Ieri pomeriggio si è tenuto in seminario a Reggio, su iniziativa della diocesi, e come accade ormai da diversi anni, l'incontro del vescovo - in questo caso il neoinsediato Massimo Camisasca - coi giornalisti reggiani, in occasione della festa del patrono S. Francesco di Sales. Incontro partecipato (preceduto da una riunione più ristretta coi direttori, a fini conoscitivi), durante il quale il presule ha espresso tutta la sua ammirazione per una professione - una vera e propria vocazione, che in tanti casi ha significato il sacrificio della vita - che "affascina" e in cui "mi sento coinvolto". Una professione "di potere", che può "fare e disfare delle vite". Spunti diversi, nel suo intervento d'apertura (che proponiamo sotto), che hanno stimolato un dibattito di idee. Diversi i giornalisti che hanno denunciato le "pressioni cui si viene sottoposti". Altri hanno sottolineato il tema della formazione in un tempo in cui, col dilagare dei "social network", pare che ciascuno possa essere, nel suo piccolo, egli stesso giornalista o comunque fonte di notizie che posta direttamente e che i media riprendono, forse talvolta senza le necessarie e fondamentali verifiche. Poi, ancora, vi è stato chi ha sottolineato il mai risolto (e forse irrisolubile) nodo della verità dei fatti raccontati in rapporto alle necessità di "vendere" per tenere in piedi l'azienda. Il vescovo ha tenuto a sottolineare l'influenza delle "ideologie". Buttando là anche un timore: che i giornali cartacei possano prima o poi sparire. Il giornalismo sul web? "Vigilanza" ed "educazione" gli atteggiamenti suggeriti per trovare un punto di equilibrio nel lavorare in un ambito tanto ampio quanto a prospettive e possibilità ma anche - perciò stesso, perchè non esiste libertà senza uso consapevole della stessa - delicato e pericoloso. Dalla parte del lettore. Se è vero che un bravo giornalista/scrittore è prima di tutto un buon - buono, non necessariamente accanito in senso quantitativo - lettore, ecco un consiglio che può essere prezioso e valido in generale: "Quando si legge diamo spazio alla mente, aprendoci, senza troppo curarci dell'orologio". Ha concluso il pomeriggio, per chi ha voluto prendervi parte, la celebrazione della S. Messa. (gdp)
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Cari amici,
vi ringrazio di avere accettato il mio invito. È questa per me la prima occasione di un incontro con i giornalisti della nostra città e della nostra provincia. Fra i tanti temi possibili della nostra conversazione ho preferito, questa volta, presentarmi, parlare di me e del mio rapporto con i giornali per fissare alcuni punti fermi. Non ho certo l’intenzione di insegnarvi che cosa sia il giornalismo né come si debba fare giornalismo. Sono un fruitore di giornali e, come tutti coloro che leggono, ho dei desideri. Questi desideri sono profondamente segnati dalla mia esperienza e dalla mia concezione dell’uomo, che ho imparato nella Chiesa. Non concepisco e non sento la mia visione delle cose come una chiusura. Amo la Chiesa perché essa mi spalanca al mondo. Amo la Chiesa perché essa mi riporta a Cristo che ha detto: sono venuto per servire e non per essere servito (cfr. Mt 20,28).Non posso parlare di giornalismo senza tener conto della mia esperienza personale, dalla mia visione degli uomini e del mondo.
Ho una profonda stima per il vostro lavoro, che è diventato sempre più importante e sempre più incisivo nella nostra società. Penso al film, ormai di molti anni fa, di Orson Welles: Quarto potere, che, accanto ai classici poteri legislativo, esecutivo e giudiziario dello stato, parlava del potere della stampa, della comunicazione sociale. Oggi questo potere si è approfondito, è diventato più penetrante attraverso la diffusione delle tecnologie.
Molte vite dipendono da voi. Potete, per usare una terminologia evangelica: aprire e chiudere. Una vita può essere esaltata, addirittura costruita nella sua notorietà, nella sua grandezza dai giornali. Allo stesso modo può essere abbassata e distrutta.
I giornalisti, in questo mondo della carta stampata e oggi della comunicazione via Internet, sono anch’essi parte di un sistema più grande di loro. Dipendono da direttori e questi a loro volta, con le redazioni, dipendono dai proprietari. Dipendono dalla pubblicità. Tutto questo mi fa capire quanto sia difficile l’arte del giornalismo, quanto sia difficile rimanere fedeli allo scopo ideale per cui uno intraprende questa carriera. Oggi la professione giornalistica si sta modificando profondamente. I blog e social network fanno potenzialmente di tutti noi dei giornalisti. Tutti possiamo essere fonte di notizie, o almeno possiamo pensare di esserlo. I social network hanno un forte peso di influenza sull’opinione pubblica.
È dunque finito il giornalismo? Per rispondere a queste domande vorrei presentarmi e parlare un po’ di me.
Andiamo lontano, a più di sessant’anni fa. Sono nato a Milano, ma a pochi giorni mi hanno portato in un paesino sulla costa lombarda del lago Maggiore. Era da poco finita guerra. Ero gemello, settimino, malaticcio. A tre anni e mezzo ho dovuto lasciare quel paese, la nostra casa non aveva un riscaldamento adeguato, per passare sei mesi dai nonni a Milano dove la casa aveva termosifoni e acqua calda. Ero malato. Che fare a letto? Mia nonna era cieca e così il nonno, in pensione, mi insegnò a poco a poco le lettere dell’alfabeto, quelle a stampa. Cominciai così a leggere alla nonna prima i titoli e poi, via via, gli articoli del Corriere della sera. Fu quello il mio primo incontro con il giornalismo. E attraverso gli articoli del Corriere della sera, negli anni delle elementari e delle medie, imparai a viaggiare restando a casa. Gli inviati del Corriere, (ricordo i più grandi, o quelli che, per me furono più importanti: Indro Montanelli, Virgilio Lilli, Egisto Corradi) mi portavano in mondi lontani o mi facevano conoscere realtà di cui non avevo mai sentito parlare. Erano inviati di guerra, erano corrispondenti, erano profondi e capaci narratori della vita quotidiana. Per non parlare poi di Dino Buzzati, di Montale: poeti e scrittori che al Corriere della sera immettevano la vena della loro poesia dentro la cronaca.
Facciamo un passo avanti: in terza elementare ho incontrato una maestra che mi ha appassionato alla lettura e allo scrivere. Mi ha fatto scoprire la magia della parola, delle parole. Conservo ancora il diario scritto durante quell’anno di scuola. Da allora in poi non ho mai perso l’abitudine di scrivere e di leggere. Ho letto e ho scritto tantissimo. Si può dire che il rapporto con la parola e con le parole, che poi avrebbe assunto un’importanza particolare nella vocazione sacerdotale, è stato il pane quotidiano della mia vita.
Studente di filosofia, mi sono interessato all’origine delle parole e al dibattito fra coloro che sostengono che esse siano frutto di pura convenzione e coloro che sostengono che all’origine delle parole, nelle loro radici, stia un rapporto particolare con la realtà di cui sono quasi lo specchio. Di tutto questo ho parlato più ampiamente nel libro Dentro le cose, verso il mistero, che è come un’autobiografia del mio spirito.
Perché mi interessano le parole? Non sono mai stato un filologo. Le parole non mi interessano in se stesse, anche se riconosco il fascino della filologia. Esse però mi affascinano perché mi parlano di uomini, di donne, di fatti, di storie. La parola è come una strada verso i fatti. Io credo profondamente che l’uomo possa conoscere i fatti. Certamente nella sua interezza ogni avvenimento rimane irraggiungibile. Ma qualcosa degli avvenimenti possiamo conoscere. Qualcosa di autentico, di vero. Non voglio escludere con questo il dibattito delle interpretazioni, ma dico che esse sono interessanti nella misura in cui ci permettono un avvicinamento progressivo ai fatti stessi. È questa la concezione che io ho della storia. Rimando anche per questo al mio libro (Dentro le cose…, ndr). La storia, assieme alla letteratura, è stata l’altra grande passione della mia vita.
Mi sembra in questo modo di aver rivelato i due pilastri fondamentali del giornalismo: le parole e i fatti. Quando penso a un giornalista penso a un artista della parola che sa trasmettere attraverso di essa l’accaduto. Non ho nessuna visione romantica di tutto ciò. So benissimo quanto sia difficile scrivere, quanto sia difficile vedere, vedere in profondità. So quanto sia difficile andare a vedere. Quanti giornalisti sono morti sui campi di guerra, uccisi dal potere. Quanto dobbiamo perciò per la nostra conoscenza della realtà al sacrificio di tanti vostri colleghi!
Vorrei vedere con voi ora ciò che mette in discussione, o per lo meno pone degli interrogativi, a questa definizione del giornalismo come “fatti raccontati dalle parole”.
Innanzitutto dobbiamo dare spazio alle immagini. Il nostro è indubbiamente un tempo dell’immagine: la fotografia, il cinema, la televisione e oggi soprattutto Internet permettono di vedere in presa diretta ciò che accade in regioni lontanissime. Addirittura in spazi dell’universo che mai avremmo pensato di poter raggiungere col nostro occhio, seppure elettronico. Siamo come annegati in una quantità di immagini e in una quantità di parole che ci impediscono di cogliere il nesso fra la nostra persona e la realtà. Quello che dovrebbe essere un aiuto diventa, molte volte, un ostacolo.
Il giornalismo non ha dunque oggi meno spazio di un tempo. L’inviato che va sul posto, che racconta, che scrive, che trasmette per immagini, proprio in questa overdose di parole e di colori ha una funzione ancora più preziosa di un tempo. Il suo compito è ancora più delicato. Dal punto di vista morale deve scegliere cosa farci vedere, deve orientarci. Corre il rischio di sostituirsi a noi. Non c’è più tempo per una verifica. Se le parole sono a rischio di essere cancellate dalle immagini, i fatti sono messi in discussione delle opinioni e oggi soprattutto dalla virtualità.
Husserl all’inizio del secolo passato diceva: «dobbiamo tornare alle cose» (cfr. E. Husserl, Ricerche logiche, I, Net, Milano 2005, p. 272). Io credo che un compito importante del giornalismo sia quello di aiutarci a tornare alle cose. Chiamare le cose con il proprio nome, raccontare ciò che veramente accade. Aiutare il formarsi delle opinioni, senza che qualcuno si debba sostituire a questo lavoro di formazione. La forza delle ideologie ha distrutto il desiderio stesso nell’uomo di andare a vedere.
Un altro rischio, questa volta mortale, corre il giornalismo ed è descritto dal rapporto tra verità e potere. Il potere finanziario, il potere dei grandi centri ideologici mondiali – che non sono venuti meno con la fine della guerra fredda, ma si sono trasformati, sganciandosi sempre più dagli stati – di fatto sembrano determinare una morsa in cui non c’è più posto per la verità. Viene contrabbandato come verità ciò che si vuole diventi legge, diventi opinione corrente, della maggioranza.
Pongo questo soltanto come interrogativo per noi: esiste una natura dell’uomo? Esistono il bene e il male? Esiste nell’uomo una coscienza che può dire ciò che è bene e ciò che è male? Esiste nell’uomo una capacità di discernere e di giudicare? È un uomo vero quello che rinuncia alla verità e la calpesta?
Come vedete la vostra professione si trova al centro delle questioni più importanti della vita di oggi. È una professione difficile, ma affascinante. Io credo che i giornalisti che resteranno, saranno quelli che avranno servito l’uomo, quelli che avranno accettato di raccontare con le loro parole i fatti andandoli a vedere, portando con onestà ai lettori quello che si comprende dell’accaduto, non contrabbandandolo, non inquinando la verità con le idee precostituite dei potenti. Da questo punto di vista, quella del giornalista è una vera e propria missione.
In quanto servitori della verità spero di avervi come collaboratori nel mio servizio alla vita degli uomini di questa terra.
(Mons. Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla)