NATALE DA POVERI QUELLO DEL ‘42
La scena? Non si tratta di un presepio vivente. Era una situazione reale. Rappresenta una normale famiglia di quei tempi. Se vi è possibile interrogate chi allora c’era ed ha vissuto quei momenti e ne avrete conferma. Diversamente dovrete accontentarvi della mia memoria che, di tanto in tanto, inciampa e zoppica.
Nonno Lepido: magro, secco, costantemente con un mozzicone di tuscān spento appeso alle labbra. Lo accendeva dopo pranzo o dopo cena per fare alcune tirate. A volte, durante la bella stagione, si metteva a cavalcioni sulla sedia vicino alla finestra e osservava a lungo la campagna. Il sigaro lo teneva acceso, ma con la brace in bocca (non ho mai capito perché). Zoppicava nonno Lepido: un ricordo (diceva) portato a casa dal fronte, dal Carso. Ma era fiero del suo cappello piumato da bersagliere, immortalato nel ritratto esposto in sala.
La nonna: trentacinque chili vestita, diafana come le candele che lei stessa confezionava in tempo di guerra utilizzando gli scarti dei ceri dell’oratorio e le canne palustri come stampo. E quelle mani! Quelle mani deformate dal male, che neppure il Caravaggio avrebbe potuto riprodurre realisticamente. I suoi tragitti? Dalla camera alla cucina, e, raramente, una sortita ad asciugare un pochino le ossa al sole. Tribolava a scendere quei ventidue gradini che la separavano dalla strada, ripidi, alti e diseguali, rimediati alla meglio per dare accesso alla porzione di casa toccata a mio nonno. Sempre chiusa in cucina a escogitare cosa dare da mangiare ai suoi uomini (e donne) occupati nei campi, sempre occupata al di sopra delle poche forze superstiti. Nonna aveva un carattere di ferro nonostante la gracilità apparente. Era lei che sosteneva gli altri. Salvo poi trascorrere gran parte della notte a recitare rosari per impetrare la salvezza e il rientro a casa dei figli.
Mia mamma: piccola e gracile, tutta nervi, doverosamente sottomessa per necessità, in attesa di tempi migliori per emanciparsi anche a difesa dei suoi cuccioli...
La zia: giovane, corteggiata, robusta come un uomo, fresca come una rosa antica (aveva solo diciassette anni). Forse aveva anche lei qualche ambizione, qualche sogno nel cassetto, ma con l’orizzonte precluso. Dove mai potevi andare? Meglio la sicurezza della cuccia, il calore della famiglia.
E c’eravamo noi, la marmaglia, bocche in più da sfamare ma anche germogli del futuro. Ma i grandi non ce lo facevano pesare. Dopo tutto potevamo assurgere al ruolo di piccoli coadiutori o di trastulli. Nel momento storico di cui parlo eravamo ancora in tre: io, che da poco andavo a scuola, mia sorella di appena tre anni, e un fratellino fresco fresco, ancora in fasce.
La nostra famiglia, per i paesani, apparteneva alla categoria dei benestanti. Per modo di dire. Nella realtà in paese c’era chi se la passava meglio di noi. Ma il giudizio era quello, e ce lo portavamo dietro da un passato lontano, da quando gli avi possedevano molti terreni.
Forse vi chiederete che strana famiglia fosse la nostra, senza uomini. Gli uomini c’erano, e anche validi, ed erano ben quattro, di età tra i ventuno e i ventotto anni. Ma erano stati chiamati a servire la patria. Mio padre, già richiamato (vale a dire al secondo turno di servizio militare), era di stanza a Piacenza. Uno zio era in Albania, e di lui raramente avevamo notizie. Il terzo si trovava a Bardonecchia, sul confine francese. Lì lo sorprenderà l’armistizio dell’otto settembre 1943, e da lì, in una settimana di marcia, riuscirà a tornare a casa a piedi. Il più giovane era in Jugoslavia, e anche di lui avevamo poche notizie. Ricordo lo strazio quando anche questo dovette partire. Lo salutai prima di andare a scuola, ma il magone prese tutti e due. Normalmente non imprecavo. Neanche per darmi l’aria da grande. Ma quel giorno riempii il tragitto da casa alla scuola, circa due chilometri, con una sfilza di accidenti all’indirizzo del capo del governo e dei suoi accoliti che, se avessero attaccato, avrei liberato l’Italia da solo.
Ed ecco Dicembre con la neve e la spalata, col vergiàs e la galabrúša. E c’erano le feste tanto attese. L’inverno del ’42, come tanti altri di quel periodo, non guardava in faccia nessuno. Freddo e neve in abbondanza, mitigato, di tanto in tanto, da giornate luminose, piene di sole, quel sole che però spariva già verso le sedici. La facciata della nostra casa era rivolta a sud, e noi ci godevamo il sole lì davanti con la parete che rifletteva il calore, gli occhi socchiusi per la troppa luce. I coppi della torre lasciavano precipitare goccioloni pesanti che producevano, via via, piccoli crateri nella neve o sulla strada, e una musica particolare, come il pizzicato di un’arpa. Quella musica continuava anche dopo il tramonto. Ma al mattino seguente al posto di quei goccioloni vi erano piccole stalattiti trasparenti pronte a staccarsi e precipitare al suolo quando il sole le intiepidiva appena.
Il nostro Natale era caratterizzato da giorni di attesa. Non tanto del Redentore. A curare quell’idea provvedeva Don Mario con la sua bella voce tenorile, leggermente nasale, invitandoci alla novena, tempo e strada permettendo. L’attesa era nell’aria. Si sperava in qualcosa che potesse cambiare le sorti di ognuno di noi, cosa che, puntualmente, non si avverava. Quell’anno invece l’atmosfera non era da festa, come se la famiglia fosse mutilata.
La vigilia di Natale abitualmente trascorreva in preparativi di ogni genere, e ci provarono anche quell’anno i miei nonni. Tutti avevano qualche incombenza precisa. A noi ragazzi toccava provvedere scorte di legna per il camino e per il forno, e secchi d’acqua piovana che andava bene come quella della fontana ed era più comoda. Il nonno accendeva il forno e seguiva la cottura, prima quella del pane poi quella di qualche ciambellone (Brasadèla). Mamma e zia curavano la pulizia della casa e davano una mano a nonna per preparare la cena e il pranzo di Natale.
A cena si consumava la minestra descûnsa, cioè condita col burro e non col lardo. Era vigilia. Per secondo dominava il classico baccalà. Però c’erano le bietole rosse cotte sotto le braci poi tagliate a fette sottili e condite, mi pare, con una lacrima di olio buono. Non ricordo che si consumassero in altre occasioni.
Il bello arrivava dopo cena. Nonna iniziava una serie di preghiere interminabili. Chi le chiamava Al mil crûši, chi Mil patèr. Tradotto in pratica bisognava fare arrivare mezzanotte pregando. La devozione consisteva nell’intercalare ad ogni Pater, Ave, Gloria, un segno di croce. Ciò avrebbe permesso di lucrare tante indulgenze per sé e per le anime del Purgatorio. Intanto che pregava nonna seguiva la cottura dell’arrosto o friggeva i tortelli di castagna. Di questi ne produceva una quantità considerevole: dovevano servire per i familiari fino all’Epifania, ma era anche bello offrirli ad eventuali ospiti in visita. Appena cotti però la nonna li occultava. Non sapremo mai dove. Raramente il nostro intuito scopriva il nascondiglio.
Verso le 23 un gruppetto di giovanotti del paese passò a prendere la zia per andare alla messa di mezzanotte. Era l’unica di casa che se lo poteva permettere. Mia mamma sarebbe andata a quella del mattino. Al nonno non interessava più di tanto e la nonna era impossibilitata. Il gruppetto si era dotato di bastoni d’appoggio e lucerne a petrolio.
A Natale, quasi a malincuore, le donne avevano apparecchiato in sala. In cucina non ci si stava tutti attorno al tulêr che copriva la madia. Andare in sala, in altre circostanze, era già segno di festa. Nonna aveva provato a dare un tono di solennità al pranzo natalizio, con le farfalle in brodo di gallina, ma non i cappelletti.
Quelli li avremmo gustati solo dopo la liberazione, a Settembre del ’45, dopo che tutti gli uomini erano, fortunatamente, rientrati a casa. Quel giorno c’era anche il secondo: il lesso della gallina usata per il brodo e l’arrosto. E per dolce i tortellini di castagna preparati la sera prima.
Terminato il pranzo nonno si girò verso la finestra. Tribolò un pochino per accendere il nuovo mezzo sigaro, appoggiò i gomiti alla spalliera della sedia su cui si era messo a cavalcioni, e cominciò a scrutare lontano, sulla strada per Maiola, poi su quella dei poggetti, verso Pozza. Confesserà, a guerra finita, che sperava sempre di vedere comparire uno dei suoi figli.
Cronaca di tristezza, anche se eri bambino…. rimangono scritte indelebili come fossero state scritte con un chiodo e fanno male anche da grandi.
(Ilde Rosati)
Complimenti a Savino per il suo struggente racconto. Oltre alle tristezze della guerra, vedo in esso un finale aperto alla speranza, con il ritorno degli uomini dal fronte; quasi che le incessanti preghiere delle donne di casa, avessero sortito il miracolo…
(Ivano Pioppi)
E’ riuscito a rievocare ricordi lontani dei racconti delle mie nonne e di radici padane condivise.
(Maria Grazia Ferrari)