Ma importa a qualcuno della montagna italiana? Della gente che ci vive, ci lavora, ci muore? Pare di no, affermava già Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera dell’ormai lontano 22 luglio 2010. Non è facile, per uno come il presidente della Comunità montana di Asiago, Lucio Spagnolo, capire i tagli. Prendeva 237 euro e 50 cent netti al mese: aboliti. Come le indennità di tutti i suoi colleghi. In compenso, in extremis, una manina ha ripristinato i gettoni per consiglieri circoscrizionali. I quali, in città come Palermo, arrivano a prenderne, di euro, 900. Misteri della politica. Misteri delle clientele. Che dovesse essere fatto un repulisti nel mondo delle comunità montane è fuori discussione. L'organismo nato nel 1971 per arginare l' abbandono degli antichi borghi e la crisi progressiva della montagna, che costituisce il 54% del territorio italiano, aveva via via subito una deriva, per ragioni di bottega partitica, che a un certo punto sembrava inarrestabile.
La necessità di distribuire sempre nuove poltrone, sempre nuove cariche, sempre nuove prebende, aveva portato le comunità, gonfia gonfia, a diventare 356. Un numero abnorme, con situazioni abnormi. Come quella della Sardegna, arrivata ad avere 25 enti, alcuni dei quali stupefacenti, tipo la "Comunità montana Riviera di Gallura". O quella della Puglia che, nonostante sia la regione più pianeggiante, era riuscita a dar vita a 6 comunità (compresa quella leggendaria delle Murge Tarantine dove spiccava il caso di Palagiano: 39 metri sul mare) e a guadagnare contributi erariali 14 volte più alti, in rapporto agli ettari, di quelli del Piemonte. O ancora quella della Calabria, che nel pieno delle polemiche sui costi della politica si avventurò a inserire tra le comunità montane 19 nuovi comuni tra i quali Bova Marina, Cassano allo Jonio o Monasterace. Tutti e tre sul mare.
Insomma, non poteva andare avanti così. Tanto più che per distribuire soldi a pioggia anche ai furbetti veniva sottratto denaro alla montagna vera. Quella dei paesini abbandonati. Quella dove ogni anno si chiudono scuole per mancanza di alunni. Quella dove le foreste ("Anche se in certi casi c'è un risvolto paradossalmente positivo visti i guasti idrogeologici causati dalla distruzione insensata dei boschi", spiega il professor Marco Borghetti) si sono divorate negli ultimi 20 anni secondo i parametri Fao un milione e mezzo di ettari di terreno. Insomma: bisognava buttare via l'acqua sporca proprio per salvare il bambino. È stato fatto il contrario. Il guaio è che il Palazzo, incapace di eliminare le province (Margaret Thatcher le 45 contee metropolitane britanniche le eliminò nel 1985 tutte in un colpo solo) e metter ordine dove i tagli avrebbero comportato dolorose emorragie di consenso elettorale, si è a mano a mano convinto che quello poteva essere il boccone da offrire alla plebe arrabbiata per placare le sue ire: le comunità montane. Non solo quelle ridicole e indecenti: tutte. Anche quelle che funzionavano...
Tanto più che le comunità montane, grazie alla scrematura delle regioni, erano già state al centro dell' unico vero taglio visto in questi anni: da 356 a 180 enti. Più una rasoiata del 66% alle poltrone. Più un'altra del 50% nella Finanziaria 2008 agli stipendi. Più il prosciugamento totale delle risorse, scese dall'ultima Finanziaria di Prodi all'ultima di Tremonti da 180 milioni di euro a 0: zero. Le Regioni pensano che quelle rimaste siano indispensabili? Paghino loro. Con che soldi? Si arrangino: il Fondo nazionale per la montagna (dato alle singole regioni) è pari per il 2010 a 36 milioni di euro: un settimo del buco annuale della Tirrenia. Nonostante la montagna italiana produca il 16,7% del Pil nazionale (203 miliardi) e ospiti un quinto della popolazione.
Vogliamo dirlo? La verità è che la montagna e i montanari, le loro asprezze, i loro silenzi, i loro boschi, i loro valori, sono fuori moda. Sempre più estranei a una società caciarona, edonista, teledipendente, discotecara, grandefratellesca. Dove tutto deve essere "facile". Tutto apparenza. Tutto consumato in fretta. Tutto messo a nudo sulle spiagge. Sulle barche. Sulle copertine dei giornali popolari. Alcide De Gasperi, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Karol Wojtyla andavano in vacanza in montagna. Tra le vette. L'avete mai vista una foto di Silvio Berlusconi in montagna? E di Gianfranco Fini? E di tutti gli altri, salvo eccezioni? Oddio, il maglione di lana!!! Questo scriveva 2 anni fa il mitico Gian Antonio Stella ed oggi il problema rimane comunque inalterato, anzi è decisamente peggiorato. Della montagna se ne strefregano tutti e dell’alta Val d’Enza poi non ne parliamo. Forse perché distribuita su tre province e due regioni, forse per altri problemi della vallata che nasce al passo del Lagastrello e scende come confine fra le province di Parma e Reggio a nessun politico interessa intervenire sulla banda larga, sulle piccole imprese che qui ancora esistono fra mille difficoltà, sul mondo contadino che ormai non esiste più.
Per questo nel mio piccolissimo voglio perorare la causa dell’alta Val d’Enza e del passo del Lagastrello, ambienti unici, da riscoprire e da rivalorizzare anche se ormai quasi dimenticati da tutti. Tranne che in estate quando frotte di turisti raggiungono queste vallate per respirare aria buona e fresca, acque pure, ambienti impareggiabili ed incontaminati, un verde che stupisce e fa rinascere la speranza di un mondo migliore e di una vallata piena di risorse non ancora per niente valorizzate.
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Un po' di storia
L’Appennino, visto dall’Alta Val d’Enza, evidenzia un solo punto di valico utilizzato da sempre che è il passo del Lagastrello, da dove passava la via delle cento miglia (la distanza esatta che intercorreva fra Parma e Luni passando proprio da qui). Tale via è stata identificata nell'Itinerarium Antonini (fine III secolo, inizi IV secolo) seguendo la via romana che partendo dalla città di Parma va verso sud, lungo la valle del fiume Parma fino al monte Caio, scendendo poi nella valle del torrente Cedra, quindi in alta Val d’Enza, passando sull’antica strada che costeggia il monte di Vairo in direzione Castellaro di Valcieca, quindi valicando il Lagastrello (l’antico Malpasso), si scende dall’abbazia di Linari in direzione di Luni. La via si snoda per una lunghezza di cento miglia romane esatte.
Partendo dalla periferia est della città di Parma, ad intervalli regolari, è possibile identificare le prime quattro "mutationes" poste a cinque miglia romane di distanza l'una dall'altra, arrivando dopo venticinque miglia alla prima "mansio" situata nei pressi di Tizzano Val Parma. Significativo è il fatto che i toponimi odierni sia della prima "mansio" dopo Parma che la prima dopo Tizzano siano "Musiara". Non è conosciuto un ponte romano in pietra sul fiume Parma, si suppone vi fosse un guado tra le località di "Antesica" e "Siola": Siola può indicare un servizio di "sellula" per l'attraversamento del fiume ed antesica può essere un "ante sellula". L'importanza di tale via Parma-Luni, in epoca di guerre contro i Liguri Apuani, risulta fondamentale ed il tracciato è la via più breve per tagliare le terre alte in sole cento miglia "item Parme Laca m.p.C.". Una ipotesi possibile studiando la grafia del documento è che "Laca" sia l'errata trascrizione di "Luna" in quanto seguendo il tracciato tipico delle strade romane si arriva da Parma all’antica Luni percorrendo cento miglia esatte, la distanza più breve tra Parma e Luni anche se in tale tracciato si individuano ad esempio due itinerari: uno percorso dalla legione a piedi che saliva verso il monte Caio (tale toponimo non deriva dal nome proprio romano "Caius" o "Gaius", ma come è trascritto in documenti che vanno dal 1200 al 1500 come la "Ratio Decimarum Diocesis Parmensis" del 1299, oppure il "Capitolum seu Rotulus Decimarum" del 1230 od il più recente "Descriptio omnium civitatis et dioecesis parmensis ecclesiarum, monasterium et beneficiorum in eis fundatorum" del 1564, "Caliis" o "Caleis", dal latino "càllis", detto di strada campestre piuttosto stretta), mentre il vettovagliamento della legione seguiva un tracciato più lungo ma più agevole per i carri, tagliando per l'alta val Parmossa e l'alta val Bardea, seguendo la mezza costa e ricongiungendosi con la via per Luni nell’alta Val d’Enza, al Castellano di Valcieca, prima di raggiungere il Malpasso, quindi scendere con un unico tracciato nella valle del Taverone verso Licciana Nardi ed Aulla.
Risulta fondamentale durante la guerra contro i liguri controllare la strada delle cento miglia in quanto essa valica due passi appenninici: quello sul monte Caio Caio, dal quale è possibile vigilare l'alta valle del fiume Parma, la val Parmossa, la val Bardea e la val Cedra, scegliendo questo punto strategico per le operazioni contro le popolazioni liguri. Controllando il Malpasso, l'odierno Lagastrello, si vigila la sponda sinistra della media e alta valle dell'Enza e la valle del Taverone e di conseguenza la valle dell'Aulella e la media val di Magra. Controllare quest'asse viario era importante anche per spezzare in due il fronte delle tribù liguri, ma non solo. Nel 185 a.C. la città romana di Luni è in difficoltà, circondata dai liguri e le coste non sono più sicure. All'improvviso una colonna comandata dal console Marco Sempronio Tudiano piomba sui Liguri Apuani e raggiunge il fiume Magra ed il porto di Luni, ma provenendo da dove? Dal Malpasso dopo aver risalito le terre alte lungo la strada delle cento miglia unico asse viario controllato dai romani che li porta a piombare all'improvviso alle spalle dei Liguri Apuani nella valle del fiume Magra devastando il loro territorio. Un altro fatto bellico che conferma il fatto che esisteva una strada militare che collegava Parma a Luni possiamo trovarlo nelle cronache del 187 a.C., quando Marco Emilio Lepido esce da Parma o per essere più esatti era probabilmente accampato a Castrignano nei pressi di Langhirano, dove, in località Vallo, sono ancora riconoscibili i terrapieni tipici di una fortificazione di età romana, un campo invernale che garantiva anche la sicurezza della zona contro eventuali incursioni dei Liguri e punta verso l'appennino reggiano, dove sconfigge appunto i Liguri prima a Ballistram e poi a Suismontiumque. Ballistram potrebbe essere identificato con il monte Valestra, mentre Suismontiumque (Suis-montium-que) potrebbe riferirsi all'Alpe di Succiso. "S'cis" in dialetto locale. Dopo tali vittorie potrebbe aver scelto di accamparsi a Vairo, nel comune di Palanzano, dove nella località ancora chiamata "la vàla", che in realtà è in posizione elevata, esisteva un vallum. Anche in questo caso poter controllare la strada delle cento miglia è stato di fondamentale importanza affinché tale manovra di accerchiamento avesse successo.
Terminate le guerre contro i liguri, nella prima metà del II secolo a.C., conquistato completamente l'Ager Veleiates e deportati i liguri sconfitti, la strada delle cento miglia perde importanza a favore di passi appenninici più agevoli del Malpasso come la Cisa o il Cerreto. Fu con i longobardi che la strada assunse di nuovo una importanza strategica e militare ed il Malpasso divenne il cardine di comunicazione tra i ducati emiliani e la Toscana. All'epoca del regno di re Alboino (568-572) l'unico tratto appenninico libero dai bizantini era quello compreso fra i fiumi Taro ed Enza. In questa situazione per i longobardi l'unica possibilità di comunicare fra la pianura Padana e la Toscana era riadattare e fortificare il vecchio tracciato romano della strada delle cento miglia. Interessanti sono anche i nomi di "santi longobardi", come cita il professor Guglielmo Capacchi, fondatore ed anima dell’Associazione Comunità delle Valli dei Cavalieri, purtroppo da alcuni anni scomparso ma che ha lasciato importanti studi e ricerche sulle terre alte, presenti sulla sponda destra della valle del fiume Enza, come non sono trascurabili le sepolture di probabile origine longobarda, di rito ariano, venute alla luce in località "chiesa vecchia" negli anni '70 del secolo scorso, durante lo scavo della strada che mette in comunicazione le frazioni di Fontanafredda e Treviglio nel comune di Tizzano. Tale chiesa sorgeva lungo il tracciato dell'antica via romana del Malpasso, proprio dove la strada abbandona il percorso "a mezza costa" iniziato nel tratto precedente all'abitato di Albazzano, sempre nel comune di Tizzano, per salire direttamente al monte Caio, mentre una variante, probabilmente per il trasporto più agevole del vettovagliamento, come strategia anche descritta nel "De bello gallico" di Gaio Giulio Cesare, prosegue verso la valle del fiume Enza in direzione dell'attuale abitato di Ranzano nel comune di Palanzano, nelle Valli dei Cavalieri. Il Lagastrello o Malpasso o valico di Linari è un passo evidente che chiunque può individuare ponendosi di fronte alla massiccia figura dell’Alpe di Succiso. Così fu per gli animali e per gli uomini che lo dovettero passare, in ogni età. Ed è l’unico che da sempre porta a Luni. Dando come punti di riferimento non discussi il passo (la chiave e porta della Toscana) e la città di Luni, la domanda è: quale è stato, nel tempo, l’itinerario che ha unito i due punti?. A Luni, passando dal Lagastrello, si giunge dall’alta Val d’Enza e poi scendendo in alta Val Taverone per la via del sale o di Linari: non è né un itinerario decentrato (è questa la difficoltà maggiore in tempi in cui non il centro delle cose ma addirittura ogni cosa è, e deve essere, nel fondovalle) né un itinerario più difficile. Pertanto, la successiva domanda è: per quali motivi geografici, politici, economici questa parte di Appennino, data dall’Alta Val d’Enza è stata un’area di strada e quali caratteri dell’economia e politica hanno determinato una struttura di ospitalità di montagna come l’abbazia di Linari e la viabilità che vi passava? Il senso della storia, dell’economia, della politica, qui, sta tutto nel suo rapporto “naturale” – e nella sua funzione di cerniera fisica – fra sé, la “Lombardia” (così chiamata dai toscani l’alta Val d’Enza e la Val Cedra) e il mar Tirreno/Ligure. Gran parte della sua storia, dalla più antica fino alla recente, trova ragione nelle necessità, al plurale, di collegamento fra le terre interne, di montagna e di pianura, e il mare. Ma la vocazione stradale del territorio non basta a creare una viabilità e dunque si deve affrontare la “connessione fra strade e potere”, nel medioevo. Le ragioni di una feudalità diffusa e litigiosa, ma duratura e insediata nei castelli della montagna e poi una rete di vivaci comunità senza centro cittadino, sono state spiegate, più volte e in più modi, ma raramente si è affrontata la questione legandola alla politica economica – soprattutto commerciale – e sociale attivata nel territorio. Tuttavia, la politica dei poteri locali, con interventi sia di regolazione dei traffici sia di costruzione di ponti, ospitali, e delle stesse strade, non avrebbe potuto essere se non fosse esistita una mobilità esterna importante e flussi di persone capaci di creare un’economia indotta. Dire che un castello controllava una strada non significa nulla se quella strada non era trafficata. La politica stradale del potere locale perciò si espresse nel controllo delle attività economiche che richiedevano mobilità e viabilità (commercio ma anche transumanza, pellegrinaggi, ecc.) e in azioni che favorissero tali traffici e l’economia che determinavano.
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La montagna, tesoro da tutelare. "La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione". Così recita l'articolo 9 della Costituzione. Lungi dal cadere nella "retorica di Heidi" non possiamo non constatare come l'Italia sia profondamente legata alle terre alte che custodiscono un tesoro di natura, arte, cultura e storia, scrigno insostituibile della nostra identità nazionale. Gran parte del settore agricolo e pastorizio non esisterebbe senza la montagna, nè l'acqua e molti cibi e prodotti riuscirebbero ad arrivare nelle città e nelle pianure industrializzate. La vegetazione, i boschi e le foreste sono poi indubbiamente fondamentali nel processo della vita della natura e dell'uomo. Molti boschi delle terre alte venivano considerati sacri, templi culturali nei quali alcuni alberi godevano di una venerazione particolare in quanto la suggestione di fronte alla lora maestosità era tale da far credere che il fruscio delle loro foglie non fosse altro che la voce divina annunciata dall'oracolo. Voce che sibilava poi inarrestabile tra le montagne, "continuum" della foresta in quanto esse stesse parte di quell'avventura che è la vita e che porta l'uomo a voler raggiungere la cima dei suoi desideri. Leopardi li definisce "monti azzurri". La montagna non è solo un coacervo di tradizioni, problemi, opportunità e caratteristiche peculiari da conoscere, approfondire e rispettare. Essa cela anche simbologie e significati che invitano a riflettere sul senso più profondo della vita di ogni uomo. Tutelare il territorio è anche una forma di rispetto per il forte ruolo delle montagne nella ricerca spirituale dell'umanità. Come dimostrano i tanti passaggi contenuti nella Bibbia e nei Vangeli che hanno per scenario le terre alte sono numerose le riflessioni religiose che si potrebbero suscitare approfondendo il carattere sacro dei monti, che già con le loro cime ispirano e aiutano il desiderio di spiritualità e ascesi insito nell'animo umano. Il monte Nebo sul quale Mosè ebbe la visione della Terra Promessa che Dio aveva destinato al suo popolo. Il monte Oreb (o Sinai) sul quale ricevette le Tavole della Legge e che servì ad un altro profeta, Elia, per sfuggire a un grande smarrimento e sul quale Dio si rivelò a lui. Il monte Tabor, sul quale avvenne la Trasfigurazione di Gesù. Il monte Golgota, teatro della sua passione. Persino il piccolo colle di pochi metri su cui Cristo salì per pronunciare forse il suo sermone più famoso (il "discorso della montagna" appunto) è ricordato come "Monte delle Beatitudini". Il monte è lo scenario ideale di un'utopia mai spenta, un segno del messaggio di pace della religione cristiana: far convergere tutti i popoli in una convivenza finalmente armoniosa. Un segno che comporta un'attenzione maggiore anche in ambito socio-economico. Se, infatti, in passato il reticolo del sacro era ritenuto molto importante, oggi è stato fortemente alterato: i pianificatori spesso non tengono conto della centralità che il sacro possiede per le comunità montane. Le terre alte invece conservano innumerevoli luoghi di culto a cui devono essere restituiti valore e dignità. In conclusione, perciò, ci appare l’Appennino come area naturale di transito e di traffico, anche grande, dal mare al monte alla pianura e viceversa. Ma non solo. Anche terra di importanti capacità produttive, certo nell’agricoltura, nella pastorizia, nella silvicoltura ma, anche nelle industrie, diverse e in diversi tempi. Una capacità poi di creare la rete del commercio, la rivendita delle produzioni locali determinanti al commercio stesso. Insomma una vitalità data dall’incontro di flussi commerciali esterni e un’economia locale influenzata dagli stessi flussi di commercio ma capace di adattarsi a nuove situazioni. Arte importante, questa, in una situazione di grande mutevolezza specialmente dei luoghi di sviluppo, temporanei, limitati, provvisori. Al porto di Luni le navi scaricavano i prodotti esterni che attraversavano la montagna ma caricavano anche i prodotti dell’economia della montagna, sia alimentari che manufatti e materie prime. Fino alla creazione di una rete di mercati interni al sistema appenninico che poteva somigliare, anche nelle età medievali, a quanto avvenne, nel ‘700-’800, col sistema complementare degli empori di Castelnovo ne’ Monti, Aulla o vicino a noi a quelli più vicini di Rigoso e Palanzano sulle terre alte. Oggi purtroppo ecco il bel biglietto da visita che ci presenta il passo del Lagastrello (o l’Arpa come viene comunemente chiamato dai valligiani): la strada Massese sta franando verso il lago artificiale chiamato Paduli e si spera che non succeda come ogni anno, quando il passo viene chiuso per frane e smottamenti e si blocca la circolazione viaria fra i due versanti emiliano e toscano (l'anno scorso la provinciale Massese è stata interrotta per i mesi di maggio e giugno causando non pochi problemi anche all'economia delle terre alte). Si spera che la Provincia di Massa intervenga al più presto a ripristinare la normale viabilità al passo, perchè con l'estate e il via vai soprattutto di moto la circolazione stradale diventa oltremodo pericolosa.
(Francesco Compari, Strada Valcieca, 11, 43025 Palanzano, Parma, tel. 3391672678)
Peccato che questi turisti che bazzicano in estate per respirare un poco di aria fresca, tornino poi a casa spesso con acqua limpida e fresca, zaini pieni di prodotti del bosco e con la convinzione che tutto ciò sia dovuto e (ancora peggio per noi montanari), a costo zero. Affermo con decisione che, in talune occasioni, ho avuto “il piacere” di entrare in relazione con qualcuno di questi vacanzieri di giornata e ho avuto la netta impressione che, in questo viaggio essi siano accompagnati dalla sicurezza di essere su luoghi di tutti e per questo con gli stessi diritti di chi è tuttora proprietario, di chi ci ha sempre pagato le tasse e li ha sempre gestiti nel rispetto del territorio. Non si potrà mai avere uno sviluppo dal punto di vista turistico se la politica spinge per un turismo eco-sostenibile che si riduce , infine, a ciò a cui assistiamo ogni dannato fine settimana. Lo sviluppo turistico si dovrebbe affrontare incentivando l’iniziativa privata ma anche ospitando imprenditori che abbiano la grinta per costruire alberghi, ristoranti, intrattenimenti e ovviamente con strade adeguate e servizi proporzionati. Non se ne può più di sentire parlare di promozione del territorio associato a Parco e co. e vedere che nella realtà tutto va a ramengo.
(Isabella)