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PRIMA SETTIMANA
1-5 Gennaio
Cosa significa Gennaio? Dobbiamo risalire al calendario latino e ricordare che originariamente l’anno cominciava col mese di Marzo. Però il calendario primitivo non era in grado di calcolare esattamente quanto durava il ciclo lunare e quanto quello solare. Perciò, inizialmente, sfuggirono i minuti eccedenti, con la conseguenza che dopo alcuni secoli i conti non tornavano. Nel 152 a. C. si fece una prima riforma, anteponendo a Marzo i mesi di Gennaio e Febbraio.
Pare che il nome Januarius sia stato scelto in onore del dio Giano, il dio-principio di ogni cosa. Per onestà citiamo anche l’opinione di chi preferisce interpretare Januàrius come aggettivo, e cioè portinaio dell’anno, partendo da Jànua che significa porta.
Un concetto guida occorreva comunque. Se, in precedenza, ci si rifaceva a Marte inteso come dio della vegetazione, quindi della rinascita primaverile, ora bisognava individuare un altro principio cui ispirarsi. La scelta di Giano la possiamo scorgere nel fatto che questa divinità vede, prevede, ricorda. Conosce il futuro e il passato. E per una società primitiva o quasi non è poco.
PROVERBI
Il primo giorno dell’anno segna una nuova carica, una ripartenza, l’inizio di una vita nuova. La fantasia popolare allora si sbriglia, e nascono espressioni destinate a durare nel tempo. C’era l’usanza, specialmente nell’alto Appennino, di recarsi la mattina del primo giorno dell’anno a fare gli auguri alle famiglie che stavano un poco meglio della propria. Questo per rimediare qualcosa da mangiare. I ragazzini si presentavano alla porta dicendo:
Bûn dì, bûn àn,
fâdme e’ bundâl ânch pr’a st’àn.
[Buon giorno. Buon anno – Fatemi il regalo anche quest’anno].
Ma non tutti erano ben disposti verso il questuante. Allora si modificava i versi così:
Bûndalîn a l’ús, a l’ús.
S’a n’ me ‘l fâdi i’ pìs int l’ús.
[Sono presso la porta per il buon anno. – Se non me lo fate piscio sull’uscio].
Vi erano anche delle “tradizioni” da rispettare. In Romagna dicevano:
Parché l’àn növ u t’azùva
e’ prém d’ l’àn màgna d’ l’ùva.
(Perché l’anno nuovo ti sia favorevole mangia dell’uva il primo giorno dell’anno).
Era opinione comune, basata sull’esperienza, che Gennaio dovesse essere asciutto e freddo per produrre un buon raccolto. Sotto la neve ghiacciata il terreno restituiva parte del calore accumulato l’estate precedente. Questo favoriva la crescita del grano che si irrobustiva ed era pronto al momento del disgelo.
Pûra da Šnâr
l’impìsa al granâr.
(Polvere di Gennaio riempie il granaio).
AL BÊN
Le preghiere della gente il più delle volte erano (e sono tuttora) interessate. Altre volte diventano un pot-pourri di diverse preghiere messe insieme, legando concetti o rime o immagini senza un nesso logico. Capita allora, come vedremo anche in seguito, di trovare dei testi che non hanno più un senso, un nesso logico. Al Bên è anche questo, specialmente quando diventa celebrazione di un santo o di un evento.
MADUNÎNA BÈLA, BÈLA (Iª)
Madunîna bèla, bèla,
che d’in cêl T’ê gnûda in tèra,
t’ê purtâ csì bel bambîn
biânch e rùs e risulîn.
La Madùna la l’ha purtâ,
Sân Giuvàn a l’ha badšâ.
Tú-c i Sânt in bûn umûr
j’ hân ludâ Noster Signûr.
FILASTROCCA
La filastrocca aveva soprattutto un fine pedagogico: insegnare ai piccoli le verità essenziali e i principi della morale. Per raggiungere meglio l’intento si ricorreva alla rima che aiutava la memorizzazione. Spesso anche al paradosso, unendo l’utile al dilettevole, come in questo caso.
TÊMP AD FÊRA
Una vôlta, in têmp ad fêra,
a gh’êra Bandêra
ch’al sunêva ‘l viulîn.
Arîva ‘na mùsca tùta arliâda
ch’ la gh’ dà ‘na sampâda
e la rûmp al viulîn.
INDOVINELLO
Induvîna induvinàja:
chiêl ch’ fa l’öv sûra a la pàja? (La gallina)
POESIA
LA NÊVA L’Ê BÈLA
1986 - Segnalata al "Vezzano 2007"
Guardêla quànd la fiòca pian pianîn,
cmé s’ l’aìsa pajûra d’ disturbâr;
quànd la quàcia d’uvàta ‘l bròch d’i pîn
e l’impruvîša tân-c àlbre d’ Nadâl!
Guardêla quànd la cröv amöd i prâ
sut ‘na bèla imbutîda d’ lana biânca:
la fà la nina-nàna a l’èrba stânca
pr’arrèndla pu’ rubústa vèrs l’istâ!
La m’ piâš in mèš ai bosch, insíma ai mûnt,
cmé ‘na tvàja d’ bugâda fra i’ abêt;
quànd la fa spè-c al sûl, quànd, al tramûnt,
la càmbia clûr, e ‘l mund a s’ mèta chiêt!
E la m’ piâš sùt la lûna inargetâda,
mentr’ a brìla i rubîn sternî int i prâ;
quànd al mund, fîn adès indafarâ,
a s’ câlma e ‘l têš int ‘na nòta incantâda!
È BELLA LA NEVE - Guardatela fioccare lenta, lenta, come temesse di recar disturbo, quando copre d’ovatta i rami dei pini ed improvvisa tanti alberi di Natale! Osservatela mentre copre bene i prati sotto una bella trapunta di lana bianca; e fa la ninna-nanna all’erba stanca per renderla più vigorosa verso l’estate. Mi piace in mezzo ai boschi, sopra i monti, come una tovaglia fresca di bucato fra gli abeti; quando fa specchio al sole, e, al tramonto, cambia colore, e il mondo si acquieta. E mi piace sotto la luna argentata mentre brillano i rubini seminati nei prati, quando il mondo, fino a poco fa indaffarato, si calma e tace in una notte d’incanto.
USANZE
L’ANNO NUOVO
Questa era una ricorrenza da trascorrere bene: abiti dalla festa, pranzo solenne, anche se non proprio quello della sagra, scambio di visite ai parenti o agli amici.
Per noi piccoli, se il tempo era bello, c’era la possibilità di andare a scarriolare sulla neve con i mezzi a disposizione. Qualcuno azzardava chiamare sci due doghe recuperate da una vecchia botte demolita. E, tutto sommato, soddisfacevano discretamente al nuovo compito. Altri scorrazzavano su tavolette adattate a slitta. Altri ancora con sacchi di iuta pieni di paglia. Fin che c’era il sole tutto procedeva allegramente, ma appena si avvicina va il tramonto conveniva correre in casa, vicino al focolare, ad asciugare i panni e scaldare le mani rosse dal freddo.
SAGGEZZA ANTICA
AGE QUOD AGIS
Che potremmo tradurre:Cul che t’ fê fàl amöd. Preso alla lettera il motto significa: fa bene quello che stai facendo. Iniziare l’anno con tali propositi di sicuro aiuta. Capita spesso che, mentre stiamo facendo qualcosa, ci distraiamo ad osservare cosa fanno le altre persone. E magari interveniamo anche per correggere o suggerire soluzioni che ci sembrano migliori. Buona volontà a parte è sempre un ficcare il naso nelle cose altrui. Perciò calza a puntino l’invito a fare bene ciò che è di nostra competenza.
SUPERSTIZIONI
IL LUPO MANNARO
Ai tempi della nostra infanzia era poco più di uno spauracchio destinato a frenare l'irrequietezza dei più piccoli. Già si cominciava a capire che certi esseri non potevano esistere. In realtà la superstizione ha radici più lontane: si tratta della licantropia, cioè la degenerazione mentale che faceva ritenere a chi ne era affetto di essere un lupo. Di conseguenza si comportava come tale in determinate situazioni (per esempio nel plenilunio). Infatti in certi luoghi la licantropia vien detta anche mal di luna.
SATIRE
Sotto questa voce riporteremo dei frammenti che siamo riusciti a ricostruire tramite intervista a qualcuno più anziano di noi e ad un lavoro di paziente restauro. Ciò potrebbe provocare qualche dissonanza con i brani che qualcuno ricorda a memoria. Ma questo non ci deve spaventare. Da quando l’uomo ha iniziato a mandare a memoria proverbi, filastrocche o preghiere, ognuno ha adattato a sé stesso il motto o la strofetta. Ognuno l’ha capita e interpretata a modo proprio. Il che ha prodotto una serie di varianti che rendono difficile se non impossibile, risalire all’originale.
Cominciamo da colui che viene considerato il capostipite dei satirai moderni: Quirûn da Palarê, ossia Quirino Zanelli, vissuto nella seconda metà del 1800 e morto nel 1924. Di lui ci sono rimasti solo dei frammenti che sono ricordati più come proverbio che come componimento. Gli argomenti trattati erano quelli di tutti i giorni: la mucca che non si ingravida, la scrofa che sfugge al norcino, la testimonianza in tribunale, il gioco a tre, ossia le corna.
Frammento – INTERROGATORIO UN PRETURA
Voi, De Pietri e Fortunati,
davanti a me siete chiamati
a cuntâr la veritâ
ad cla lîta ch’i’ han tacâ.
Ah! Ch’e’ sênta, siûr Pritûr,
cullì l’êra un bröt lavûr,
quand i gh’ dgêvne d’ l’imbrancâ,
e lì in tèra il tên ficâ,
e ch’i’ gh’ fön tú-c quan-c adòs,
câls e púgn, töt un casòt,
e cun quanta genta a gh’era,
föra chi me, tu-c il picêva.
E cul munch lé da la Cêša
a se srê dìt che lû n’ picêva:
ben ch’al gh’ìsa sûl un bràs,
e gh’ piantêva pùgn da mat........
Sempre Quirûn, a proposito di povertà, costatava:
La Miseria la fêva clasiûn a Riâna,
la gnéva a dišnêr a Vinsé,
ambrènda a la Carvâra,
e a sêna a Palarê.
CURIOSITÀ
Che la fantasia della gente si sbizzarrisca nel cercare sagome, somiglianze, nella configurazione di oggetti, monti o alberi è risaputo. Il Cusna, per esempio, viene definito il gigante o l’uomo morto per la sua configurazione. Poteva esimersi Bismantova? A parte i diversi mascheroni o fisionomie che ognuno vede per conto proprio, la Pietra si presenta come fonte che si rinnova e cambia soggetto a seconda dell’ora, della luce, dei tempi. Quando ero ragazzo chiamavano la Sfinge lo sperone che sovrasta l’attuale Piazzale Dante e segna il clou del maestoso macigno. Poi, lo stesso particolare fu definito la testa del cavallo. Tra la prima e la seconda guerra vi fu chi intravide nel masso suddetto il volto del duce. In seguito il fotografo Lodi scoprì, sempre sulla stessa area, il sudario di Cristo, molto simile a quello della Sindone, che un attento osservatore riesce ancora a vedere.
MEDICINA EMPIRICA
Questo spazio l’abbiamo chiamato medicina empirica proprio perché non dà garanzie scientifiche. La gente però si fidava. Che direbbero i sanitari attuali se la stessa cosa la si riproponesse oggi?
Per curare l’acetone(un tempo li definivano i vermi) si metteva al collo del bimbo una collana di spicchi d’aglio sbucciati.
Il mughetto (o placche bianche) si curava col miele.
Per disinfettare la vista ci si lavavano gli occhi con pipì di neonato.
E sentite questa: se un bimbo continuava a fare la pipì a letto bisognava fargli mangiare un topo a sua insaputa.
GIOCHI
Tra le tante varianti di giochi c’era anche Gàmba supèta. Anche questo gioco aveva un numero imprecisato di varianti e di nomi. La nostra variante consisteva nel fissare un percorso poi, a turno, percorrerlo utilizzando una sola gamba, come se l’altra mancasse. La gara era legata sia all’esecuzione pulita sia al tempo di percorrenza.
SECONDA SETTIMANA
6 – 12 Gennaio 2013
Bambini, oggi ci rivolgiamo a voi. Perché per voi la seconda settimana comincia bene: c’è la Befana. E allora ... facciamo festa! Al tempo dei miei nonni c’era, si, la Befana, ma c’era anche tanto freddo. La legna per scaldarsi non mancava. In pratica il camino ardeva tutto il giorno, ma quanti spifferi tra le porte o le imposte! Quanti sbuffi di fumo invece di scaricarsi oltre il tetto rientravano in cucina accecandoci! E il vento che si divertiva a zufolare fra le fessure dei telai. Poi quanta neve da rompere. Quanta strada da percorrere fra due pareti di neve per arrivare a scuola. Cos’ha conservato in comune tra noi e voi la Befana? Forse solo i carboni. Quelli li avevamo anche noi, e abbondanti. Mentre la nostra calza poteva contenere, al massimo, qualche mandarino o un torroncino.
PROVERBI
Sapeste che tristezza quando gli anziani insistevano nel ripetere:
Quànd a vên l’ Epifanìa
túti ‘l fèsti la pâra via!
Scattava, improvviso, un serio esame di coscienza. Eppure, anche se eravamo un tantino vivaci, non ci sembrava di meritare un castigo così drastico. Poi qualcuno ce lo ha spiegato: con l’Epifania si conclude il ciclo delle feste natalizie. Ci sarà ancora modo di fare festa sotto carnevale, prima di iniziare il percorso impegnativo verso la Pasqua. Ma poi i nostri nonni si premuravano di spiegarci che le feste sarebbero ritornate un poco più avanti, con l’inizio della primavera, e in prossimità della Pasqua:
Fîn ch’ n’arîva San Bendèt (21 Marzo)
ch’a n’in pôrta un bel sachèt.
Perché poco dopo quella data ci saranno le feste pasquali,
Vi voglio raccontare una Credenza popolare un tantinello strana.
Serpeggiava, in diverse località d’Italia, l’opinione che gli animali della stalla potessero parlare tra di loro. E sicuramente tra di loro riuscivano a comunicare. Ma in alcuni luoghi questa possibilità la si collocava nella notte di Natale (Istria), in altre la notte prima dell’Epifania, (Romagna e Toscana), in altre ancora nella notte di Sant’Antonio abate (17 Gennaio), protettore degli animali. I compagni di viaggio dell’uomo, gli animali domestici, avevano diritto ad un giorno di riposo particolare e ad un pasto speciale. Ma il rapporto tra l’uomo e l’animale era tale da attribuire a quest’ultimo gli stessi sentimenti dell’uomo. Ecco perché la gente era convinta che:
La notte di Befana, nella stalla,
parla l’asino, il bove, la cavalla.
Qualcuno si è pure domandato quali discorsi si scambiassero gli animali. Ammesso che ciò abbia un senso, forse parlavano solo di fatica, di lavoro e di cibo, e magari di padroni troppo severi. E, mentre sognavano cibi speciali,
... alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
AL BÊN
La preghiera che suggerisco questa settimana non è in dialetto, e forse la conoscete anche voi, ragazzi. È però legata all’ambiente per i concetti che tratta. La propongo perché era talmente radicata nel nostro territorio da essere assimilata a quelle recitate in dialetto. Eravamo agli inizi della scolarizzazione del popolo, e chi riusciva a frequentare le prime tre classi davvero doveva ritenersi fortunato. Se poi c’era la possibilità di proseguire fino alla quinta, (o addirittura fare un anno suppletorio definito “la sesta”), il fortunato si poteva ritenere un professore. Nella zona di Rosano-Cola c’è ancora memoria di una ragazzina che, dopo aver frequentato le cinque classi delle elementari, si è poi dedicata con passione a fare scuola agli altri ragazzini con eccellenti risultati, pur non essendo maestra diplomata.
Il testo che proponiamo quasi sicuramente veniva recitato nelle prime classi elementari.
SERMONCINO DI NATALE
O bambinel, non piangere,
dona tue spine a me.
Voglio soffrire anch’io
per la Tua santa Fè.
Dammi la culla povera
che in cambio ti darò
il bel lettino morbido
che il babbo mi comprò.
E ti darò un vestito
per riparar dal gelo
e ti darò un mantello
ch’abbia il cappuccio e il pelo.
Ma tu tentenni il fulgido
capo, dicendo no.
Allor, Gesù Bambino,
so ben quel che farò.
Farò fermo proposito
di crescere in bontà
per dimostrarmi tenero
verso la tua pietà.
FILASTROCCA
Tra le filastrocche inventate per insegnare ai piccoli le prime nozioni del sapere c’è la seguente, destinata all’apprendimento delle parti del corpo umano. In pratica si tratta di insegnare le funzioni delle dita in una maniera divertente, con una storiella.
Cùst ché l’é andâ int al pùs (e si indica il pollice),
cust ché a l’ha tirâ sú, (indice)
cust ché a l’ha sugâ, (medio)
cust ché al gh’ha fat la súpa (anulare)
cul birichîn ché a l’ha mangiâda túta (mignolo).
INDOVINELLO
Un prâ bên arâ e bên surcâ
‘nsúna vàca gh’ha mai pistâ (Il tetto).
POESIA
Il mondo agricolo era la base dell’economia nazionale fino al termine della seconda guerra mondiale. Poi il mutare della vita sociale, il poco guadagno di chi viveva in campagna hanno portato ad un mutamento radicale anche negli ambienti contadini. Questo ha permesso ai nostri compaesani di migliorare il proprio tenore di vita, ma ha anche danneggiato i rapporti tra le persone.
In questa poesia abbiamo tre passaggi. Il primo sottolinea lo stato di povertà di un tempo. Il secondo analizza il periodo del boom economico, ma anche la mancanza di solidarietà reciproca dovuta all’egoismo. Il terzo momento è la richiesta di aiuto alla Madonna per ritornare sinceri come un tempo. Questo componimento ha avuto la soddisfazione di classificarsi primo alla Giarêda 2001 nel settore Fabbriceria (Poesia religiosa).
MADUNÎNA D’I PURÈT
1988 – Primo Premio FabbriceriaGiarêda 2001
Primo quadro: Gli anni della miseria
Madunîna d’i purèt,
quêrca vôta V’ srà gnû in mênt
che un puchîn i’ V’ s’arvišèma.
Túta ‘na vita piên da stênt,
nòta e dì ch’i tribulèma,
ma, a la fîn, cun quâl efèt?
Secondo quadro: Gli anni del boom!
Pu’ a rivè la bèla vìta:
sôld ad pu’ dal necesàri,
e per chiêtre? Ansûn rispèt!
Drê a la via l’è un calvàri:
preputênsa e malavìta,
tân-c suprûš e tân-c dispèt!
Preghiera:
Dês ‘na mân a stâr in pê
quand a piöv, quand a tempèsta.
Tgnîs in fîla int al sentêr
d’ n’esistênsa sâna e unèsta.
E cul dì ch’ rivarà l’ûra
d’ fâr i cunt cun l’esistênsa,
Madunîna, aî pasiênsa:
‘mtîs a quêrt, ‘mtîs al sicûr.
MADONNINA DEI POVERI - Madonnina dei poveretti, quante volte vi sarà passato per la mente che Vi rassomigliamo un pochino. Tutta una vita piena di stenti, giorno e notte che triboliamo, ma, alla fine, con quale risultato? Poi giunsero i giorni del benessere: soldi oltre il necessario, ma per gli altri? Nessun rispetto. Per la strada oggi è un calvario: prepotenza e malavita, tutto un sopruso e tutto un dispetto. Dateci una mano a restare in piedi quando piove, quando tempesta; teneteci in fila sul sentiero di una vita sana e onesta. E quel giorno che arriverà l’ora di fare i conti con l’esistenza, Madonnina, abbiate pazienza, metteteci al coperto, metteteci al sicuro!
USANZE
LA BEFANA
Nel nostro piccolo mondo, dove lentamente arrivavano bagliori di vita di città, dove prendere qualche iniziativa che non fosse già comprovata dall’esperienza costituiva una novità sospetta, in questo piccolo mondo era ben radicata la tradizione della befana.
Epifania significa: manifestazione della luce. Ed è chiaro che ci si riferisce alla luce del Redentore che si manifesta al mondo intero nelle persone dei Magi. Ma tutto questo interessava relativamente e solo per potere rispondere bene a Catechismo.
Ci interessava invece svuotare in fretta la calza per vedere se c’era qualche sorpresa. Magari un gioco. E questo capitava di rado. La nostra calza conteneva, abitualmente: una manciata di castagne secche. Chissà perché quelle della calza ci sembravano più buone di quelle del sacco lì, a portata di mano. C’era poi l’immancabile purtugàl (mandarino), qualche caramella, a volte un torroncino, e i mignîn, i wafer confezionati in una splendida scatolina poco più larga di un francobollo e quasi sempre abbinata ad un microscopico mazzo di carte da ramino. La speranza era di non trovare, a conclusione, i tristi carboni, messi lì quasi a rovinare la festa. Il resto della giornata trascorreva a confrontare il proprio tesoretto con quello degli amici.
SAGGEZZA ANTICA
AMICUS CERTUS IN RE INCÈRTA CÈRNITUR
Un amico sincero lo si scopre in una situazione di difficoltà. Sono molte le frasi legate all’amicizia sincera. Ma il concetto dominante è sempre quello che l’amicizia è disinteressata e pronta. Il verso gioca moto sulla allitterazione dei vocaboli certus, incerta, cernitur. Potrebbe essere di Virgilio.
SUPERSTIZIONI
RUMORI STRANI
Era frequente sentire ripetere la frase: Nel tal posto ci si sente, alludendo a rumori inspiegabili. Il più delle volte invece erano spiegabili e dovuti a fatti naturalissimi, come quella che raccontavano i nostri vecchi: in una casa isolata ad un certo punto si sentivano rumori provenire dal sottotetto, rumori sordi, rauchi. Dopo alcuni giorni di perplessità la notizia fu confidata e presto passò di bocca in bocca, fino a quando un signore più coraggioso degli altri volle fare un sopralluogo. La causa di tanto timore era una chioccia che aveva scelto nel sottotetto il luogo ideale per covare.
SATIRE
JÀCME DA LA CÊŠA
Su questo poeta non abbiamo notizie. Giovanelli ritiene che sia originario della zona vicino al monte Berghinzone, ma di più non sappiamo. Di sicuro era molto schivo e non passava le sue satire se non a pochi intimi. E frequentava con impegno la chiesa. Quella che proponiamo è la più significativa per il contenuto: prima o poi anche la vita disonesta arriva ad un rendiconto.
O Marchîn dal ca d’adsûr,
ch’t’êr purèt e t’ fêv al sgnûr,
che ‘l furmênt t’ê fin rubâ
ai tö fradê e ai tö cugnâ,
ch’ t’êr bun d’ vènder la farina
ai cumpàgn d’la tu’ dunlîna,
ma a tu’ màma, ch’la n’avrîva
vèdte acsì, e cla murîva
pr’al fadîgh e pr’al lavûr,
per la fàm e pr’al dulûr,
t’an gh’ê mai fat la caritâ
d’un pô d’ pân, d’un pô d’ buntâ.
O Marchîn dal ca d’adsûr,
t’ê prân smìs i bröt lavûr,
t’ê pran fnî d’ ciapâr la bàla
cun al duni int la tu’ stàla.
Sibên che t’n’al pensès mia
a t’é rivâ ‘na malatìa
e un pô d’amûr t’ê šmandâ
a chî mai t’an gh’a l’ê dâ.
O Marchîn dal ca d’adsûr,
t’n’ê causâ di gran dulûr
a tu’ màma e ai tö fradê,
t’ê fin fat dj urfanê;
per ciapâr un pâr de scûd
ànca l’ànma at t’ê vendû.
O Marchîn dal ca d’adsûr,
uramài t’an fê pu’ ‘l sgnûr!
Pr’angùta t’ê fat ‘na guèra
ch’anca te t’ê fnî sut tèra;
cme tú-c i’ òmi da ste mund,
un mèter circa t’ê prufùnd.
Inséma a la tu’ tùmba i’ èm piantâ
una gran crûš dai bràs a-spalancâ.
Che Noster Sgnûr a t’ pòsa perdunâr
cul che nujêtr’ i’ n’ prèma mia scurdâr!
CURIOSITÀ
IL SASSO PIZZIGOLO
Chi percorre la statale 63 da Castelnovo verso Felina si troverà, al termine del ponte dopo Magonfia, un macigno a punta, lasciato lì da coloro che hanno allargato la strada. Anzi, trovandosi sopra un precipizio dà un senso di protezione. Un tempo lì si staccava la deviazione per Toano e Villaminozzo, prima che fosse realizzato lo snodo attuale. La caratteristica che distingue questo masso dagli altri vicini, oltre alla forma, è la presenza su un suo fianco di un frassino nano. La mia età non è più tanto tenera, ma posso garantirvi che quel minifrassino c’era già quando, dopo le vacanze, prendevo la corriera per Reggio per ritornare in collegio. Le sue dimensione, in oltre sessanta anni, sono cresciute di poco. Ma deve avere lavorato se la pietra entro cui ha le radici si è staccata e una mano amica gli ha posto una specie di bretella per conservarlo a lungo al suo posto. Attorno al Sasso Pizzigolo si è sbrigliata la fantasia di molti, anche di scrittori (Ilde Rosati per tutti).
MEDICINA EMPIRICA
ABRASIONI
Succedeva spesso di prodursi dei graffi o delle abrasioni, specialmente nei piedi. La nostra farmacia privata disponeva di ben poche cose. Già era una fortuna se in casa c’era l’alcool, ma il più delle volte mancava anche quello. L’esperienza trasmessa oralmente dagli anziani trovava comunque qualche rimedio. L’igiene era un altro discorso, ma gli anticorpi allora funzionavano a pieno ritmo. Ebbene, un rimedio per favorire il rimarginare delle abrasioni consisteva nell’applicare alla ferita una foglia di rovo e lasciarvela appoggiata a lungo mediante fasciatura. C’era anche vi si serviva di una ragnatela vecchia. In definitiva anche la penicillina, inventata molto dopo, altro non è se non una muffa. Altrimenti si faceva leccare l’abrasione da un cane. Un po’ il rimedio inventato, un poco l’aria pulita e il sole facevano sì che la ferita si rimarginasse. Quanto poi alla cicatrice, allora non vi erano problemi di estetica.
GIOCHI
AL CUCMARTÈL
Si trattava soprattutto di un gioco di abilità individuale, visto che chiunque poteva cimentarsi (o semplicemente divertirsi) senza limiti di età, di fisico, di iniziativa. Tradotto in italiano era il tipico prodursi in capriole. E non c’è poi bisogno di tanta inventiva, visto che si tratta del classico fare le capriole. Ciò di cui non riesco a darmi (e a dare a voi) una spiegazione è l’origine della parola. Potrebbe sembrare, (alla lettera e in base ad un poco di onomatopeia), il colpo del martello, considerando che: prima si dà un colpo (Cú-c o cúch) in terra con la testa, poi ci si capovolge con le gambe come se si trattasse del manico di un martello. Ma questa è solo un’ipotesi.