Tutti quelli che sono stati qui da noi conoscono il fiume che porta dalla tribù degli Yuqui, il fiume Cimoré. A dire il vero, non si tratta di un grande fiume, come accennato nel titolo . E’ un modesto fiume tropicale che aumenta la sua capacità solo nei periodi di forti piogge. E’ un fiume che ha sempre il colore del fango perché ad ogni sua svolta ruba la limosa e fertile terra coltivabile delle rive. Tante volte siamo scesi su quel fiume per raggiungere il villaggio di Bia Recuaté. Per la traversata si usa una canoa a motore, lunga 8-10 metri, scavata nel tronco di alberi dai nomi suggestivi. Bisogna fidarsi di esperti piloti per riuscire a mantenere in equilibrio un mezzo così rudimentale e destreggiarsi tra i tronchi e i rami che il fiume trascina con sè.
La prima volta che scendemmo al villaggio fu il 9 gennaio del 2005 quando, con lo strazio nel cuore, riportammo a casa il corpo senza vita del piccolo David, stroncato da malattie tropicali nell’ospedale di Santa Cruz. Fu l’unica volta che scendemmo a remi e per l’intero percorso il fiume risuonò del mesto e ininterrotto lamento di Rebeca, la mamma adottiva di David.
Normalmente, si impiegano trenta cinque minuti per la discesa e più del doppio per la risalita fino al punto in cui si lascia la macchina. E’ un viaggio che ogni volta lascia profonde impressioni in ognuno, infatti, il tempo della traversata, immobili sulla precaria canoa, scioglie lo scorrere dei pensieri mentre lo sguardo spazia dalle sponde del fiume, al cielo e agli orizzonti sull’acqua.
Trattandosi di un fiume tropicale, ci si aspetta sempre qualche sorpresa come quella volta che una piccola tigre l’attraversò pochi metri davanti a noi. O come quando la gente del posto ci mostrò vari esemplari di coccodrilli bebè da poco catturati. L’ultima volta il nostro traghettatore spense il motore della canoa per aiutarci a scoprire le piccole scimmie che sulla riva si spostavano da un albero all’altro al suono di originali squittii. Ma non è sempre così. Normalmente, sono le farfalle dai mille colori le protagoniste e accompagnatrici del viaggio sul fiume, insieme al canto degli uccelli. E poi il fiume è ricco di una grande varietà di pesci, alcuni davvero enormi, che permettono il sostento delle tribù distribuite lungo il suo corso.
L’acqua scorre lentamente accanto a noi... Non sappiamo da dove sorge e dove si dirige: in quale fiume convergerà più a valle? E quanto tempo le occorrerà per arrivare sino all’oceano? Dalla canoa allunghiamo la mano per cogliere il segreto di quell’acqua color fango. Ma ovviamente ci sfugge e riprende il suo corso. Quella goccia risucchiata dalla canoa: quando avrà iniziato a formarsi? Ora si è persa nell’insieme dell’acqua del fiume. Ma non torna indietro. Seguendo le ferree leggi della chimica e della fisica, dà come la mano -sopra, sotto, avanti e indietro, a destra e a sinistra-, alle infinite gocce che come lei formano il grande fiume, dalla sorgente sino alla foce. Il fiume si ricrea costantemente grazie alla sua sorgente e grazie alle nubi del cielo. Ma arriva il momento in cui si perderà definitivamente. Ora è quella “ingenua stretta di mano” che lo tiene insieme. L’acqua del fiume non è mai la stessa, si mescola e si rimescola, ma il fiume è proprio se stesso proprio grazie a questo perdersi-ricrearsi. Nello scorrere del grande fiume: chi meno protagnista di quella anonima goccia persa nell’insieme?Chi più protagonista di quelle gocce infinite d’acqua che sono l’essenza, l’anima del grande fiume?
La nostra visita al villaggio è sempre breve: siamo lontani da casa e bisogna rientrare prima che si faccia troppo tardi. Non c’è bisogno di portare niente in tanta miseria umana. Difatti, bisognerebbe portare tutto l’immaginabile. Comunque, spesso portiamo latte e medicine. Ma gli sguardi si incontrano con simpatia. Tanti bimbi. Difficile riconoscere ognuno perché i tratti somatici si ripetono. Andiamo fin là non come turisti o come salvatori. Ci muoviamo fin là come quella piccola goccia del fiume, per continuare a darci la mano a scorrere insieme, fin dove non si sa, perdendoci e ricreandoci nella conoscenza mutua e nel desiderio di amicizia. Dopo David che, pur piccolo, ci chiese un favore: “Non abbandonate la mia tribù!”, accogliemmo nella nostra casa Marianita. Aveva solo 9 mesi e la tubercolosi aveva stremato le sue forze. Ora ha 8 anni. Sta benissimo! La nostra storia con gli Yuqui non è stata né programmata né forzata. E’ comunque una storia velata dal fango di tanto dolore. Ed è così anche adesso. L’incontro con gli Yuqui, infatti, in queste ultime settimane ci ha stretti a Betania e al suo minuscolo figlio, battezzato qualche giorno fa con il nome scelto proprio da lei: Gianluca! In onore del nostro Gianluca! E per completare l’opera e la riconoscenza, la mamma ha voluto come madrina Ilaria e come padrino Matteo, due dei ragazzi italiani che sono qui con noi e che più le sono stati vicini nelle sue notti di angoscia.
Bello! Una volontà molto significativa!
La mamma, affetta da fibrosi polmonare, ha anche espresso il desiderio che il suo bambino rimanga qui con noi, che noi lo curiamo e che noi lo facciamo crescere. Betania ha perso 20 chili in pochi mesi. Abbiamo una sua foto di qualche anno fa quando stava bene...
Il bebè, che ora ha un mese di vita, pesava un chilo e mezzo alla nascita, ma da quando è uscito dall’ospedale ha raggiunto quota 1800 gr.! Bravo! Non è nato in sala parto, ma nel letto di degenza della mamma, quasi senza che i medici di turno se ne rendessero conto perché era notte inoltrata! Prende ogni due ore 20 cc di latte, quasi un bicchiere e mezzo ogni giorno! E questo pomeriggio, il piccolo bebè, di nascosto sotto le copertine, dopo tanti sforzi, si è tolto con la lingua la fastidiosa sonda con cui si alimentava. E allora noi ci siamo azzardati a chiamare una delle nostre mamme, mamma di nuovo per l’ottava volta, perché gli avvicinasse il suo petto. E il piccolo Gianluca ha fatto la sua prima esperienza di poppare latte: un successone! E via, speriamo definitivamente, la sonda! Certo, stiamo tutti lì continuamente a controllare se vomita, ma per il momento sembra che la cosa vada bene.
Betania ha voluto essere trasferita in un ospedale più vicino a casa sua, nella zona tropicale dove, per la bassa altitudine, la respirazione è più facile per lei. Comunque, chiama continuamente per cellulare e senza dubbio sta meglio. Il piccolo Gianluca è di là che dorme nella sua culla a fianco con quella del piccolo Juan che ora sembra un gigante al suo confronto! Due gocce di vita nuova per la nostra casa. Due vite che si stringono nella sofferenza, ma anche nella speranza. Le mamme di questi due bimbi hanno storie diverse, ma che scorrono sull’onda del dolore anche dentro le pareti della casa de los niños.
Siamo scesi da poco sul grande fiume e, senza programmarla, siamo stati partecipici di una nuova storia con la tribù degli Yuqui. E’ una storia che fa scorrere anche il grande fiume della casa de los niños. Non sappiamo dov’è la sua sorgente e non sappiamo dove sfocerà questa storia.
Scende tra sponde feconde. Non importa se a volte è velata: non bisogna illudersi pensando che tutto sia chiaro e trasparente. Ma queste due culle, queste due mamme sono come piccole gocce deboli che si danno la mano e rinnovano la vita della casa de los niños, ricreando l’anima della nostra storia.
Scorre l’anonimo fiume tropicale sotto i nostri occhi. Cogliamo tra le mani un poco d’acqua. Fa caldo e rinfreschiamo la fronte. Si suda e forse qualche goccia coglie il tempo giusto per fare un salto questa volta verso l’alto. Allora la stretta di mano delle infinite gocce non è solo per tenere insieme l’acqua del fiume, bensì per creare continuità, amicizia attraverso l’aria e il cielo...
Casa de los niños, mercoledì 18, lunedì 23 luglio 2012
Il Grande fiume.
La pista che da Isourum scende lungo il Chari, tra morbide colline di sabbia e argilla, non è che un uadi per la maggior parte dell’anno: ti attraversa la gazzella e vedi branchi di scimmie a saccheggiare datteri quando attraversi i tratti in polders. Una volta, nel periodo delle piogge il fiume era salito a cancellare la pista, siamo rimasti bloccati per tre giorni a Massakoury dentro capanni di paglia e fango e in uno di quei capanni c’era un frigorifero a gas con dentro barattoli di Coca-Cola. Massakoury era per il cantiere un punto appoggio: c’era una pista che permetteva il recupero con il piper di Jean Marie, un vecchio pilota francese, ex legionario che sembrava uscito dalle pagine di un romanzo. L’unica volta che mi ha terrorizzato è stata quell’unica volta che lo visto sobrio.
Quella volta, invece, bastò una mezza spirale per mandare a memoria una festa che non dimenticherò mai: il deserto attraversato tutto l’anno sui fuoristrada ere un bigliardo verde pieno di mille colori. I fiori dell’Africa.
(Giovanni Annigoni)