisteva in un poco di denaro oltre all’alloggio e al vitto. E diventava una comica assistere alle discussioni fra il capofamiglia e il calzolaio al momento di saldare il conto.
Avere un santo in paradiso che ti protegge è aspirazione di tutti. Comunque in un mondo in cui l’assistenza divina era importante anche i Calzolai avevano il loro avvocato presso Dio, Sant’Euseo. Si, Sant’Euseo, non Eusebio. Il nome, di origine celtica, significa: ospitale. S. Euseo era un eremita di Serravalle Sesia, che riparava le scarpe dei confratelli e quelle della gente che si rivolgeva a lui. Lo si festeggia il 29 Maggio. Ma i calzolai invocano anche San Crispino.
Cardatore (Cunsadûr – Cunsîn)
Questa prestazione era rara perché quasi ogni famiglia aveva i pettini per cardare la lana o la canapa. Chi però non li aveva doveva ricorrere ad estranei. Lo strumento per cardare era molto semplice. Consisteva in un banchetto con una alzata a un lato di circa 80 cm. Su quell’alzata era fissata una tavoletta leggermente obliqua verso l’interno. Ad essa si fissava un pettine sul quale si poneva la lana o la canapa da cardare. L’altro pettine, uguale a quello fermato al banchetto, veniva passato sopra alla lana ripetendo più volte il passaggio. Quando la lana era districata si passava il pettine al contrario, (dal basso verso l’alto), su quello fisso in modo che la lana restasse su di esso, poi veniva confezionata in piccoli strati, pronta per essere filata. In dialetto l’operazione era detta Cunsâr la lana (o la cànva). Normalmente era una donna a cardare. I pettini disponevano di una decina di file di denti che ricoprivano tutta la superficie, tenuti solidali alla tavoletta da una pelle in modo che fossero mobili ma non si spostassero di posto. Il verbo cardare deriva dal sostantivo cardo in quanto, inizialmente, ci si serviva proprio del cardo per pettinare la lana. Come santo protettore i cardatori invocano San Biagio vescovo, martirizzato in Sebaste nel 306.
Fabbro e Maniscalco (Frâr)
Normalmente le due funzioni le svolgeva la stessa persona. Raramente il fabbro si recava dal cliente. Aveva una sua bottega attrezzata e lì lavorava abitualmente. Poteva capitare che dovesse recarsi a casa del cliente per sostituire pezzi rotti o inutilizzabili, come cardini, parti dell’aratro o del biroccio, o per mettere i ferri ai buoi o ai cavalli. Ma solo in casi estremi. Altrimenti era il cliente a recarsi presso l’officina. In dialetto nostrano si diceva Frâr. Più verso la pianura Frêr. Ma in latino era Fàber = fabbricatore, costruttore. Nel medioevo avevano la loro consorteria con tanto di scuola e il titolo di Mastro. Il maniscalco invece è colui che mette i ferri ai cavalli (e agli altri animali). Il nome è di origine germanica (mahrskalk = servo addetto ai cavalli), latinizzato con Mariscalcus. I fabbri si affidano a San Leonardo, abate francese del VI° secolo, festeggiato il 6 Novembre, mentre i maniscalchi si rivolgono a Sant’Ampelio (V° secolo, festeggiato il 14 Maggio), a Sant’Eligio vescovo (nato in Francia nel 588) e a S. Giovanni Battista.
Falegname (Marangûn)
l falegname aveva parecchie occasioni per recarsi presso le famiglie: porte o finestre da sistemare, qualche mobile da rimettere in squadro, attrezzi da riparare. Ma solo se si trattava di riparazioni che non necessitassero di strumenti particolari. In questo caso portava l’oggetto rovinato nella propria bottega ove disponeva degli attrezzi adatti. Da noi veniva chiamato Al marangûn, mentre in pianura diventa Al Frāp. Frāp è la corruzione del termine latino Fàber (fabbro, artefice), mentre Marangûn ha una origine più laboriosa. Alcuni etimologi sostengono che deriva dal nome di un uccello marino, il Mergus, solito tuffarsi per procurarsi il cibo.
Nei cantieri navali di Venezia alcuni operai si immergevano per riparare le navi, imitando il mergus. Partendo da Mergo, mergònis il termine sarebbe diventato mergoni, poi marangoni. Altri invece, e forse a maggior ragione, preferiscono i termini Marram agones, espressione che indica coloro che usano l’ascia per lavorare, come i falegnami. Attraverso la parlata popolare è facile la trasformazione in marangone. I marangoni, o falegnami, hanno un protettore privilegiato: S. Giuseppe.
Innesto (Intadûr)
Teoricamente il lavoro di innestare (intâr) non sembrava difficile. Bastava segare orizzontalmente il tronco selvatico, procurarsi due o quattro rametti della nuova pianta da fare crescere, constatare che ognuno dei rametti avesse i cosiddetti occhi (gemme), predisporli a forma di penna e inserirli tra la buccia e il legno del trono selvatico. Per i rametti (intîn) doveva essere possibile sorbire la linfa del trono principale. Cioè bisognava mettere a contatto il midollo del rametto in modo che la linfa potesse circolare attraverso il midollo e sotto la scorza. Poi si creava un contenitore tutt’intorno al punto di innesto e lo si riempiva con terra o polvere di castagno marcio. Tuttavia non a tutti riusciva di fare tenere un innesto. Occorreva occhio nel scegliere i rametti, ma soprattutto sapere individuare la fase lunare idonea, quando la linfa cominciava a circolare sotto la corteccia. Se l’operazione era stata felice dopo qualche settimana gli occhi dei rametti si aprivano e lasciavano uscire delle tenere foglioline. L’albero innestato esigeva altre cure: pulire il tronco selvatico dai nuovi getti, in modo che la linfa venisse convogliata tutta verso i nuovi getti innestati. Per portare i nuovi innesti a produrre frutti ci voleva tempo, anche diversi anni. L’innesto riguardava quasi tutti gli alberi da frutta (peri, meli, susine, ciliegie, vite), comprese le castagne per ottenere i più remunerativi marroni.
Macellaio (Maslîn – Nurcîn [raro e importato])
In questo caso si trattava di un mestiere legato alla stagione invernale. Per questo il norcino lavorava anche i campi in proprio o a mezzadria. Nella sacchella portava i coltelli di diverse misure, l’accoratoio, i raschietti e poco più. Appoggiato su una spalla aveva un arpione di ferro con un manico di legno lungo più di un metro. A spalla portava anche il tritacarne con tutti gli accessori da un lato e la grossa mannaia dall’altro. Accordatosi col padrone di casa, si presentava il mattino fissato quando era ancora buio. L’aia era già in fermento: sopra un fuoco, in un angolo, un largo paiolo fumava lasciando capire che l’acqua era già bollente. Tutto intorno stavano gli attrezzi da usare: un tavolaccio su cui porre il maiale per ripulirlo dalla sporcizia e dalle setole; uno scaletto da utilizzare dopo come portantina; una robusta fune appesa ad una trave maestra del portico; alcune funi sottili per imbrigliare il maiale; un recipiente largo e basso per raccogliere il sangue.
Il maiale sembrava capire: l’orario insolito per la sveglia, il viavai di troppa gente e (dicevano gli adulti) l’odore del norcino lo facevano allarmare e diventare intrattabile perché “sentiva” che era in trappola. Prima con le buone poi a forza lo facevano arrivare sul posto fissato. Tutto intorno stavano schierati alcuni uomini; chi lo teneva per un gamba, chi per la coda, che con una fune (sughèt) gli bloccava la bocca. Il pericolo era che il maiale potesse azzannare qualcuno per difendersi. E si diceva pure che, sentendo il sapore del sangue, cominciasse a succhiare e a stringere sempre più forte e non mollasse la presa. Se proprio il maiale era inferocito si utilizzava l’arpione agganciandogli la mascella inferiore e costringendolo a seguire chi lo trascinava. A questo punto interveniva il norcino. Ad un suo cenno in quattro prendevano le zampe del maiale e lo rovesciavano a pancia all’aria. Rapidissimo il norcino infilava l’accoratoio sotto l’ascella sinistra del maiale e spingeva fino a raggiungere il cuore. Superati i primi momenti in cui il maiale continuava a dimenarsi e a lamentarsi, arrivava il momento in cui rallentava l’agitazione e i lamenti. A questo punto veniva issato sul bancone per potere raccogliere il sangue. Nulla doveva andar perduto. Col sangue si faceva in giornata il sanguinaccio. Raccolto ancora caldo veniva filtrato poi messo nel Söl e lasciato rapprendere. Si potevano aggiungere alcune spezie o della cipolla tagliata fine. Quindi lo si faceva cuocere lentamente. Era da consumare in fretta, per cui se ne davano degli spicchi a chi stava lavorando il maiale e anche ai vicini di casa.
Ma ritorniamo al norcino. Una volta ripulito il maiale con acqua bollente e raschietto lo si poneva sullo scaletto a mo’ di barella e lo si portava sotto la trave dove era stata preparata la fune. Lo si appendeva per le zampe posteriori e lo si issava in modo che non toccasse terra col muso. E qui si vedeva l’abilità e l’occhio del norcino. Così appeso il maiale doveva essere diviso a metà. Per la parte di carne era facile. Più brigoso era quando si doveva dividere in due, per lungo, la spina dorsale. Ricordo un anno la sfida tra i presenti e il norcino, per l’occasione Oreste Arlotti noto per la sua precisione e pignoleria. Tolte tutte le interiora e passate a chi di dovere per lavarle e ripulirle, Oreste cominciò una sequela di colpetti con la marazza. Quando ebbe terminato e le schiappe dovevano essere portate in casa per la scomposizione ci fu chi suggerì di pesarle. La differenza era una inezia. Ma la coda era tutta dalla parte più pesante, non era stata divisa in due. In casa il maiale veniva smontato in base alle parti del corpo: prosciutti, spalle, pancette, gole, coppe e le larghe falde di lardo. Ogni pezzo veniva rifinito a dovere e i ritagli finivano in una vasca. I pezzi nominati sopra venivano messi sotto salatura nella dispensa mentre il fegato veniva ridotto in tanti pezzetti, ricoperti con la rete dello strutto, fermati con un rametto di rosmarino e messi a cuocere. Al termine della cottura si sistemavano in un otre di terracotta, vi si versava sopra lo strutto liquefatto e lì restavano fino a primavera o all’estate. Anche gli zampetti venivano conservati a parte, ma bisognava consumarli abbastanza in fretta. E a noi piccoli interessava conservare quegli ossi per fare il frullo. Sul tavolo ora c’erano diversi mucchi di carne ridotta in piccoli pezzi. Dentro una vaschetta di zinco c’erano i budelli, sciacquati e risciacquati tante volte poi lavati con aceto o vino. Vicino ad un angolo del tavolo era stata montata la macchina per macinare la carne, munita di una specie di imbuto solidale con la stessa. Sulla canna dell’imbuto si posizionava un budello ben arricciato, in modo che la carne entrasse in esso. Poi, anche qui, era tutto un gioco di abilità per fare entrare la carne senza lasciare spazi vuoti all’interno del budello. altrimenti il salame sarebbe diventato casso e quindi da gettare. In questo modo si producevano salami, salsicce, cotechini. Che poi venivano appesi alle travi della dispensa ad asciugare e a stagionare. Le parti messe sotto sale di tanto in tanto dovevano essere girate e il sale rimesso. L’operazione di salatura durava da un mese a quaranta giorni, e i prodotti potevano essere conservati (fame permettendo) per tutto l’anno e oltre. Più urgente era consumare le parti deperibili, come le cotiche, gli zampetti, la carne rimasta attaccata alle ossa. Il giorno stesso della macellazione era tradizione cuocere l’òs giùt, la parte relativa al collo. Nei giorni successivi tutte le altre rimanenze. Perché, come già detto, del maiale non si buttava via niente.
Medicone (Medgûn, guaridûr)
Era una persona con qualche nozione di medicina empirica. Conosceva le proprietà delle erbe e alcune mosse per intervenire sulle ossa o sui muscoli. Ma il fatto di non spiegare, non rendere pubbliche quelle nozioni conferiva al medicone un alone di mistero, a metà tra il portentoso e il diabolico. Non era in dubbio l’onestà della persona. Probabilmente si trattava di residuati arcaici che vedevano in questi fenomeni l’opera del maligno, come accadeva per le streghe. Nella mia infanzia l’importanza del medicone era quasi sparita. C’era ancora chi curava il mal di denti con l’estratto di certe erbe, e le abrasioni imponendovi foglie di rovi. Poi, subito dopo la guerra, sono arrivati i sulfamidici, quasi miracolosi. Riuscivano a cauterizzare le ferite in poco tempo e la crosta si staccava da sola, senza essere sollecitata. Prima invece la crosta della ferita si faceva leccare da un cane. E questi sembravano capire l’esigenza e si prestavano tranquillamente, quasi consapevole di fare un’opera buona. Qualcuno di costoro guariva anche dal malocchio. E qui ritorna in ballo quel non so che di esoterico e misterioso che questi individui si portavano dietro, con quelle formule sussurrate e incomprensibili, fatte di parole astruse. Erano un poco scocciati ma anche orgogliosi della loro diversità. Uno dei metodi per scacciare il malocchio consisteva nel versare in una fondina contenente acqua tre gocce d’olio in tre riprese, pronunciando le suddette formule. Oppure utilizzare un bicchiere pieno d’acqua, versarvi tre gocce d’olio e osservare se l’olio andava a fondo. Se ciò succede significa che il malocchio c’è.
Ombrellaio (Umberlàj)
Qui il lavoro riguardava prevalentemente la parte meccanica. Riparare il telo non valeva la pena. A meno che non si trattasse degli immensi ombrelli da pastore, ampi e quasi sempre di color verde, per i quali la riparazione era giustificata. Come per il ciabattino anche all’ombrellaio si destinava un angolo o sotto il portico o in un androne. Costoro erano avvezzi a tutto, perciò si accontentavano di una paghetta, di qualcosa per cibo e un poco di paglia in una posta vuota della stalla quando il lavoro era terminato troppo tardi per recarsi altrove. Gli attrezzi erano contenuti in una cassetta di legno oppure dentro uno zainetto militare. E ne bastavano pochi: una matassa di fil di ferro sottilissimo, un paio di pinze a punta, un tronchesino e poi, per riparare il telo, un rocchetto di refe e qualche pezza ottenuta smontando un vecchio ombrello. Gli ombrellai si rivolgevano a Santa Barbara, la ragazzina decapitata dal padre a Nicomedia nel IV° secolo, festeggiata il 4 Dicembre.
Rabdomante
L’acqua, in montagna, da sempre costituisce un problema vitale. Trovare una sorgente poteva essere questione di vita o di morte. Non vi dico cosa significasse trovarne una vicino a casa o, almeno, nei proprio campi. Si dice che ognuno di noi ha delle qualità fisiche capaci di metterti in contatto con la natura e di rilevare la presenza di particolari essenze. Tra queste doti prevale la possibilità di rilevare la presenza di acqua ad una profondità accessibile coi nostri mezzi. Questa teoria (ma non è poi tanto astratta) prevede la disponibilità di una persona dotata della possibilità di riagganciarsi alle forze di Madre Natura e comunicare, meglio, rilevare, entro uno spazio limitato, la presenza dell’oggetto cercato. Nel nostro caso l’acqua. A differenza dei comuni mortali il rabdomante aveva la possibilità di sentire se in prossimità si trovava una vena, una arterie sotterranea ove circolava l’acqua per emergere poi in una zona lontana. Imbrigliarla era il sogno di tutti.
Il rabdomante utilizzava uno strumento particolare: gli serviva una forcella come indice della presenza di acqua, della profondità della vena. Ed era tanto interessante quanto drammatico assistere alla scoperta di una vena: il rabdomante impugnava la forcella dalla parte dei due rami, la stringeva con forza per assicurarsi il contatto, teneva le mani allungate in avanti e camminava in modo che il piede alzato, prima di posarsi, toccasse col tacco la punta dell’atra scarpa. Se nel sottosuolo non vi era una vena era inutile proseguire la ricerca. Se invece l’acqua c’era e il rabdomante era una persona seria, avvicinandosi alla sorgente, notava che la forcella stretta in mano iniziava a muoversi, tentava di roteare su se stessa, prima lentamente poi più velocemente, costringendo la persona ad uno sforzo indicibile, anzi, spesso bisognava che altre persone lo trattenessero per evitargli di cadere e perdere alcuni dati. Per esempio il numero dei giri della forcella. In base ai giri si stabiliva la profondità della vena.
A volte le cose non prendevano la giusta direzione fin dall’inizio. Come successe a mio nonno. Aveva dedotto che vicino all’incrocio chiamato La Maesta, (dove esisteva un fossa per raccogliere l’acqua piovana), doveva esserci anche una vena perché l’erba, poco più a valle, era più florida rispetto al resto del campo. Si decise a chiamare un rabdomante. Mi pare fosse di Borzano o di Roncovetro. L’ho visto armeggiare con una forcella di vìtice (salice selvatico), cercare di tenere a contatto i piedi tacco-punta, barcollare, diventare rosso in faccia, quasi paonazzo e a rischio di collassare. Chi lo reggeva, conscio del rischio, si era premurato di intervenire prima che fosse tardi.
Fu piantato un paletto ove il rabdomante aveva segnalato più forte la presenza di acqua. Le rotazioni della forcella stabilivano che la vena doveva trovarsi tra i due e cinquanta e i tre metri. Mio nonno e gli altri uomini presenti si premurarono della salute del rabdomante il quale, in breve, dissetato e rifocillato, riprese tutte le forze. Iniziarono subito i lavori di scavo: un cerchio di circa due metri di diametro per potere manovrare abbastanza agilmente piccone e badile. Via via lo scavo prendeva la forma di un largo pozzo. Sulle sue pareti si potevano notare strati di colore diverso: alcuni di colore ocra di terra sabbiosa, altri più scuri costituiti da terra fertile, humus dovuto alla decomposizione di foglie o erbe. Scavarono a lungo i miei zii. Si davano il cambio: uno dentro il pozzo a spicconare e riempire i secchi, l’altro in superficie, vicino ad un trespolo che, alla lontana, evocava una gru primordiale: un palo fissato a terra, un altro palo più lungo fissato orizzontalmente alla cima di quello fisso, ma con possibilità di essere manovrato sia in senso verticale che orizzontale. Ad una estremità era fissato un secchio da muratore e all’altro capo una fune. In questo modo si poteva calare il secchio dentro il pozzo poi rialzarlo, portarlo all’esterno del pozzo, scaricarlo, poi ripetere l’operazione all’infinito. Scavarono per una settimana circa i giovani di casa. Di tanto in tanto misuravano la profondità del pozzo: due e cinquanta, due e novanta. Nessun segno di presenza di acqua. Tre metri: stessa situazione. Scavarono ancora una ventina di centimetri ma la terra era assolutamente compatta e secca. Dopo un consulto in famiglia decisero di sospendere la ricerca dell’acqua e di riempire nuovamente il pozzo scavato. Qualcuno (non so se per scusare il rabdomante o per trovare una giustificazione allo smacco) interpretò il fiasco con la presenza di una tana di talpa comunicante con la fossa vicina. Sullo spazio ove si trovava la fossa e scavato il pozzo ora sorge la casa di Giorgio Campani.
Raccoglitore di uova (Uvaröl)
Vi erano quelli che facevano il giro utilizzando solo il bàggiolo (parola ormai in disuso, ma che possiamo far rivivere grazie al dialetto: bàšel). Applicavano alle estremità due canestri capienti. Prima di iniziare il giro ne riempivano uno di merce varia, merce di scambio, come sale, barattoli di conserva, olio. Nell’altro canestro mettevano della paglia ormai trita, entro cui ponevano poi le uova raccolte. Costoro avevano un giro fisso per ogni giorno della settimana. Rivedo l’ultima di queste figure: Lišèt del Molino Zannoni. Era un tipo taciturno, all’apparenza un uomo riflessivo e buono. Non l’ho mai sentito dire parole sconvenienti o arrabbiarsi con qualcuno.
Era anche l’informatore di ciò che accadeva nei borghi vicini. Chi invece aveva qualche disponibilità in più si attrezzava con un asinello o un mulo. Ai lati del basto applicava delle particolari corbe, lunghe un metro circa, piatte dal lato del basto e arrotondate su quello esterno. Qui dentro trovava posto molta più mercanzia da vendere o da scambiare con le uova. Anche costoro avevano un percorso fisso per ogni giorno della settimana.
I tempi cambiano. Subentra il fruttivendolo o il venditori di ortaggi munito di camioncino. In questo modo la merce è più visibile e, scusate l’ironia, più facile da raccogliere. Perché nel frattempo le campagne sono state abbandonate, e l’orto lo coltivano solo i nostalgici della genuinità.
Sarto (Sārt; satûr) –
Da quando ho la facoltà della memoria a casa nostra il sarto già non veniva. Eravamo noi a recarci nel suo laboratorio. Anche perché l’abito nuovo era un lusso che non tutti si potevano permettere. Tuttavia so che in altre località ciò avveniva ancora a cavallo dell’ultima guerra. Come gli altri prestatori di opera a domicilio anche il sarto si recava presso le famiglie al mattino presto. A lui veniva apprestato un locale più dignitoso a confronto degli altri artigiani che venivano collocati in un androne o sotto il portico. Chi disponeva di una stanza chiamata sala, o salotto, la metteva a disposizione. E per un po’ di tempo questo ambiente diventava l’atélier per adattare vecchi abiti a nuove esigenze, o, soprattutto, per confezionarne di nuovi se nell’aria c’era una Comunione, una Cresima o un matrimonio. Destava curiosità la squadra del sarto. Si, sapevamo che la squadra serviva a tracciare angoli retti e linee precise, ma ci sorprendeva scoprire che all’interno di quella tavoletta erano presenti anche le sagome delle spalle di una giacca, delle maniche, dei polsini.
Confezionare un abito in casa però comportava difficoltà. Perciò il sarto faceva di tutto per portare nel proprio atélier la stoffa e predisporre l’abito con le imbastiture. Prima di cucirlo c’erano da fare prove e controprove. Voleva essere sicuro che tutto filasse bene. Da qui il proverbio: Cento misure e un taglio solo. Il sarto che disponeva di un proprio laboratorio in genere procurava anche la stoffa adatta per un nuovo abito. Era un modo per arrotondare un poco. In campagna infatti, dove i soldi arrivavano dopo la vendita del formaggio, era facile che si cercasse di pagare con generi di natura, per esempio con un sacco di grano. Il che costringeva anche il sarto a fare acrobazie per saldare i fornitori.
Scrannaio (Scranâr)
Questa professione la esercitavano in prevalenza i profughi della prima guerra mondiale provenienti a Belluno e dintorni. “I dešgnîven dal Vènet queši tótt” dice Luigi Ferrari. Sulle spalle un trespolo simile ad una sedia, con due bretelle per fermarlo. Su di esso trovava posto la Palêdra, in italiano càrice, o falasco. Poi dei pezzi di legno utili per sagomare i pioli, e in una sacca gli utensili necessari: pialletto, seghetto, sgorbia, trivella, chiodi, e martello. Qualcuno disponeva anche di un cavalletto che serviva da morsa azionata coi piedi e banco di lavoro quando si doveva sagomare l’intelaiatura di sedie nuove (schienale, piedi anteriori).
L’impegno principale dello scrannaio era la riparazione delle sedie vecchie. Solo in casi particolari gli si commissionavano sedie nuove. E prevalentemente doveva pensare a riparare la struttura portante: piedi, pioli, consolidamento. Al sedile di solito provvedevano gli uomini di casa durante le giornate invernali. Anche fra costoro c’erano quelli che si accontentavano del necessario intrecciando un sedile con incrocio al centro e imbottitura con foglie di granoturco. I più esigenti riuscivano a impostare un intreccio a scacchiera, a losanghe, o con altri disegni, davvero raffinati. In questo caso però la palêdra doveva essere della migliore e ritorta in maniera impeccabile. Come una corda di canapa. A procurare il rifacimento del sedile contribuivano anche i gatti, sempre numerosi, che usavano l’impagliatura delle sedie per affilare le unghie, guadagnandosi sul posteriore un colpo di margarina (lo scopetto di mèlga o saggina usato per raccogliere le briciole) inferto dalla parte del manico perché facesse più effetto.
Segantini (Sgantîn)
Questo mestiere veniva esercitato d’inverno, quando i lavori dei campi erano fermi, perché ad esercitarlo erano altri contadini. Il loro impegno consisteva nel ricavare lunghe assi da tronchi di castagno, noci, pioppi, pini, querce, peri, ciliegi, faggi. Il nome “segantino” sui vocabolari cambia significato a seconda delle località. Quasi sempre viene adottato al posto dei semplici legnaioli. Da no, fino all’ultima guerra, erano gli esperti produttori di assi per ogni uso.
Cercavano un punto ove istallare un tragantino (una specie di treppiede a piramide, leggermente inclinato all’indietro) eretto sul posto. Serviva per collocarvi il tronco da ridurre in tavole, ad un’altezza di due metri circa dal suolo, imbrigliarlo per renderlo immobile. Il tronco doveva essere prima squadrato, poi segnato col filo di lana intriso di un colore rossastro, e questo serviva a dare lo spessore delle tavole.
Si procedeva a fare tutti i tagli sulla metà del tronco sporgente. Dopo di che lo si slegava e si girava in modo che la parte tagliata posasse sul cavalletto e quella ancora da tagliare sporgesse in avanti. Una volta bloccato si procedeva a segare la seconda parte. Bisognava però non arrivare al taglio corrispondente dell’altra metà. Al centro del tronco doveva rimanere un breve tratto non tagliato di circa 5/10 centimetri. Ciò per esigenze pratiche. Era così possibile manovrare il tronco in blocco e collocarlo nel luogo adibito ad essiccatoio. Una volta sul posto si provvedeva a separare completamente le tavole mediante cunei di legno. Poi si inseriva tra un’asse e l’altra un pezzetto di legno (un rametto o una scaglia) per permettere alle assi di respirare.
Stagnino (Stagnâr; Stagnadûr; Magnân)
L’ultimo termine dava la fisionomia dell’artigiano. Costretto a manovrare soprattutto pentole e padelle, si sporcava di caligine. Col tempo assorbiva quella colorazione scura che lo faceva sembrare sempre sporco. Perché un tempo pentole e padelle venivano pulite solo all’interno. Tanto che per prendere in giro una bimbetta un poco spuzzola le si diceva: T’ê bèla cme ‘l cûl d’ la padèla. E se la bimba era sveglia rispondeva: Ma ‘l cûl d’ la padèla l’é rutùnd / e me i’ sûn la pu’ bèla dal mùnd!
Compito dello stagnino era quello di saldare pentole di rame, le uniche che potevano essere saldate. Ma poteva anche riparare secchi di zinco, pentole di alluminio, o chiudere buchi in tegami smaltati. C’era anche chi riusciva, con una colla speciale, a restaurare teglie di terracotta o di maiolica. In caso disperato applicavano dei punti metallici. Oggi diremmo che non vale la pena. Un tempo tutto veniva sfruttato fino all’osso. A n’ gh’é trìst cavàgn ch’a n’ vègna bûn ‘na volta a l’an.
Anche il magnano si portava dietro una nomea equivoca. Salvo poi a doversi aggiustare la crapa da solo: ... al va via cun la crâpa rùta / e sensa ciamâ dutûr né avucât / al s’é stagnâ la crâpa al post del sö pignàt.
Stracciaiolo (Strasâr – Strasêr - Strasaröl)
Il più delle volte questo mestiere lo esercitava anche il raccoglitore di uova (uvaröl), ma c’era chi si limitava a raccogliere stracci di ogni tipo, pelli di coniglio, anche pelli di volpi (Bendìsa quànd la gh’êra!). Questi personaggi a loro volta portavano il materiale raccolto presso un altro raccoglitore più grande che poi smistava le pelli ai conciatori e gli stracci al macero o a chi li selezionava e imballava i migliori per rivenderli alle officine. Anche lo stracciaiolo aveva il suo grido particolare: Strasâr o Strasêr a seconda che avesse origine montanara o pianeggiante.
Rabotti ha dimenticato, forse non conoscendoli, alcuni dei mestieri in voga dalle nostre parti come il birocciaio (baroscer) che trasportava le merci con un cavallo oppure un mulo, sopratutto da Reggio Emilia, quando ancora non c’erano altri mezzi di trasporto. Teneva riforniti i piccoli negozietti sparsi un poco in tutta la nostra montagna. Poi c’era il vetturale o (mulater) che trasportava sopratutto prima carbone, poi legna dai nostri boschi, specialmente nell’immediato dopoguerra, quando vennero tagliati quasi tutti i nostri boschi, essendo la legna l’unica risorsa che la guerra aveva lasciato alle nostre popolazioni. Le dico questo perchè io sono stato uno di quelli che questi mestieri ha esercitato per circa otto anni, subito dopo la guerra. Poi c’era il carbonaio che faceva le carbonaie, su nell’alto crinale, partiva da casa il lunedì per ritornare il sabato, perchè una volta accesa la carbonaia doveva starci attento che non andasse a fuoco, altrimenti addio carbone. C’era anche il taglialegna, che i pochi anziani che vivono ancora e che l’hanno fatto, sanno bene quali sacrifici comportava e quanta fatica. Saluti.
(Beppe Bonicelli)
Giusto, Signor Bonicelli. Non ho dimenticato certi mestieri, ma non potevo ricordarli tutti. Già mi sembrava lunga questa parte, col rischio che non venisse letta se non da persone che hanno vissuto quei tempi. Di baroscêr ne ho conosciuto solo uno, Marione di Ciano, mitragliato dagli aerei alleati a Cerezzola. Di mulattieri ho conosciuto i Bacci provenienti dal comune di Ramiseto. Ho anche visto fare il carbone e conosciuto i taglialegna. La mia idea era quella di proporre questa prima parte, lasciare passare un po’ di tempo poi proporre un altro gruppo di mestieri. Grazie comunque. Il suo nome non mi è nuovo ma al momento non ricordo dove ci siamo visti. Tenga duro perché siamo rimasti in pochi a ricordare queste cose.
(Savino Rabotti)
Bello non c’è che dire: la rievocazione degli antichi mestieri locali! Però pensavo che il primo maggio, specialmente di questi tempi in cui il lavoro vale meno della speculazione finanziaria, meritasse un ragionamento più largo e profondo. Non si tratta di voler fare eco ad una festa cosiddetta di sinistra, bensì di voler ridare al lavoro e a tutti i lavoratori, secondo un concetto realistico e maturo: da quello dell’operaio a quello dell’imprenditore, da quello del commerciante a quello del professionista, perchè quella dignità sia di principio funzionale che deve costituire la nuova ideologia da contrapporre a quella del finanziarianesimo, che mi pare non centri nulla con destra o sinistra.
(Marco Leonardi)