STORIE DI CACCIATORI
Storia vera quella che vi sto per raccontare. E, volendo, qualche testimone (allora ragazzo) c’è ancora. E veri sono anche i personaggi. Solo i nomi non corrispondono, per motivi di privacy. I fatti, puramente casuali, si sono verificati in quel di Castellaro nel lontano 1945, all’inizio dell’autunno. Quello fu un autunno di vacche grasse. Da un paio d’anni la caccia non la si praticava più. Non perché fosse proibita, ma perché non era opportuna. Gli uomini soggetti alla leva erano sparsi qua e là, prigionieri in Germania o in territori inglesi o americani, dispersi in Russia, comunque messi in condizione di non potere tornare a casa. Quei pochi che dopo l’otto Settembre del ’43 ce l’avevano fatta a rientrare in famiglia non si facevano vedere in giro. Per la Repubblica Sociale di Salò erano dei disertori. I Partigiani non erano ancora così bene organizzati da garantire sicurezza ai combattenti e alle loro famiglie. E, se vogliamo essere concreti, la vocazione all’eroismo non è la caratteristica della maggior parte della gente. Quindi, in quegli anni bui, di sicuro non si sparava alla selvaggina. Non conveniva. Il rischio era troppo grande: poteva essere frainteso e dare origine alle rappresaglie che, purtroppo, abbiamo conosciuto.
La lepre al guinzaglio. Provate ora ad immaginare cosa poteva capitare alla prima stagione venatoria libera da pericoli. Tartarino, al confronto, farebbe la figura del pivello. E gli strumenti? Sciogliete pure le briglie alla fantasia, ma vi sarà difficile misurarvi con la realtà di quei pochi mesi. Noi che inconsciamente c’eravamo possiamo assicurarvi che abbiamo assistito a scene tragicomiche tali da ispirare a Daudet il quarto volume sull’eroe di Tarascona.
Erano stati recuperati i vecchi fucili ad avancarica (si diceva a bacchetta), sepolti nei recessi più impensabili per sottrarli alla furia tedesca. Ve ne erano già alcuni a retrocarica, a due cartucce, anche questi ben lubrificati prima di seppellirli. Effettivamente le attenzioni prestate prima di occultarli aveva permesso di mantenerli efficienti. Ma, per l’occasione, abbiamo assistito a trovate davvero ingegnose. Per esempio il classico moschetto 48, tecnicamente superato dai vari Smith, Parabellum, ecc. era diventato un capitale per chi poteva disporne e lo aveva messo da parte nelle confuse battaglie degli ultimi giorni prima della Liberazione. Il trucco consisteva nel togliere la pallottola dal bossolo e sostituirla con alcuni granelli di piombo (la granîša). Non avevano una gittata lunga, ma, data l’abbondanza di selvaggina, espletavano egregiamente la loro funzione.
Capitò anche che un cacciatore provetto, ma in quel momento disarmato, riuscisse a catturare una lepre viva. E che gusto c’era ad ucciderla così, come un semplice coniglio? Idea!!! Visto che nel borgo c’erano tanti emuli del Tarasconese, sempre pronti a vantare le proprie doti venatorie quando nessuno poteva contestarle, quel tizio pensò di inventare un facsimile di rodeo con la lepre legata ad un albero mediante una lunga fune e gli eroi da safari, da una certa distanza fissata in precedenza, pronti a colpirla. In premio? Chi colpiva la bestiola se la portava a casa. Tra un cicaleccio infinito, uno sfottersi a vicenda, finalmente ebbe inizio la grande avventura. Qualcuno cercò di spaventare la lepre che, nel frattempo, si era annichilita sotto un ciuffo d’erba nell’illusione d’essere dimenticata. Appena la bestiola si mosse, affaticata dalla pesante corda che doveva trascinare, cominciarono i fuochi d’artificio. Ogni concorrente poteva sparare un colpo, seguendo l’ordine con cui si erano messi in cerchio. Sussultava la povera lepre ad ogni sparo che sentiva passarsi vicino, e tentava di svicolare a destra o a sinistra. Fino a quando un colpo ben assestato non tranciò di netto la corda a pochi centimetri dal collo della cavia, liberandola dal peso esorbitante della fune. Senza neanche curarsi del resto la lepre si diresse di gran carriera verso la parte bassa del campo da dove poteva scavalcare l’argine e sperare di non essere più raggiunta. Dicono che la fortuna aiuta gli audaci. Ma forse anche i disperati, da quel poco che so io! Musi allocchiti, bocche aperte, occhi increduli e stralunati furono la cornice a quella scena!
Lo sparo al rallentatore. Lo stratagemma di modificare le cartucce dei moschetti dava i suoi risultati. Il problema, semmai, subentrava quando le cartucce erano un tantino vecchiotte o erano state conservate in locali umidi. Poteva capitare che la polvere da sparo, anche se non era del tutto inutilizzabile, fosse patita, ossia leggermente avariata. Significava che non prendeva facilmente fuoco e quindi l’esplosione poteva esserci o non esserci. È quanto capitò a Delfo in una battuta memorabile. La troupe dei cacciatori si era recata sulla dorsale della Fratta, in direzione Gombio-Montecastagneto, ad una discreta distanza dalle abitazioni. Sciolti i cani ognuno aveva scelto una postazione dove le lepri avrebbero dovuto passare per sfuggire ai segugi. Conoscitore delle usanze delle lepri Delfo si era appostato vicino ad una radura che permetteva il transito verso l’altro versante del monte. Il fiuto diceva bene. Infatti, poco dopo che i cani avevano scovato la preda, ecco venirgli incontro, quasi si trattasse di una sfida di abilità, una bella lepre pasciuta e snella. Delfo la punta, preme il grilletto stringendo forte la cassa del fucile alla spalla per non fallire a causa del contraccolpo. Il rumore secco del percussore c’è stato, ma al posto dello sparo l’aria ripeteva, come in una eco che prosegue all’infinito, il classico kléch della cilecca, dello sparo che non c’é. Svuotato dalla delusione non ha neppure la forza di spostare il fucile. Continua a puntare la lepre come per convincersi che era nel mirino fin dall’inizio; ma quella, intanto, le è passata a due metri e prosegue la marcia verso l’altro versante, incurante del cacciatore. Ma ecco il miracolo. Un urto alla spalla destra, un boato e la lepre, che se ne stava andando per i fatti suoi, sobbalza e cade, starnazza un poco poi si ferma immobile.
Liseo e la lepre. Tutta la tribù dei cacciatori aveva deciso di fare una battuta in fondo alla Valle, dove si sapeva che pasturava una buona quantità di lepri. I cani ormai erano bene ammaestrati per cui bastava guidarli con fischi e richiami e loro si sarebbero inoltrati nel sottobosco dei canaloni, spingendo verso l’alto le malcapitate prede. Ancora una volta ciascuno scelse la postazione dove, a parere proprio, sarebbero transitate le lepri per sfuggire ai cani. Così doveva essere. E così è stato per alcune. Ma una di esse, forse più furba delle altre, scelse una strada meno consueta. In un campo poco discosto c’era Liseo, intento a zappare i così detti gaioli, cioè quei pezzetti di terreno che l’aratro non aveva rivoltato per la presenza di un albero o per la vicinanza alla carraia. Liseo non era un cacciatore. Ad un certo punto però notò che una lepre, defilatasi dalla muta dei cani, si stava dirigendo verso di lui. Rimase immobile nel tentativo di escogitare il modo di acchiapparla. Pregustava già come canzonare i cacciatori, lui che di caccia non ne voleva sapere. Intanto come prenderla? Con la zappa no. La lepre avrebbe fatto in tempo a scorgere la mossa e fuggire. E mentre le passava vicino le si getto addosso convinto di immobilizzarla col proprio peso. Ma... Si, c’è un ma: la lepre non era della stessa idea! E cominciò a sferrare unghiate in tutte le direzioni fino a quando Liseo, semisvestito, dovette mollare la preda.
Da storico a narratore… quante ne sa il nostro Savino!!!
(Ilde Rosati)
… a m’ la cunteva mi pà.
Un casadur al cunteva che liva spara a ‘na beccaccia, l’era gnuda sò andman un saasss, al bèc liva masa na levra e la levra, dre murir, a la atacaa a raspar e la tirà fora ‘na tartofla grosa acsè. Ragass, al casadur alziva, a mera mai sucess.
(Giovanni Annigoni)