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SETTIMA SETTIMANA
10 – 16 Febbraio 2013
La settimana appena iniziata ci porta due eventi: il 12 è il martedì grasso, ultimo giorno di Carnevale; il 13 è il mercoledì delle Ceneri, primo giorno di Quaresima. Prima del Concilio Vaticano II° c’era ancora l’obbligo, per i cristiani praticanti, di fare digiuno ed astinenza. In altre parole il primo giorno di Quaresima bisognava mangiare poco (conservare un poco di fame) e niente carne. La stessa cosa si ripeteva per ogni venerdì di Quaresima. A puro titolo di curiosità ricordo uno spot televisivo (rigorosamente in bianco e nero) che suonava così (ma niente pubblicità occulta):
“Oggi è venerdì:
non si mangia simmenthal,
ma domani sì”.
PROVERBI
Il mese di Febbraio in generale non era molto amato, tolto il periodo di Carnevale. Ce lo sottolineano alcuni proverbi. Del resto il nome del mese è già una descrizione di quello che esso sarà: il mese delle febbri, delle malattie. Anche se per i romani era soprattutto il mese delle purificazioni in preparazione alla primavera, e del ricordo dei defunti.
Fervâr
l’é cûrt e amâr.
Fervâr cûrt, cûrt
l’é péš che un tûrch.
E quanto a carnevale:
A carnevâl a s’ bàla e a s’ cânta,
ma in Quarêšma mìa fâr la vìta sânta.
Chi ch’a n’ bàla a carnevâl,
o l’é môrt o ch’al stà mâl.
Carnevâl l’é un bûn cumpàgn
perché al vên ‘na vôlta a l’àn,
ché s’al gnìsa tú-c i mêš
al srê l’arvîna dal paêš.
AL BÊN
Ancora una volta abbiamo un testo frammentato e ricomposto un poco alla meglio.
AL BÊN D’ NADÂL
(Madunina bela, bela,
che d’in cêl l’è) gnûda in tèra,
l’ha purtâ stu bel bambîn,
bianch e rùs e risulîn.
La Madùna la l’ha purtâ,
San Giuvàn a l’ha badšâ,
...a l’ha badšâ in Betlèm...
sensa fàsi né mantèl
da fasâr cul Gesú bel.
Gesú bel, Gesú, Maria,
i’ v’dàgh al cör e l’anma mia.
FILASTROCCA
Nelle giornate estive, verso l’imbrunire, era facile vedere i cervi volanti e osservare il loro goffo modo di volare. E noi ragazzi ci davamo da fare per prenderli. Di pericoli c’era solo la possibilità che ti prendessero un dito o la pelle della mano con le loro forti chele, ma sapevamo che bastava coglierli dalla parte del dorso, tra le ali e la testa e diventavano innocui. Oppure si appoggiava un bastoncino tra le chele. Loro stringevano e restavano attaccati al bastoncino.
BISCURGNÎNA VÊN DA BAS
Biscurgnîna, vên da bàs
ch’i’ t’ vöi dâr ‘na fèta d’ gràs.
L’é gràs bûn, gràs ad pursèla.
Ven da bas biscôrgna bèla.
Biscurgnîna, vên chi in tèra
ch’i’ t’ vöi mètr’ int ‘na sachèla.
La sachèla l’ê da stùpa,
a gh’é dênter ‘na fèta d’ cùpa.
Biscurgnîna vên chi sùta
e n’ me fâr mia gnîr la fùta!
S’a m’ vên la fùta e anch al futûn,
i’ t’ tràgh šó cun un bastûn.
Non mi risulta che i cervi volanti fossero particolarmente ghiotti di lardo. Ma per le famiglie contadine il lardo costituiva il condimento fisso per tutto l’anno. Offrire al cervo volante una fettina di lardo significava dargli il meglio che c’era in casa. I cervi volanti non conoscono l’espressione: “Non ci indurre in tentazione”. Del resto avrebbero avuto problemi per degustare una fetta di lardo.
INDOVINELLO
Mi’ pa’ l’êra un sturtignûn,
mi’ màma ‘na stentarèla,
i’ gh’han ‘na fiöla ch’ l’ê prân bèla
ch’ la fà perfîna inamurâr.
(L’uva).
POESIA
TRAMÛNT AL CASTLÂR
Segnalata al Vezzano 2006
Quand a vên sîra, e gli ùmbri, piân pianîn,
gli ingùgni la valâda dal Tasùbi,
al sûl al bâša la sìma dal Martîn
e pu’ a s’ va a scùndre, stúf, int al su’ cùbi.
Ma dal prufîl di mûnt, vêrs al pramšân,
a pâr ch’al vöja fâr la scundaröla:
al càmbia clûr, dal šàl al rùs, al viôla,
e pu’ ‘l s’adôrma, e ... i’ s’arevdèma dmân!
A pàsa ‘na parpàja všên al lampiûn ...
un cân al bàja, ... un sbràj dal su’ padrûn;
‘na turtarîna insìma ai fîl d’ la lûš
la fa la serenâda pr’al su’ ‘mbrûš.
Al pégri ‘l bêli, i cân i fân la fêra, ...
pu’ ‘l vêrs d’un caveriöl, cul d’un cinghiâl, ....
e Minghîn ch’ l’acarèsa la tastêra
e ‘l s’insùnia ‘na grân fèsta da bàl!
Quand a vên sîra i’ sênt int l’atmusfêra
‘na mùsica, luntâna chi sà quânt,
e ‘l vûši d’i mê vè-c, cme ‘na preghiêra,
ch’a m’ dân la fôrsa per tirâr inâns.
TRAMONTO A CASTELLARO 2006 - Quando scende la sera e le ombre, pian pianino divorano la valle del Tassobbio, il sole bacia la cima del Martino poi, stufo si ritira nel suo giaciglio. Ma da dietro il profilo dei monti, là verso il parmigiano, sembra che voglia giocare a nascondino: cambia la luce, dal giallo al rosso, al viola, poi s’addormenta e... ci rivediamo domani. Una farfalla passa vicina al lampione, .. un cane abbaia, poi il rimbrotto del suo padrone; una tortora sui fili della luce fa la serenata al suo moroso. Le pecore belano, i cani fanno fiera, ... poi il verso di un capriolo, quello di un cinghiale, ... e Domenico che accarezza la tastiera (della fisarmonica), mentre sogna una gran festa da ballo. Quando scende la sera percepisco nell’atmosfera una musica lontana chissà quanto, e le voci degli antenati che, come una preghiera, mi danno la forza per tirare avanti.
USANZE
CAMPANE A MARTELLO
Il suono delle campane aveva connotati ben precisi, che bisognava sapere interpretare. La campana più piccola di solito serviva a suonare I’ arciàm o i botti, vale a dire ad avvisare la gente che la messa stava per cominciare. Un bel concerto segnalava a chi era a casa che la messa era finita. Poi c’erano tanti altri accordi. Il peggiore era l’agonia, lenta, monotona con il passo della morte, capace di paralizzare chiunque. Significava che uno della comunità era alla fine. Ancor peggio era il suono “a martello”. Indicava un pericolo in atto (incendio, l’arrivo di un temporale, o, in passato, la presenza di militari in missione repressiva). Per l’incendio o il temporale diventava un allarme, per l’ultimo una disperata corsa verso rifugi ... Per quel che riguarda il temporale, alla fine, si trattava di una prassi empirico-scientifica. Probabilmente si univa l’aspetto religioso (dato dalle campane) alla misericordia o protezione divina. In realtà, pur senza che la gente lo sapesse, le onde prodotte dal suono delle campane rompevano le “corde” (correnti) dell’aria fredda interrompendo il formarsi della grandine.
SAGGEZZA ANTICA
CORRUPTIO OPTIMI PESSIMA
La decomposizione di chi era ottimo è la peggiore (S. Gregorio Magno). Questo motto lo potremmo definire la sintesi delle delusioni. A quanti sarà capitato di conoscere persone che, sul momento, sembravano onesti, solidali, equilibrati, poi si scopre che anche quelle persone sono avare, arriviste, false? Da studenti ci facevano quest’esempio per comprendere il senso della massima: “Guardate il giglio. Quanto profuma finché è fresco, e quanto puzza appena comincia a marcire!”.
SUPERSTIZIONI
ANIMALI NEFASTI
Vi sono animali che, per il loro aspetto, il loro verso o il loro comportamento, vengono catalogati fra le cose che portano sfortuna. Anche quassù, e ancora oggi, si sente il richiamo a tali credenze, e non capita solo nel nostro territorio. Un poco alla volta vedremo quali sono questi animali. Ma lo stesso animale può essere nefasto o favorevole.
Fra quelli che portano male vi sono gli uccelli notturni, il gufo e la civetta. Se poi la civetta canta vicino ad una casa vuol dire qualcuno della famiglia morirà presto.
Nessuno però ci faceva notare che gufi e civette riposano di giorno e cacciano di notte. E che vicino a casa, nelle aie, nei fienili, nelle stalle per loro era più facile trovare qualche topolino lui pure a caccia di cibo. E ancora: la civetta, pare, si nutre anche di uva. In genere vicino alle case c’era una tirella di uva da tavola. Inoltre: a primavera e in autunno abbiamo l’inizio e la conclusione del ciclo vitale della natura. Normalmente in quei due periodi sono maggiori i decessi. Ma per cause naturali.
SATIRE
ISAIA ZANETTI
Da questa puntata e per diverse altre, parleremo di quello che è stato ed è considerato il maggior satiraio di tutti i tempi nella nostra montagna. Fa parte ormai del grande mosaico che costituisce la memoria storica del popolo. L’esistenza di Isaia si svolge tra il 1899 e il 1973. È nato Villaberza, e di mestiere fa il contadino; per questo cambia podere un paio di volte. Ha velleità di affermazione, ma in casa comanda il padre che non ammette repliche alle proprie decisioni. Ciò comporta mortificazione per Isaia, al punto di vendicarsi su chiunque rappresenti l’autorità, sia quella civile che quella religiosa. A farne le spese sono il parroco (a carico del quale inventa vere e proprie calunnie), il podestà (visto solo come un profittatore) e chiunque non sia contadino od operaio. Altri aspetti li vedremo via via che toccheremo questa rubrica. Non potrò leggere le satire tutte intere. Primo perché sono troppo lunghe, secondo perché il linguaggio di Isaia andava bene in un mondo di campagna e in un tempo in cui la volgarità suscitava comunque risate ma non era considerata maleducazione.
Da: PELLEGRINAGGIO A FONTANELLATO.
Subito dopo la guerra, e in particolare nel 1946, tutte le parrocchie organizzarono un pellegrinaggio ad un santuario mariano. Dalle nostre parti era molto sentita la devozione alla Madonna di Fontanellato. Molte parrocchie si recarono a quel Santuario, arrangiandosi coi mezzi disponibili. Pure la parrocchia di Villaberza si recò al santuario. Il poeta racconta in pratica tutto il viaggio e le peripezie. Isaia descrive così l’annuncio del pellegrinaggio ai parrocchiani con una fine ironia che smaschera, se bisognasse, l’istinto interessato delle persone:
In cêša un dì l’ha predicâ:
“Chî êl ch’ völ gnîr a Funtanlâ?
A gh’é da bèvre e da mangiâr
e gnân a n’ gh’é ‘ngúta da pagâr”!
Quand i’ han vist tú-c cùma l’era,
“Siûr Periûr, i’ gh’ gnèm luntêra”!
...................
Ecco la presentazione dei partecipanti:
Gh’fu cul bel biundîn d’ Gaitân,
cul mèš mat ed Simnindân,
e cul spurcaciûn d’ Ricûn,
cul trampèl d’ Jusfîn dal Cân,
cla pursèla d’ la Tiutìsta,
e ‘l cap l’era Don Batista.
La descrizione dei pellegrini e delle loro avventure è lunga e minuziosa, con la precisa intenzione di mettere in cattiva luce ogni partecipante, oltre al parroco. Per il poeta il gruppo è tanto eterogeneo da suggerire immagini forti e strane:
A vèdre andâr ‘sti camê
a ridîva i’ âlbre in pê.
A pundr’ a mênt sti pajàs
j’ han tgnû rìder fîn i sas.
Arrivati al Santuario i pellegrini apparivano talmente strani da attirare l’attenzione di tutti, perfino della Madonna che:
...la dîš a Gesú Crist:
“L’é un bel pô ch’i’ sèma chì,
ma genta csì i’ n’ n’èm mai vist”.
E tralasciamo gli altri particolari che sono molto efficaci come descrizione, ma non adatti ad una trasmissione pubblica.
CURIOSITÀ
LE “SEPTARIE” DI VEDRIANO
Lungo le così dette Sadìne, il tratto che separa il Tassobio dai primi campi coltivati, sotto Vedriano, si trovano dei sassi particolari, capaci di attirare l’attenzione dei cercatori di minerali. “Dai fanghi marini di un lontano passato forme misteriose, fossili prigionieri, trame cristalline”. Cosa sono le septarie? Sono corpi globulari che si trovano dentro strati argillosi o sabbiosi. “Si tratta di masse rocciose, ovoidali o tondeggianti, di dimensioni variabili, costituite da una crosta reticolata divisa in setti, e spesso internamente cave, che racchiudono minerali ben cristallizzati (barite, calcite, ecc)” [Del Caldo-Moro-Boscardin: Guida ai minerali – Fabbri 1973].
Cosa significano questi vocaboli? Septarie deriva dal latino Sæpio = io cingo con una siepe. Infatti all’interno delle celle che costituiscono le settarie si nascondono (o vengono conservati) i cristalli come in un recinto. Reticolato: è la forma che assume la crosta dei sassi per conservare i cristalli. Setti: è la sostantivazione del verbo sæpio citato sopra. Si tratta di gabbiette geometriche che delimitano il minerale.
MEDICINA EMPIRICA
COME CI SI CURAVA
Il buon rapporto con la natura permetteva alla gente di una volta di curarsi con i mezzi naturali, ricorrendo il meno possibile a medici e speziali. Ce lo ricorda Lidia Grisanti in
DA CHI’ INDRÉE ES SAÌVEN CURÊR. . .
di Lidia Grisanti
E’ s’ curèven cun gli ērbi,
cun degli ērbi medšinēli
che i catêven ind i bòsch,
adrê i fiòm, ind al pinēri.
… Insòma, sèinsa spènder
un cavurîn¹ per fêr ‘na cūra,
guarìven i mêl, scurdòmel mèja,
cun i dòn ed la natura!
[Si curavano con le erbe, / con le erbe medicinali, / che trovavano nei boschi, / lungo i fiumi, nelle pinete. // Insomma, senza spendere / un cavurrino per fare una cura, / guarivano i mali, non lo dimentichiamo, / coi doni della natura.]
GIOCHI
LA STMÂNA
Ne esistevano due versioni. Tutte e due prevedevano di disegnare in terra sette casella. In un caso le caselle dovevano essere sei affiancate a due a due e l’ultima in testa larga quanto due delle altre. Sempre su un solo piede si percorrevano a serpentina le prime sei, poi si entrava nell’ultima coi due piedi uniti. Il secondo tipo prevedeva sempre sette caselle ma così disposte: due affiancate, una centrale; altre due affiancate e una centrale; in fine una grande il doppio rispetto alle altre. Si partiva dall’esterno con un salto e i piedi dovevano fermarsi ognuno su una delle prime due caselle; un altro salto su un piede solo per entrare nella terza; e così si ripeteva daccapo per le altre tre; in fine si planava sulla settima coi due piedi.
OTTAVA SETTIMANA
17 – 23 Febbraio 2013
Visto che la settimana appena iniziata non offre particolari richiami, ci possiamo permettere di fare gli auguri di buon onomastico a chi porta nomi originali, come: Silvino (il 17); Mansueto (il 19); Policarpo (il 23). Se dico Policarpo nessuno dà segno di particolare interesse. Se però dico solo Pulìch qualcuno non più giovane batte le ciglia per la sorpresa e ricorda colui che fu autista e compagno di avventure, (non sempre convinto ma comunque partecipe), di Pasquale Marconi prima, durante e dopo la guerra.
PROVERBI
La stagione cattiva è spesso sinonimo di morte. Morte dovuta al freddo o alla fame. Ecco una breve invocazione con conseguente costatazione:
Fervâr, Fervarîn,
làsa stâr i cuntadîn.
Fervâr, Fervarìa,
tú-c i dì ‘na malatìa.
S’a trûna d’ Fervâr
pôrta ‘l bùti int al granâr.
Forse l’invito a portare le botti nel granaio risulta incomprensibile per chi, soprattutto in montagna, riponeva il grano nel sottotetto. Ma in pianura il granaio era a livello terra, e lo stesso stanzone serviva anche da cantina. Ecco perché si consiglia di portare le botti nel granaio. Il proverbio è come un monito: predisponi tutto perché ci sarà una buona vendemmia.
AL BÊN
Nel modenese, lungo la valle del Rossenna, troviamo questo testo. Come si può vedere è imparentato assai con le preghiere proposte finora e con altre che vedremo in seguito.
URASIÒUN A SÄNTA CHIÄRA
Valle del Rossenna
Urasiòun a Sänta Chiära:
benedàt chi ch’a l’impära.
U’ l’ìmpära Sân Pelgrèin
ch’a l’inségna a Sân Martèin.
Sân Martèin e’ s’ vôlta in véja
e ‘l väd la Vergine Maréja:
u s’ vôlta vêrs l’altēr
e ‘l väd i’ àngel a cantēr.
Chènta, chènta, rôš e fiòur
che l’é là Noster Signòur.
L’é nê in Betlèmme
sèinsa quêrta né mantèl
da cuvrîr ch’al Gešú bel.
Gešú bel, Gešú, Maréja
tö-c i sänt in cumpagnéja.
Chi la sa e chi la dîš
Dio e’ gh’ dàga al Paradîš:
chi la sa e chi la chänta
Dio e’ gh’ dàga la glòria sänta.
FILASTROCCA
Una forma poetica diffusa tra la nostra gente era il Dispetto. Lo si usava nelle tenzoni tra innamorati, ma a volte anche rivali in ... chiacchiere da comari o in ambiente di famiglia. Come? Ascoltate!
CÚCIA PLÂDA
Cúciaplâda al fa i turtê
pra n’in dâr ai sö fradê.
I sö fradê i’ fân la sulâda
pra n’ in dâr a cuciaplâda.
La cugnâda la fa ‘l scarpasûn
pra n’ in dâr a su’ nunûn.
Su nunûn ‘l cöi l’insalâda
per fâr piànšer su’ cugnâda.
INDOVINELLO
Mi’ fradèl l’ha a nòm Fredrîgh,
al gh’ha la bârba, al gh’ha i barbîš,
l’é fîn e lìs a-cmé ‘na piúma,
l’infîla tú-c i bûš sênsa la lúma.
(Il gatto)
POESIA
Ci sono cose che, lì per lì, vengono dimenticate perché non più usate. Come le vecchie fontane nei borghi isolati, un tempo necessarie per sopravvivere poi soppiantate dagli acquedotti che arrivano in ogni casa, dimenticate e abbandonate a sé stesse.
LA VÈCIA FUNTÂNA (1)
Menzione speciale al Vezzano 2007
L’ê là, in funda a la rampâda,
la funtâna vècia, scûša
da un sajûgh e da ‘na nûša
ch’i’ la tînne riparâda.
Tân-c an fa (la pâr ‘na fôla!)
i’ pasêvne tú-c lì všîn:
chî rimpîva al caldarîn,
chî scambiêva ‘na parôla!
La funtâna, silensiûša,
l’ascultêva tân-c perché:
‘l fiöl ch’ l’é grand e ch’al se spûša,
i racôlt, al bèstji... e csé
i s’ liberêvne d’un magûn,
e, cun ‘l cunsìli d’un amîgh,
a s’ catêva al co’ d’ n’intrîgh
pra sbrigâr una questiûn.
E lê? Sìta! E, per cumênt,
al sîgh d’un s-cèl ch’ l’andêva a fund;
dop al lúšghi d’un s-cèl piên
ch’ l’arturnêva a vèdre al mund.
I’ arsênt i pàs ch’i se sluntâni
e i cûntne i sàs d’ la masiciâda,
e i suspîr per la fadîga
fîn insìma a la rampâda.
A rîva un sùpi d’ in pramšâna
ch’al dà arsôr cuntra al sudûr:
l’é cme ‘na carèsa umâna
ch’ l’asupìsa un pô ‘l dulûr!
Ma la gênta, un pô a la volta,
l’ê duvûda andâr luntân
a sercâr un tòch ed pân
perché chí n’ gh’êra âtra scèlta!
Dòp tânt têmp dû-trî paišân
i’ han pensâ d’artöla a mân.
Bên pulîda, la dà pröva
che la vìta la s’arnöva!
A n’ gh’é pu’ ‘l bàšle e gnân l’armûr
d’ la širèla e d’ la cadêna,
ma ‘na bùta, ch’ la vên piêna
cun la pùmpa d’un tratûr!
E lê, discrêta cmé a chi têmp,
semper prûnta a fâr dal bên,
l’aspèta, câlma, i sö cliênt,
mentr’ al cêl al pâr pu’ srên!
LA VECCHIA FONTANA - 2006Si trova laggiù, all'inizio della salita, l'antica fontana, nascosta da un sambuco e da una noce che le fanno da riparo. Tanti anni fa, (sembra una favola!) passavamo tutti lì vicino; chi riempiva il secchio, chi scambiava una parola. La fontana, silenziosa, ascoltava tanti crucci: il figlio, ormai adulto, che si sposa, i raccolti, il bestiame... e così ci si liberava di un magone e, col consiglio di un amico, si trovava il bandolo di un intrigo per risolvere una questione. E lei? Zitta! e, per commento, il cigolio di un secchio che scendeva a fondo; poi le lacrime del secchio pieno che ritornava a vedere il mondo. Risento i passi che si allontanano e scandiscono i sassi della massicciata, e i sospiri per la fatica fino al termine della salita! Giunge un soffio dal parmigiano che dà ristoro contro il sudore. Sembra una carezza umana che allevia un poco il dolore! Ma la gente, un poco alla volta, è dovuta andare lontano alla ricerca di un tozzo di pane perché qui non vi era altra scelta! Dopo tanto tempo alcuni paesani hanno pensato di riprenderla a mano. Ben ripulita da la prova che la vita si rinnova! Non c'è più il baggiolo, né il rumore della girella e della catena, ma una botte che diventa piena grazie alla pompa di un trattore. E tu, discreta come allora, sempre disposta a fare del bene, attendi, tranquilla, i tuoi clienti mentre il cielo appare più sereno.
USANZE
I RICCIONI
Durante la quaresima, fino oltre Pasqua, arrivavano i radicchi selvatici, duri ancora, ma saporiti. Chi li chiamava semplicemente Radì-c, chi Risûn, chi Radicèli, ma, alla fine, era sempre lo stesso prodotto. E anche il modo di condirli variava, ma la base era la stessa, con quel saporino di amaro, di selvatico, esaltato dall’aceto o dal soffritto. Erano buoni cotti e crudi. Anzi, dal Sabato Santo in poi diventavano un piatto di tradizione. Il Sabato santo, un tempo, segnava la fine della Quaresima, perché la liturgia prevedeva la resurrezione di Cristo intorno al mezzogiorno di quel giorno. Da quel momento era possibile giocare a scoccino, e i più esperti si portavano a casa un discreto bottino di uova lesse, colorate come esigeva la tradizione. Uova sode e radicchi di campo costituivano il secondo del lunedì di Pasqua, ma a volte anche il piatto unico per la cena.
SAGGEZZA ANTICA
DE GUSTIBUS NON EST DISPUTANDUM
Tradotto alla lettera suona: Non è il caso di discutere sui gusti delle persone. In altre parole si intende affermare che ognuno è libero di pensarla come vuole. Anche quando il comportamento di certe persone sembra assurdo e inopportuno. Allo stesso tempo vuole anche significare che ogni persona ha una sua sensibilità, legata alla personalità e ai sentimenti individuali. Che i latini esprimevano con l’altro adagio: Tot càpita tot sententiæ (Tante sono le persone altrettante sono le opinioni).
SUPERSTIZIONI
ALTRI ANIMALI NEFASTI
Oltre al gufo e alla civetta vi sono altri animali che la mentalità della gente considera portatori di sventure. Per esempio:
Il gatto nero che attraversa la strada porta sventura.
Se qualcuno è talmente sadico da tagliare la coda a un gatto, questo diventa uno stregone.
Il rumore del tarlo che rode mobili o travi viene definito L’orologio della morte.
Il cane che ulula, che fa il verso del lupo, indica disgrazia o morte imminente.
La gallina che si mette a fare il verso del gallo annuncia che presto morirà il capofamiglia.
Se il pipistrello urina in testa a qualcuno questi diventerà calvo.
SATIRE
Un’altra satira di ISAIA ricordata da molti è quella intitolata
O RAGHÈS, STÊ UN PÔ ATÊNTI!
Si riferisce alle prime elezioni ufficiali del dopoguerra. Il poeta vuole dimostrare che le elezioni sono state truccate e che a comandare saranno sempre gli imbroglioni. Presagio o certezza che la storia si ripete? Si parte con una lunga introduzione sui mali causati dalla guerra e, dopo aver parlato dei deportati e delle rappresaglie, descrive i bombardamenti dei nostri villaggi e l’uccisione di poveri innocenti, poi si chiede:
Adèsa zîm s’i’ gh’ho rašûn:
al guèri al porti distrusiûn
......,.
Ai genitûr i’ gh’ màsne i fiö,
i’ gh’ töšne ‘l vàchi, i vdê e i bö,
cul pô d’ vîn, cul pô d’ furmênt,
tânt che in cà a n’ gh’armàgna gnênt.
Pegri e lâna, cun l’agnèl,
e, s’i’ gh’l’î, v’ töšne al pursèl,
.........
A n’ s’armàgn che pèla e òs
e da sbàter šù pr’un fòs.
Poi c’è la sferzata finale, ad effetto. Si vuole far capire agli elettori che nulla cambierà. I poveretti resteranno tali e a mangiare bene saranno sempre gli stessi, gli imbroglioni.
Pr’èser sempr’ in magiurânsa,
lûr caplèt a crèpa pânsa,
e pròpia a chi ch’a n’ fa mai gnênt
vîn d’ butìglia e pân d’ furmênt,
e pr’i purîn ch’i’ han lavurâ
pân d’ mestûra e vin turciâ.
CURIOSITÀ
IL DIAVOLO DI CROVARA
Chi si reca in visita alla chiesa di Crovara scorgerà, murato lì di fianco alle scale che conducono all’ingresso, una pietra particolare, una grossa testa che assomiglia più ad un gattone che ad un diavolo. L’ha ritrovata don Angelo Rabitti sul monte che sovrasta la chiesa, quando, voglioso di saperne di più, ha cercato di ripulire un poco la sommità del monte ove sussistono tracce dell’antico maniero. All’inizio Don Angelo avrà tribolato a dare una funzione a quel mostricciattolo e a capirne l’utilizzo. Coi piedi per terra, com’era sua consuetudine, si rese conto che quella figura zoomorfa era solo una trovata geniale degli architetti dell’epoca per fare cadere l’acqua piovana il più lontano possibile dai muri della torre. Ma perché quel nome allora? Immagino che a Don Angelo, mentre illustrava la sua scoperta a qualche amico, deve essere scappata una espressione del tipo: “Quel povero diavolo...”. Ed è bastato per affibbiare al sasso il soprannome di Diavolo di Crovara.
MEDICINA EMPIRICA
Per anestetizzare un dente cariato che faceva male si poneva all’interno della carie del tabacco sciolto. Altri utilizzavano il lattice giallo-arancione di un’erba muraria di cui non sono riuscito a rintracciare il nome.
Col un altro fiore (giallo, peloso, a pennello) tenuto in infusione nell’olio si curavano botte, ematomi, mal di stomaco, massaggiando la parte offesa.
E sentite quest’altra: se qualcuno soffriva di ulcera per guarire doveva inghiottire una lumaca viva.
GIOCHI
LA PIÀSTRA
Appena la stagione lo permetteva e il sole aveva asciugato le carraie era facile vedere un crocchio di bimbi intenti a giocare. Normalmente si prendeva una piccola lastra di pietra, una piàstra, (ognuno sceglieva quella che più gli confaceva), si individuava uno spazio entro cui mantenersi, si poneva un punto fisso, che poteva essere un sasso, un piolo di legno, un albero, che doveva fungere da mèta. Dopo aver stabilito l’ordine di lancio ognuno cercava, quando era il proprio turno, di lanciare la propria lastra il più vicino possibile al punto prestabilito.