La zuppa nel latte era la colazione. Non c’era altro: latte appena munto, rigorosamente bollito, pane e zucchero, caffé d’orzo che a fatica coloriva la mistura. Una scodellona: tanto pane da sprofondarci il cucchiaio così da farlo stare dritto, e dovevi arrivarci in fondo. Perché poi non c’era altro. Eppure, a volte, nel latte ci si inzuppava la polenta del giorno prima, a volte la carsenta fritta avanzata, a volte – raramente – qualche rimasuglio di brasadella dolce. Solo più tardi arrivarono i biscotti “Famiglia”, grossi come piccoli panini, che ne bastavano tre per riempire la tazza.
Non mi piaceva la zuppa nel latte, era una tortura e una sera feci addirittura sciopero, rifiutandomi di mangiarla. Già, perché la scodellona me la porgevano, unica alternativa, anche a cena. Mia nonna Eva non s’arrabbiò, quando m’impuntai nel respingere quel ripetitivo menù; semplicemente, mise in serbo la scodella con la “mia” zuppa nel tricantùn di sala (non avevamo il frigorifero) e me la ripresentò, fredda, a colazione. “Chi non mangia ha già mangiato”, dettava legge mia nonna Eva, e in casa nessuno si è mai troppo impensierito per l’inappetenza di un bambino o per il fatto che qualcuno saltasse un pasto, mentre - questo sì - ci si arrabbiava parecchio se si sciupava il cibo. E quando in terza elementare studiai Sparta e Atene, mi resi conto di essere cresciuta davvero in modo… spartano e parteggiai in seguito per i perdenti cittadini di Sparta, oltre che per i “perdenti” in generale.
Comunque, dopo aver passato la notte con i crampi allo stomaco, assolutamente ravveduta e redenta nei riguardi della mia scelta, ci misi un attimo a dimenticare intenzioni e pensieri rivoluzionari e divorai la zuppa, quando, molliccia e un po’ viscida, la ritrovai sul tavolo al mattino. Fu quello il mio unico sciopero della fame; avevo forse otto anni e scoprii soltanto da adolescente che quell’atto si poteva definire “sciopero” e che ero stata, a mio modo, una bambina sovversiva. Non mi piaceva la zuppa, perciò, non appena in autunno si cominciavano a bollire le castagne secche, esultavo per la colazione, dato che nel latte potevo buttarci loro: le bascotle. Profumate, zuccherine, con l’acre che “legava la bocca” dei residui di cuticola marrone che s’infilavano tra i denti, le bascotle (castagne secche lessate nell’acqua, appunto) erano il miglior inizio di giornata per il mio stomaco e per il mio palato.
Ma le castagne significavano anche polenta dolce, condita con la pancetta fritta, e i sughi, quella meravigliosa emulsione di farina di castagne e mosto d’uva che mia nonna Bruna cucinava alla perfezione, senza un grumo, e poi versava nei piatti perché raffreddasse, così da ricavarne belle fette. Sopra, cucchiaiate generose di ricotta ancora calda o di panna scremata dal latte erano il miglior accompagnamento. Una teoria di piatti colmi di crema viola, sprigionanti buon odore di vino, distesi sul tavolo di cucina, a Predolo, mentre mio nonno rientrava da caccia con qualche lepre o fagiano - e cani al seguito - e lei brontolava perché non ne poteva più di spennare e spellare e far frollare selvaggina.
Che poi mica ce la cucinavamo tutta, la cacciagione, no: c’era da regalarne (come le uova, come i conigli) un po’ al dottore, un po’ al veterinario, un po’ alla cugina Anna di Reggio. Ha sempre fatto così, mia nonna Bruna: distribuiva “i pani e i pesci” e riusciva, miracolosamente, a moltiplicare il poco che aveva dividendolo. Le castagne le sgranocchiavamo anche crude mentre s’andava a scuola, passando per i castagneti dei Valeti, sulla carraia che attraversava la costa dei Monti Ferrari, proprio in faccia a Beleo e Leguigno. Tutto un avvicendamento di veri e propri frutteti, con le piante di castagno e marroni regolarmente distanziate e i percorsi sinuosi dei cataletti/sentierini a disegnare i declivi; solchi dove le castagne si raccoglievano cadendo e rotolando in pendenza. Crodavano, le castagne. Un verbo dialettale che, per me, significava il suono tipico, smorzato, ma anche musicale - quasi una pioggia lenta, una calma grandinata - delle castagne picchiettanti sul terreno foderato di muschi, brugo, foglie secche e ricci. Sotto gli alberi, non un filo d’erba, non un rovo, non una felce. Solo il primo fogliame caduto e i ricci, che bisognava scansare attentamente durante la raccolta per non pungersi le dita, non prima, però, di averli giustamente aperti premendoli sotto il tallone. Li schiacciavi e si schiudevano, rivelando il velluto dell’interno e la lucentezza bronzea dei tondi semi o, purtroppo, la buccia vuota, piegata come un piccolo cappuccio nero, dei cuplùn. La pulizia dei castagneti, anche di quelli più ripidi e scomodi, era imprescindibile. Gli strumenti erano quelli consueti di altre attività contadine: falce, quella con cui si tagliava l’erba durante la fienagione, ‘msura (falce messoria), pennato (anzi, podaglio, che ha la lama anche dietro) forcone, rastrello e zappa. Tanto lavoro di braccia, tanto tempo; le famiglie intere a ripulire i castagneti. Si sterpava, cioè si tagliava il sottobosco cresciuto dalla fine dell’inverno precedente, si accumulavano gli sterpi, li si bruciava, si ripristinavano i sentierini in modo che l’intera superficie del terreno fosse tanto monda da permettere la raccolta .Perché non si poteva tollerare di perderne una di castagne. Mentre i miei nonni paterni possedevano, tra Soraggio e Gombio, molti castagneti di cui si prendevano cura - sia per la pulizia sia per la raccolta - i miei nonni materni pulivano e raccoglievano nel castagneto di “Nirigh”, alla Piagna.
Una specie di giardino.
Enormi castagni, sicuramente centenari, in uno spazio semipianeggiante attraversato da due carraie, che poi erano antiche strade; brugo dai fiorellini violacei a tappezzare il terreno, felci e giovani pioppi ai confini di un campo coltivato, fragoline di bosco ormai senza frutti nelle radure più soleggiate. Nei tronchi dei castagni, i nidi degli scoiattoli che mio nonno Ambrogio, da esperto cacciatore, mi insegnava a riconoscere e, alla base degli alberi, ben nascoste in diversi buchi, le loro riserve di cibo. Poi i fori rotondi del picchio verde e del picchio muratore, ma rotondi rotondi, quasi li avessero progettati con il compasso. Un favo di api selvatiche gocciolante miele in una larga fenditura d’un vecchio fusto fu, un giorno, una golosa scoperta e fu tutta un’avventura vedere mio nonno andare a raccoglierlo scacciando le povere bestiole col fumo. Oppure prese su anche lo sciame delle api per “addomesticarlo”? Non ricordo, ma c’era chi possedeva delle rudimentali arnie, a Predolo, e la smielatura era un piacere per noi bambini, che passavamo il tempo a succhiare i pezzi delle cellette già spremuti.
L’estrazione del miele dai telaini veniva compiuta appunto con la spremitura dei favi e successivo filtraggio del prezioso liquido. Questo comportava, purtroppo, la distruzione dei favi e significava portare via tempo ed energia ai poveri insetti per la successiva ricostruzione. Ma era così buono, il miele fresco! Tanto da farci avvicinare troppo alle arnie, durante la smielatura (anche se gli adulti ci strillavano di stare lontani) e da essere assaliti, noi bambini, dalle api spaventate e rabbiose. Mi ritrovai, in una di quelle occasioni, con gli occhi completamente chiusi per il gonfiore delle punture e con mia nonna Jusfina che mi diceva di tenerci sopra la lama di un coltello per lenire il bruciore. Il castagneto di “Nirigh” diventava, a quell’epoca, assoluto luogo di spasso per me e per mio zio Giuseppe (mio coetaneo) mentre nonno, nonna e bisnonna sterpavano. La cosa più divertente era il fuoco. Sterpi e foglie ammonticchiati venivano dati alle fiamme con riguardo, ma davvero con tanta tanta attenzione, perché il fuoco non “scappasse”. E noi lì intorno a saltellare, ballare, correre. Intorno al fuoco. Una sorta d’incantesimo.
L’odore penetrante, particolare, dovuto al tannino delle foglie e delle ramaglie di castagno - ma anche agli arbusti ed erbe aromatiche del sottobosco - il calore della vampa, la tinta arancio traslucido delle fiamme che s’alzavano erano ipnotici: non riuscivi a staccarti. Poi, però, io ebbi un’idea… Raccolsi un po’ di foglie di castagno, le arrotolai a mo’ di sigaro, le avvicinai alla fiamma e provai a fumarle, ovviamente obbligando mio zio (vittima abituale dei miei esperimenti) a provare anche lui.
Atroce!
Un sapore d’un amaro assurdo e tanta tosse; tuttavia gli adulti, per nostra fortuna, non se ne accorsero, troppo stanchi e troppo impegnati nel loro lavoro. Le castagne cadevano, dunque, su un terreno pulito, dove solo le foglie e i ricci, sotto i quali si andava accuratamente a cercare, potevano sottrarle alla vista. Che la raccolta non fosse per niente piacevole, piegati per ore, con il gomito sinistro appoggiato sul ginocchio e la mano destra a scansare ricci e a raccattare senza tregua, fino a riempire il cavagn di vimini per poi svuotarlo nella “sacchella”, forse oggi è difficile da spiegare.
Ancor più difficile accettare, per la mentalità odierna, che fossero pure i bambini e i vecchi a sottostare a tanta fatica per ore e ore. Succedeva di ritrovarsi, dopo un po’, con le dita della mano destra tutte sforacchiate dalle spine dei ricci, gonfie e dolenti - soprattutto l’indice e il pollice - e con la schiena che era un stilettata continua di dolore. Quando non capitava di scivolare e di atterrare, simpaticamente, su un tappeto di ricci pungenti. Eppure, la mia bisnonna Jusfina portò a termine la sua ultima raccolta a 86 anni, cinque mesi prima di morire. Ce l’ho davanti: chinata, il grande scialle nero incrociato sul petto, il grembiule legato a formare una specie di marsupio, comodo contenitore per le castagne, le maniche della veste rimboccate, il fazzoletto stretto sulla nuca a coprirle i capelli, le sue grosse mani nodose – mani da uomo, mani di chi aveva tanto lavorato – a selezionare attentamente i frutti, scartando i cuplùn, prima di metterle nel grembiule.
Perché le castagne, come i fagioli, si “leggevano”.
Fu proprio mia nonna Jusfina a spiegarmi che “leggere” voleva dire “scegliere”: pur senza averne la consapevolezza, aveva proprio ragione. Cicerone, per esempio, adotta l’etimologia di lex da legere, perché si riferisce al verbo legere nel significato di “scegliere”. Aveva di queste intuizioni, mia nonna Jusfina, oppure inventava sue spiegazioni con “licenza poetica”; come quando mi disse che il mondo si chiamava mondo perché, in realtà, era da mondare, o che il parto, l’atto della nascita, poteva indicare, purtroppo (lo diceva la parola), una partenza: quella della mamma come quella del bambino, o di tutti e due.
La pratica del silenzio, delle lunghe ore soli nei boschi e nei campi, affinava, nei contadini, l’attitudine alla riflessione, l’abitudine a pensare. Istruzione, cultura e saggezza sono tre cose diverse; mia nonna non era istruita, ma era immensamente saggia e possedeva a fondo la cultura dei campi, quella che noi abbiamo perduto. Mi piaceva stare con lei. La vedo ancora: chinata, in quell’ultimo autunno della sua vita, si drizzava solo per svuotare il contenuto del grembiule nella sacchella di tela bianca fino a riempirla; poi la legava chiudendola per bene, la sollevava sulle spalle e se la portava fino a Predolo, a casa. Tutto da sola, per giorni e giorni, finché nel castagneto di “Nirigh” non restò più una castagna; soprattutto, non una masangaia: quelle grosse, lucide che i pianzani, poco esperti, scambiavano per marroni.
Quell’anno io mi sposai e lei, dopo pochi mesi, morì. Un dolore sconfinato; mi ero sentita amata e protetta da lei per vent’anni e avrei voluto vederla trisnonna, farle questo regalo. Non conobbe mai mio figlio, ma, quando seppe che ero incinta, mi disse che avrei avuto un maschio, e che sarebbe stato buono: “Trattalo bene, non farlo soffrire mai”, fu il suo caldo consiglio. Durante la mia infanzia, le castagne si vendevano quasi tutte, tranne una parte dei marroni e le più grosse masangaie, che si tenevano per farci le mondine e i balöss durante l’inverno. In assenza di moderni freezer, per conservare marroni e castagne si ricorreva ad una sorta di bagno/novena: i frutti (che poi sono semi) venivano posti in un mastello pieno d’acqua a temperatura ambiente. Il primo giorno si rimestavano le castagne per far emergere ed eliminare quelle bacate, poi le si lasciava lì per nove giorni. I frutti diventavano leggermente aciduli; forse germogliavano, fermentavano e si formava un po’ d’alcool? Sta di fatto che, passati i nove giorni, li si sciacquava e li si poneva ad asciugare su piani di legno. Una volta asciutti, li si conservava in sacchetti di juta, dove si mantenevano freschi e intatti per lungo tempo.
Pronti per finire arrostiti sul piano della stufa!
Le castagne secche, invece, le compravamo, perché nessuno, a Soraggio, le seccava più nei metati. Ce n’erano diverse, in paese, di queste casette/essicatoi talmente annerite, all’interno, da sembrare asfaltate, ma erano ormai in disuso e trasformate in ricovero attrezzi. Soltanto Peppo e Dirce avevano ancora un metato in funzione nel loro castagneto, vicino alla fontana della Pianella; tutti chiamavano il luogo “la capanna di Peppo”, perché una capanna c’era davvero, dove Peppo stipava il fieno del suo unico campo in mezzo ai castagni, e dove sostavano a dormire, in svariati periodi dell’anno e per diversi giorni, strambi personaggi dal lungo tabarro nero e dalle barbe bianche; girovaghi, forse ombrellai, forse, semplicemente, barboni.
Una volta, una della tante in cui avevo deciso di scappare di casa, anch’io mi nascosi nella capanna di Peppo, allestendomi, nel fieno, un comodo nido; ma erano le quattro o le cinque del pomeriggio, troppo presto per dormire e, dopo essere stata un po’ lì a sopportare il fieno che trapassava i vestiti e punzecchiava ovunque, mi venne fame, tornai sui miei passi e decisi che da casa sarei scappata in un altro momento. Mio padre racconta che Peppo, durante la guerra, poiché erano state requisite tutte le armi e non c’erano cacciatori in giro, ebbe la luminosa idea di portare tutti i suoi conigli là intorno al metato e di liberarli a terra in un recinto. Risultato: i conigli scavarono innumerevoli tane e si dileguarono nei boschi. Peppo, allora, da creativo qual era, cominciò ad elaborare un progetto secondo cui se avesse posto degli specchi intorno al metato i conigli, attirati dalle loro immagini riflesse, sarebbero tornati e sarebbero rimasti lì (progetto che poi Peppo, forse per il costo, lasciò prudentemente cadere).
L’altro metato funzionante era alla Bocca, ce l’aveva Pedrìn; Pedrìn da la Boca, appunto, il nonno della mia bellissima, biondissima amica Luisa. Ci entrai una sola volta con mia nonna Jusfina. Arrivammo lì e ricordo un vapore cotonoso che usciva dal tetto, tra i coppi, e saliva lento, sparpagliando un aroma piacevole nell’aria. Il metato somigliava al Ventasso col suo cappello di nuvole; sembrava che stesse lentamente bruciando. Invece no.Dentro, a circa due metri dal suolo, le castagne s’asciugavano adagio distese su una grata di travicelli di legno, i canìc; sotto, grossi ceppi di castagno bruciavano pigramente.
Durava un mese, l’essicazione, e credo che dovessero anche rivoltarle, le castagne, perché seccassero del tutto; alcune, però, rimanevano mollicce (al muian), così i bambini si mettevano a cercarle, mentre gli adulti, dopo averle liberate dalla buccia sbatacchiandole in un sacco su una grossa pietra, le passavano nella vasura. Era una gioia poterle mangiare subito senza cuocerle! Pedrìn da la Boca era rimasto l’ultimo a fare questo pesantissimo lavoro con castagne e metato.
Pedrìn, piccolo, silenzioso poeta capace d’improvvisare rime, era anche un grande fungaiolo.
Uno dei primi a partire all’alba, uno di quelli che mai nessuno è riuscito a pedinare quando s’avventurava tra gli alberi della Piagna. Spariva e tornava carico di funghi e faceva arrabbiare quelli di Predolo che volevano a tutti i costi il primato di migliori raccoglitori. Pure mia nonna Jusfina dei boschi e dei castagneti conosceva ogni angolo, ogni albero, ogni sentiero. E ogni fungaia. Le vene, quei luoghi misteriosi in cui si aprivano famiglie intere di bei porcini: le cuselle. Che poi, cosa importa se i porcini che si raccoglievano erano, in realtà, di almeno quattro specie diverse? Tutte cuselle, e basta. Perché è femminile, in dialetto, il nome del fungo porcino: la cusella; il sostantivo boleto veniva invece principalmente usato, nei nostri paesi, non tanto per il porcino, quanto per definire l’amanita buona:“al bulée ross”.
Mia nonna Jusfina le conosceva tutte le vene. Non partiva mai con l’intenzione di girovagare per ore; sicura e svelta, si dirigeva subito verso quei magici cerchi delle streghe e, ben attenta, come tutti, che nessuno la seguisse per carpirle il segreto, riempiva il grembiule o il cavagn o la borsa di stoffa nera - con due anelli per manico - di profumato bottino. Quando la chiacchiera che “venivano i funghi” cominciava a diffondersi per i paesi, questi si svuotavano e i boschi diventavano più affollati della piazza del mercato il lunedì a Castelnovo. Partiva Pedrìn da la Boca, partiva Peppo, partiva Ennio Croci - di Soraggio - quando ancora era buio, che non ho mai capito come facessero a vederci sotto le frasche! E partivano quelli di Predolo, tutti i miei parenti, che guai a rimanere indietro!
Mio nonno Carlo (che tutti chiamavano Carlùn, perché era alto, così come suo fratello, morto giovane, era chiamato Prusprùn e due suoi zii – Albertini di Cunt - di Gombio erano Tiliùn e Cuntùn), andava invece ai funghi negli orari più impensati, come il primo pomeriggio, e le sue erano visite brevissime. Conosceva delle vene sotto ai pini (i pini silvestri, antico relitto dell’ultima glaciazione) lungo la strada per Gombio. Si limitava ad arrivare là, togliersi il cappello e metterci dentro i funghi, senza tanto vagabondare. Mi aveva insegnato alcune vene anche ai Valeti, in mezzo ai castagni, dove le cuselle venivano sempre enormi, con un cappello marrone proprio simile a quello in cui mio nonno le riponeva. Più piccole, morette, magre, sode e dal gambo paffuto erano, invece, le cuselle della Piagna che spuntavano in mezzo ai fiori di brugo in quel tipico terreno di sabbione rossastro. Ero al corrente di ogni vena in quel luogo perché la mia bisnonna e mio nonno Ambrogio me le avevano insegnate tutte.
Partivamo pure noi bambini per l’avventura fungaiola: maglione rigorosamente alla rovescio e occhi non lavati (che portava fortuna), stivali di gomma, bastone, un cesto o una borsa di stoffa dove riporre il raccolto. Anche noi, come gli adulti, ci sentivamo in competizione e facevamo a chi ne avrebbe trovati di più. Mio cugino Ciro era il migliore, ma non scherzava nemmeno Domenico Venturi, che, mica per niente, era nipote di Ennio Croci! Quelli eran giorni in cui i funghi li vedevi stesi a seccare dappertutto: sulle aie, ben allineati sulle assi, sul tetto basso del pozzo, davanti alle porte delle case, in cucina vicino alla stufa quando il tempo minacciava.
E l’odore di fritto, a mezzogiorno e a sera, si diffondeva per i cortili.
Peppo e Dirce credo che mangiassero solo funghi in tutte le salse, da tanti che ne rastrellavano su! Si raccoglievano soltanto i porcini, i galletti (carnasö), l’ovolo buono (amanita cesarea); tutti gli altri erano bisacàn, li ritenevamo velenosi e li calciavamo, levandoli dal terreno. O li schiacciavamo, come le “loffe”, per far uscire quel puzzolente fumo nero che poi altro non era che un soffio di spore. In primavera mio nonno Ambrogio prendeva su anche i bianchi prugnoli, e mia mamma faceva ottime frittate con i chiodini, ma, in genere, questi non erano ritenuti “veri” funghi; il “vero” unico nobile fungo, quello che meritava ore e ore di cammino, era soltanto la cusella.
Però, chi era emigrato aveva imparato che non tutti i bisacàn erano davvero velenosi.
Come Gigeta, uno zio di mio nonno Carlo, che si chiamava forse Luigi ma che, invece d’essere alto come gli altri Albertini, era piccoletto, con una massa incredibile di capelli bianchi sempre un po’ lunghi e un volto dolcissimo; pareva un attore francese. Infatti era stato in Francia, e il tipico basco blu che portava sempre ne era la riprova. Gigeta da Gombio saliva spesso a trovarci e un giorno ci portò due o tre vasetti di funghi sott’olio che lui stesso aveva raccolto e confezionato. Mia mamma lo ringraziò con calore, ripose i vasi nel tricantùn poi, quando lui se ne fu andato, li riprese in mano, li osservò bene, si consultò un po’ con mio nonno Carlo e decisero. Non erano cuselle; non erano bulée ross, non erano carnasö. Erano quei porcini rossi dal gambo bianco picchiettato di grigio che crescevano sotto i pioppi. “Bisacàn”, decisero. E li buttarono nel letamaio.
Come sempre bellissimo raconto dei bei tempi passati. Grazie.
(Ermete Muzzini)
Signora Normanna, non è che questi racconti si possono raccogliere in un libro o, se c’è già, dove si acquista? Sono qua con le lacrime agli occhi (forse per i 48 anni) perchè alcune di queste storie le ho vissute. Uno splendido tuffo nel passato! BRAVA!!!!!!!!!!
([email protected])
Non sono cresciuta in campagna/montagna e non ho amato, da piccola, la vita all’aria aperta. Leggere i tuoi bellissimi racconti mi permette di capire quanta esperienze mi sono mancate. Grazie Normanna, complimenti a te!
(Morena Silingardi)
Normanna, che piacere leggerti, quanta nostalgia, che bei ricordi! In questi attimi di lettura, in queste parole piene di sentimenti positivi, tutto mi scorre davanti come un film, mi rivedo fanciullo e sorrido pieno di gioia perchè così sono stati quei momenti. I tuoi racconti ci/mi mettono sempre di buonumore perchè pescano sempre nella semplicità, nelle persone umili e sempre con gesti ingenui ed innocui. Hanno però una forza immensa, ci/mi fanno riflettere e in qualche modo anche ripensare alla nostra vita quotidiana, frenetica e piena di problemi, infatti ti leggiamo e ci rendiamo conto che le soluzioni ci sarebbero e molto semplici riconducibili a tre sole parole: semplicità, onestà e coerenza.
Grazie sempre.
(Sergio Tagliati)
Complimenti vivissimi, signora Albertini, la sua capacità di fare rivivere “i tempi che furono” sul nostro Appennino è notevole. Come è notevole la grande dimestichezza con le varie espressioni dialettali che testimonia una conoscenza profonda e sentita del territorio. Se mi permette, la preferisco decisamente in veste di narratrice piuttosto che in quella di censore delle opinioni diverse dalla sua (vedi Corinto e dintorni…). Al prossimo racconto.
(Ivano Pioppi)
Intanto, grazie a tutti per i complimenti ma, soprattutto, per avermi letto. Per quanto riguarda la possibilità di trasformare i racconti (aggiungendone degli inediti) in un libro, salvo il fatto che io me lo autopubblichi pagando di tasca mia, ci vuole l’impegno di un editore. Quindi… aspetto risposte. Per il signor Pioppi: l’abitudine odierna a vedere sempre in chi ha opinioni diverse un avversario e non un compagno di viaggio con cui discutere per rileggere la realtà anche attraverso i suoi occhi, ha fatto di quel mio intervento, secondo lei, appunto “un’avversaria”. Non è così. E’ la cultura imperante della “Società della discordia” che le ha fatto leggere il mio intervento in quel modo. Ma è un problema suo, non mio, che per niente mi sento sua avversaria. Le riporto una riflessione di Maria Rosa Mondini, coautrice, con Federico Zannoni ed altri, di un testo universitario che uscirà a novembre, intitolato, appunto “La società della discordia”: “Elie Wiesel sostiene che l’opposto dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza; che l’opposto dell’educazione non è l’ignoranza, ma l’indifferenza; che l’opposto dell’arte non è la bruttezza, ma l’indifferenza; che l’opposto della giustizia non è l’ingiustizia, ma l’indifferenza; che l’opposto della pace non è la guerra, ma l’indifferenza alla guerra; che l’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte. Noi che ripudiamo l’odio, l’ignoranza, la bruttezza, l’ingiustizia, la guerra, la morte, noi che perseguiamo l’amore, l’educazione, l’arte, la giustizia, la pace, la vita, invitiamo a non considerare le cose, piccole o grandi che siano, con indifferenza, a non alzare le spalle quando attorno tutto brucia, a non ritenere di essere impotenti, a non fuggire, bensì a indignarsi, agire, pensare, mettersi in gioco, interrogarsi, per provare ad attraversare con rinnovata grazia il labile confine che separa la discordia dalla concordia”.
Amare e impegnarsi non significa non intervenire e non discutere anzi: significa proprio il contrario. Anche se è faticoso.
(Normanna Albertini)
Non mi nascondo che questi racconti cosi vibranti riaprono sentimenti che in modo quasi prepotente mi tornano alla mente. E’ forte lo stridore della differenza di quei tempi con tempi moderni. Tutto sommato non sono neppure passati tanti anni, ma i valori della società attuale, sempre che di valori si tratti, sono molto più lontani da quelli dei tempi passati e purtroppo la cronaca ce lo ricorda quotidianamente, martellandoci la mente e le coscienze. Le notizie e non solo quelle politiche si susseguono con esempi così devastanti che logorano e tritano inesorabilmente i ricordi di quei tempi passati. I suoi racconti così precisi, veri, sinceri, a volte solo superficialemente crudi, sono per me come le favole e le favole aiutano a sognare. Speriamo che, grazie ai suoi racconti, sia ancora possibile svegliarsi con la speranza in un mondo migliore. Continui con i suoi, belli e graditissimi, racconti affinchè anche le nuove generazioni possano raccontarli, come segno di esempio e di speranza, ai loro figli. Sentitamente.
(Conte da Palude)
Ogni volta che leggo e che mi ritrovo a sentire gli stessi profumi e a vedere gli stessi colori mi ritrovo dispiaciuta che mia figlia non riuscirà mai a vivere le stesse emozioni, perchè ora le uniche cose che davvero vivono i nostri figli sono le ore passate davanti a computer e telefonini alternati alla tv. Brava Normanna.
(Lidia Dallari)
E’ la prima volta che leggo un tuo racconto. E’ una bellissima sorpresa… rileggere la vita passata dai nostri nonni… è come farli rivivere per sempre vicini a noi…. a noi che li portiamo nei nostri cuori… Grazie Normanna…
(Carmen Togni)
complimenti per la sua capacità di descrivere così bene come erano quei tempi,mentre leggevo ” risentivo “la voce di mia suocera che mi raccontava di quel passato che sembra una favola
(gloria)
Cultura e saggezza: quanto mancano nel nostro quotidiano! La riflessione a cui spinge il racconto è forte: conoscere le tradizioni, la saggezza dei nostri padri è quanto di meglio si possa fare per andare sì alle nostre radici, ma anche per allenare la nostra mente e riconoscere nell’altro tutta la sua diversità, ricchezza per noi per una giusta interazione. Quante storie nella vita delle persone, quante abitudini, una diversa dall’altra, quante gioie e quanti sacrifici! E poi comprendere che i vissuti di tutti si assomigliano ed hanno creato le storie, hanno fatto la storia.
(Mimma Visone)
Gentile Signora Albertini, desidero ringraziarla per questo bellissimo racconto. Non mi riferisco solo alla prosa bella, all’emozione che suscita in questo buon mondo “andato”, dove l’affetto-ricordo della nostra infanzia indora tutti i protagonisti regalando loro l’aura della leggenda, della bontà e della saggezza, bensì ad una grande opera di vera e propria ARCHEOLOGIA CULTURALE che unisce e attraversa le nostre diverse vite, le intreccia riportandoci magicamente “in cordata”, fa operazione di condivisione e di pace. I nonni dei suoi ricordi, non sono tanto dissimili dai miei, i profili così ben tracciati delle varie persone sono riconoscibili anche nei ricordi della mia infanzia (invano sotterrata). Senza banalizzare mi viene in mente la frase della mia nonna “tutto il mondo è paese”: quanta saggezza! Quantà bontà nel riconoscere semplice, contadino, che tutti siamo uguali. Solo noi sciagurati nipoti cerchiamo di distinguerci… passiamo la vita a fare del contrappunto, siamo la generazione dei Se e dei MA, meno male che ogni tanto arriva una boccata d’aria fresca, 35 minuti di ricreazione, i 35 minuti che ho impiegato a leggere il Suo racconto, che mi ha riempito l’animo di pace.
Grazie… girovagherò nel web sperando di trovarne atri.
(Marisa Nice Montecchi)
P.s. Ha mai pensato ad un e-book?
Bellissima e commovente la nonna iusfina!! Complimenti!
(P.D. Galassi)
Bellissimo racconto!!!
(Pelliciari R.)