Tornano da una breve vacanza in Italia ed è la prima parola che mi buttano addosso, con un sorriso agrodolce: “Ma sapessi che bel sole che ho trovato in Italia... era solo il sole, però.” Con questo, si dovrà capire tutto. Marisa, di ritorno a Londra, ti investe: “Lì da noi la musica è sempre la stessa, non cambia nulla!”. Un’altra simpatica ragazza di Piacenza, nella città del Tamigi da quattro anni, è stata laggiù dai suoi. “Ho dato un saluto alla mamma, poi dopo solo tre giorni sono scappata via”. Continuava a dire loro: "Ma qui è sempre tutto uguale, non si muove niente... Tornano i giovani e fanno la faccia di chi abbia incontrato un mondo che non cammina. Ingessato. Antico. Anche se le insegne, a volte, sono modernissime".
Un missionario venuto dal Brasile, che incontravo casualmente all’anticamera del vescovo, mi confessava: “Sai, la nostra diocesi è proprio immobile!”. Un altro giorno fortunato incrociavo un vescovo emerito, piemontese, dallo sguardo sereno, il profilo ascetico, il tratto dolcissimo. “Siamo senza uomini di visione, sai...”, ti fa con una malinconia interiore che commuove, “uomini che sappiano guardare avanti, all’orizzonte... È la solita gestione”. Sembra il tramonto di un mondo. Forse il contraccolpo di un’era. Cullata per decenni dal benessere, da televisioni private che imperavano con pseudo-valori, da una voglia folle di divertirsi e di stare bene, dalla sfilata delle veline... “Panem et circenses”: il mangiare e il divertimento - come antichi dei romani - avevano assorbito un interesse ossessionante. “L'uomo è ciò in cui crede”, ricordava Anton Cechov.
E ci si chiede come mai la nostra terra abbia questo destino oscuro, quasi come in una tragedia greca, di rendere infelice la sua parte migliore, i suoi giovani, la sua gioventù. Di vederseli sfuggire di mano, sfiduciati, con un male nascosto. Proprio come la marea di italiani di sessant’anni fa. Emigranti. Partiti alla disperata. Un pezzo di storia che per noi non è mai entrato nella storia, non ha mai fatto storia. Quasi un braccio amputato di un corpo.
Ma la loro lezione resta, tuttavia. Quella di non saper scommettere sull’avvenire, sulla ricerca, sui giovani. Di non decidersi a partire insieme per una lunga marcia contro i mali profondi della nostra terra. Di non vedere la casa che brucia, mentre egoismo sociale e i suoi eroi negativi imperano. Dove corruzione, evasione e illegalità rendono irrespirabile l’aria, gli orizzonti dei nostri giovani.
Non si ha la fortuna di avere dei visionari, uomini di visione e di entusiasmo, che sanno intravedere un avvenire grande con i passi di oggi. Solamente dei gestori. Gestire il presente, semmai sensibili al tornaconto, al potere, alla condiscendenza della propria cerchia. Nell’incapacità di portarsi supra partes, superando uno spirito feudale che separa i bianchi dai neri, i guelfi dai ghibellini, il nostro mondo in corporazioni. “Sarei certo di cambiare la mia vita, se potessi cominciare a dire noi!”, cantava una volta il nostro Giorgio Gaber.
Così, vista dall’estero, la nostra terra: un mondo antico che perde i suoi giovani, che fatica a sentirsi patria comune, incapace di spirito generoso, lungimirante, nell’integrare lo straniero. Ricordava Charlie Chaplin: “Non troverai mai gli arcobaleni se continui a guardare in basso!”. Ovvero, al nostro spazio che rinchiude, al nostro feudo. Il senso del tempo, invece, ricorda che si sta costruendo insieme a più mani una storia nuova, un’avventura originale e collettiva, con altri. Il senso dello spazio, al contrario, con chi lo adora, cristalizza e disumanizza i rapporti: lo straniero è ridotto a un ospite mal sopportato, l’altro si impanca da padrone di casa. “Ma l'importante non è dove sei nato, ma dove ti senti a casa!”, richiamava un grande autore.
Un fatto nuovo si osserva, ultimamente, nel successo di London 2012: i giovani inglesi. L’Olimpiade è stato un motore, uno stimolo potente per la gioventù inglese di tutte le razze nel coltivare lo sport. Dappertutto un logo ne indicava il senso: “Inspired generation”. Un motore nella vita di milioni di giovani stranieri di ogni origine che vivono in Gran Bretagna. Inspirati, invitati come per un grande ideale, a coltivare il corpo, il talento, il confronto e il “to be proud”(essere fieri). Già, settantamila giovani volontari ai Giochi si rivelavano un challenge particolarmente riuscito, dando slancio all’emulazione, alla sfida del vivere-insieme, al servizio di una causa e all’essere “fieri di sè,” come lo sono le medaglia d’oro inglesi. Queste non riceveranno 140mila euro di compenso, come i loro colleghi italiani. Solo il sorriso della regina. Saranno unicamente fieri, in fondo, delle loro abilità, in un mondo dai tanti volti, dalle tante culture differenti. Inspired generation.
(Renato Zilio, missionario a Londra, autore di “Dio attende alla frontiera”, Emi, 2012, prefazione Abate di Montecassino)
Chapeau!
(f.g.)
Quando insegnavo ho portato gli studenti delle superiori in vacanze studio in Inghilterra, Irlanda, Stati uniti, Germania e Francia. Ciò non basta per conoscere un popolo e tanto meno per giudicarlo. Sono stato missionario a Zurigo, solo tre anni; e anche questo non basta. In Italia ci vivo da quasi settant’anni. E la mia visione di questa nazione diverge da quella di Zilio. Attualmente dirigo un centro per ragazzi “problematici” e i giovani che vi operano non hanno come prima preoccupazione quella di fare sport per sentirsi vivi, ma sono giovani e vivi. Potrei fare un lungo elenco delle realtà che vedono protagonisti i giovani italiani, che non mi risultano statici. L’unica cosa sempre uguale in tutto questo mi risulta sia la visione dell’Italia di Zilio (da sei anni circa ricevo per posta elettronica i suoi scritti). A Zurigo ho incontrato emigrati italiani che, non so per quale fenomeno, erano contro l’Italia più accaniti di qualunque zurighese. Così come a Milano ci sono meridionali più anti-terroni dei milanesi purosangue. Forse la causa sta nella moda autolesionistica assunta da qualche tempo come fiore all’occhiello da parte del giornalismo nostrano.
(Roberto Colosio)