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Racconti d’Appennino 11 / La conserva

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Primissima alba. Località Costaborga. L'azione si svolge sull'aia di una casa dove una famiglia si ritrova sul finire della notte.  Nonostante il buio, si muovono rilassati e in silenzio, piano, pianissimo per non svegliare i vicini del borgo che ancora stanno dormendo. L'alba é rovente, le finestre spalancate. Torpore del primo mattino. La famiglia é numerosa e oggi ci sono tutti. Nessuno escluso: nonni, figli, nuore, generi e nipoti e il sole che preme per spuntare da dietro la collina. Bisogna fare presto, all'arrivo del caldo tutto dovrà essere finito. Oggi "é il giorno", il giorno in cui si prepara la cunsêrva ed pomdôr. Ogni cosa é stata pensata e organizzata per tempo e adesso, con flemma precisa, ognuno sa cosa deve fare come in un set cinematografico. Ciak si gira... Rimango in disparte e osservo, rapita, lo svolgersi della "funzione" che é sacra, che é antica. Presto mi é chiaro chi firma l'azione: la nonna , sapienza da razdoura tramandata dalla madre e prima ancora dalla nonna e dalla nonna della nonna fino a un tempo difficile da risalire. Cura ogni minimo dettaglio e osserva tutto con gli occhi degli altri fissi su di lei in cerca di consenso.

Un po' regista, un po' direttore d'orchestra. Ogni suo gesto ed espressione indicano un comando e il lavoro collaudato del gruppo serve a decifrarlo senza sprechi di parole. Non sbagliano un colpo e la scena é intrigante, peccato non avere con me la telecamera. Si lavora a testa bassa ma il clima é sereno. Due giorni prima, un tizio col trattore aveva portato, dalla bassa, un rimorchio carico di pomodori rossi, maturi e zuccherini di sole. Una montagna di pomodori. Oggi sono tutti sull'aia disposti in cassette, lavati, sbollentati e in ordine come fossero appena stati tirati fuori dai cassetti del comó. Gli uomini hanno acceso i fugòun, i fuoconi, grandi fornelli in lamiera simili a bidoni, su cui poggiano tegami di cottura. Le donne girano con fatica la manovella di grandi macinini, pulendosi di tanto in tanto le mani sui bianchi grembiuli annodati ai fianchi. Mani rosse, polpa succosa che cade nel secchio e bucce secche che cadono a terra. Siamo in Emilia, i viveri non possono mancare e, malgrado l'ora, gira di mano in mano un bottiglione di vino leggero e qualche panino col salame per colazione.

Colazione contadina, da gente che brucia perché lavora e vive all'aria aperta. I piú giovani si danno da fare, vanno dentro e fuori dal garage portando sull'aia bottiglie sterilizzate, che dispongono in fila ordinata per esser riempite. Di fianco un imbuto d'alluminio acciaccato, vecchio e usato giá nel secolo scorso.  Si compie il rito, la tradizione é viva, sentita, partecipata. E questo lo trovo bello e sano. Penso al piacere di aprire queste bottiglie il prossimo inverno, liberando il sapore dell'estate altrimenti archiviata e dimenticata. La razdoura gira con un cucchiaione di legno tra i paioli fumanti, e controlla la cottura della salsa minuto per minuto. Tra poco é pronta da imbottigliare, ma mancano ancora le foglie di basilico di un mazzo carnoso che passa avanti e indietro proprio sotto al mio naso. Annuso e riannuso, neanche fossi Gandhi, quell'odorino leggero che via via sta riempiendo il cortile, la strada e le stanze ancora pigre e assonnate.

Pân crèss, che Dio at bendéssa, creèss adèss. Crèss incô, crèss é dmân, crèss per tôt l'an.

(Paola Savi)

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