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“La magia del pane”- Un racconto per l’estate della scrittrice Normanna Albertini

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Il pane sulla tavola imbandita a festa. Nonna Eva e nonno Carlo in primo piano

La scodella, protetta da un tovagliolo, sostava per una settimana in un angolo del “tricantun” di lucido legno nero. Il mobile era in sala, stanza fresca anche d’estate, anzi: gelida in inverno, essendo solo la cucina riscaldata dalla stufa.

La scodella emanava un profumo acido già dal secondo giorno e contribuiva ad arricchire quell’orchestra di odori che ti avvolgeva appena dischiudevi l’anta.

Sinfonia di profumi unici: di frutta secca, di funghi, di caffé, di spezie.

C’era poco di tutto lì dentro, pochissimo, ma c’era di tutto: cartocci ben chiusi di prugne e amarene seccate, sacchetti di funghi, il barattolo del caffé vero e quello dell’orzo, i vasi di “savurett” e di marmellata di prugne, i pacchetti del sale, qualche contenitore con i chiodi di garofano, la cannella e la noce moscata.

Erano le spezie più usate nei cibi: per lo stracotto, per il vin brulé, per la torta di castagne, e, in particolare, la noce moscata era indispensabile nel “peng” (ripieno) dei cappelletti e dei tortelli di zucca. Profumo di bosco era quello delle coccole di ginepro, raccolte per tempo sul Monte Battuta e conservate in un involucro per essere tuffate, all’occorrenza, nella marinata del coniglio arrosto.

E poi, lì dentro, c’era, per l’appunto, la scodella dell’ “alvadur”, il lievito madre. Un pugno di pasta estratto ogni settimana, bello fresco, dal pastone del pane e riposto al buio, dove seccava quasi completamente. La pasta madre. La magia del pane.

Mia mamma, la sera prima della giornata dedicata al pane, prelevava dal “tricantun” quella crosta preziosa (diventata, in sette giorni, un tutt’uno con la scodella); già si era cenato e sparecchiato, e lei cominciava allora il rito delle operazioni preparatorie.

Calcolando che s’era alzata alle quattro del mattino (come tutte le donne del paese…) per andare nella stalla e che non si era fermata un secondo durante la giornata, io la guardavo e mi chiedevo dove trovasse l’energia per lavorare ancora fino a mezzanotte.

Eppure ce la faceva. Doveva: non c’era alternativa.

Io mi chiedevo anche, osservandola, se sarebbe toccato poi a me, da grande, lavorare così tanto.

Fu in quei frangenti che ebbi una fulminea vocazione e decisi intimamente di farmi suora; avevo concluso che pregare era certo meno faticoso dell’essere madre e sposa. La cosa non era imputabile ad una cattiva trasmissione catechistica del buon don Valerio, quanto alla mia fervida inventiva ed attitudine, già da bambina, a ragionare ereticamente sulle cose, traendone conclusioni del tutto soggettive. E arbitrarie.

Spesso errate. Molto più spesso (la vita me lo ha poi confermato) esatte.

In quel caso, avevo un po’ esagerato, convinta che i preti e le suore andassero diritti in paradiso, mentre il resto della popolazione, oltre ad essere condannata alla fatica su questa terra, rischiava poi, nell’aldilà, l’inferno o il purgatorio, dopo essere scampata all’assurdità del limbo. Che era assurdo e ingiusto, quest’ultimo, e io l’avevo capito (ereticamente) da subito.

L’hanno eliminato dai Novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso ecc..) solo ora…

Crescendo capii che la stalla non era l’unico mestiere possibile; oltre alle suore e alle sarte (come la mia Lucia Canovi che mi confezionava abitini splendidi con pochi scampoli di stoffa) c’erano anche le maestre - che nella stalla mica ci andavano, loro - e lasciai perdere l’improvvisa passione religiosa. Avrei fatto la maestra.

Alla sera, dunque, mentre mia mamma trafficava di “alvadur”, io, dopo essermi piegata di malavoglia alla tortura dell’asciugamento dei piatti con lo strofinaccio e avendo camminato e scapicollato tutto il giorno, crollavo per la stanchezza e infilavo le scale per le camere.

Mia madre rimaneva alzata; disfaceva il contenuto della scodella nell’acqua tiepida, riempiva a metà di farina un grosso pentolone smaltato, ci versava il lievito sciolto, altra acqua, impastava e mescolava, poi copriva il tutto con una pezza bianca, fresca di bucato, e riponeva il contenitore sul tavolo di sala.

I teli bianchi del pane erano solo del pane, non venivano usati per altri scopi.

Il pane, come un bambino appena nato, aveva le sue pezze, il suo “corredo”, le sue fasce. Di canapa, tessuti al telaio, i teli bianchi accompagnavano la panificazione fin dalla fermentazione e avvolgevano poi le pagnotte bollenti uscite dal forno accogliendole nella paniera, il grande cesto di vimini in cui rimanevano finché si fossero raffreddate. A “patire”, dicevano le donne.

A riposare, come un neonato nella culla. Uscendone, il giorno seguente, per finire, definitivamente, tra i teli della madia e poi, un po’ per volta, sulla tavola.

Io sapevo che, la mattina o il pomeriggio dopo quelle operazioni serali di mia madre, mi sarebbe toccata la gramola e pure scaldare il forno.

Mi alzavo che il profumo dell’impasto lievitato s’era già sparso per tutta la casa; un odore unico, amoroso, a suo modo, confortante, protettivo. Materno. Odore di casa.

Mia madre disponeva allora la farina nella madia; un vulcano di farina - perché in famiglia eravamo in sette e il pane doveva durare una settimana - una bella montagna in cui, velocemente, praticava un grande cratere in cui versava il contenuto lievitato del pentolone e altra acqua tiepida.

Sembravano i gesti di mio padre, muratore, con l’impasto di malta cementizia: stesso vulcano di materiale sabbioso, stesso procedimento con il buco al centro in cui si versava l’acqua.

Poi, mia mamma aggiungeva il sale e cominciava ad impastare.

E dopo era la gramola. Lei seduta a “tenere sotto” e rigirare la grossa massa di pasta e io a spingere su quella leva; sollevare e spingere, sollevare e spingere.

Cick ciack… cick ciack… Una gran fatica e niente divertimento.

Praticamente, però, palestra gratis per le spalle e per le braccia mie di ragazzina.

Prima di me, prima che fossi in grado di aiutare mia madre, ci pensava mia nonna Eva che, tuttavia, poveretta, morì a soli sessant’anni quando io ne avevo quattordici.

Mia nonna Eva non aveva mai goduto di buona salute, ma non aveva l’abitudine al  compatirsi; mia nonna Eva pregava, invece, tantissimo. La corona del rosario sempre in tasca. E progettava.

La ascoltavo, di notte, nella camera accanto alla mia, parlare a lungo con mio nonno di terre da comprare, di vacche da vendere, del prezzo del formaggio, dell’andamento della latteria.

Credo che, dietro ad ogni decisione presa da quando, giovanissimi e privi di tutto (lei diciotto anni, lui una ventina), si erano sposati, nel ‘28, ci fossero stati la determinazione e il coraggio di mia nonna.

Mi ha insegnato lei la discrezione, il rispetto assoluto verso ogni altro; l’amore e la considerazione per il lavoro, la progettualità; diceva che la curiosità e la maldicenza erano peccati gravi; diceva che non bisognava mai guardare all’operato altrui, ma che bisognava occupare il proprio tempo a lavorare per se stessi, quasi in una sana competizione indirizzata al bene.

Aveva tutto un repertorio di sue poesiole educative che mi ripeteva senza mai alzare la voce, quando combinavo qualcosa di male. “Margherita dai curai/cla sta soe quand canta i gai…” se non ero svelta a saltar giù dal letto alla mattina presto, per esempio; per non parlare della famosa “La Pigrizia andò al mercato…”. A ragion veduta, credo avesse cognizioni pedagogiche molto più sensate di certi professoroni odierni.

Scaldare il forno mi piaceva. A Soraggio, ogni casa ne aveva uno, inserito direttamente nell’abitazione, non esterno e utilizzato da più famiglie come accadeva in altri paesi.

L’unica costruzione nuova di Soraggio, terminata nel ’56, a parte qualche stalla e qualche portico, era quella dei miei; le altre case erano tutte antichissime, probabilmente risalenti al Settecento (che è poi la data scritta sul dipinto dell’oratorio).

Erano belle case, con stanze grandi e decorate, i caminetti di pietra, il pozzo che convogliava l’acqua delle grondaie e, appunto, il forno.

Una, all’ingresso del paese, veniva chiamata “la casa del Duca”.

Essendo stata, la zona, il confine tra i due ducati, potrebbe essere nato, Soraggio, come borgo inseritosi su un impianto militare adibito a posto di guardia o qualcosa del genere.

Nella nostra casa “nuova” non c’era il forno, quindi usavamo quello della casa “vecchia”, ed era lì che salivo a fare il fuoco mentre mia mamma preparava, sul tagliere, i fili di pane che avrebbe poi lasciato lievitare e inciso con una croce.

La “casa vecchia” era quella che i miei nonni paterni, con immani sacrifici, erano riusciti ad acquistare insieme al “sito” (la terra: campi e boschi) dagli eredi di un certo Pedroni.

Era scomparso per sempre, quest’uomo, dopo essersi imbarcato per le Americhe, dove forse, chissà, non era mai arrivato. Succedeva, durante la traversata atlantica.

Anche una zia di mia madre, Rosalba Santini, era finita in Argentina, a Rosario di Santa Fé; avevamo in casa una sua foto in cui lei era seduta davanti ad una sorta di capanna (la sua abitazione) con una schiera di figli. Lei era arrivata, ma certo non aveva fatto fortuna. Pedroni, invece, era proprio sparito.

La “casa vecchia” doveva essere stata una gran bella casa; c’era il pozzo cui si accedeva direttamente dalla cucina, oltre che da fuori; c’era una grande sala in cui mia nonna mi raccontava che aveva allevato, negli anni precedenti, i bachi da seta (i gelsi piantati lì intorno stavano a testimoniarlo); c’era lo sgabuzzino del ciabattino, con il banco e tutti gli attrezzi; c’era il grande telaio e, nel corridoio d’ingresso, c’era il forno.

Bastavano tre grosse fascine più qualche randello per scaldarlo.

Le fascine migliori erano quelle della potatura delle viti. Un lavoro madornale che si sobbarcava, praticamente da solo, mio nonno Carlo.

Lo seguivo spesso nei nostri campi (che parevano enormi pergolati), giù, tra le “piantate” degli aceri campestri  e degli olmi: lunghe file di alberi legati dai fili di ferro su cui correvano i tralci delle viti. Era appena finito il gelo; forse era febbraio, perché già sbocciavano le viole.

Lui mi insegnava come fare le fascine, mentre saliva sulle piante o si arrampicava sulla “scalampia” (una scala a pioli a tre piedi) per potare i vecchi sarmenti e ringiovanire i tralci.

Era svelto e sicuro come un atleta, il “podaglio” alla cintura, in mano le forbici e dei mazzetti di rami di salice (gli stropetti) per legare la vite ai fili; tagliava velocemente e con sicurezza, ma anche con un senso innato dell’ordine e della pulizia, rendendo le sue vigne dei veri giardini.

I rami di salice servivano pure per legare le fascine. Avevo imparato a stenderne due o tre vicini a terra e poi a porvi sopra, di traverso, circa a metà, i pezzi di tralcio tagliato. Dopo, bastava tirare su i due capi degli “stropetti” e legarli con un nodo particolare e la fascina era pronta.

Ma le fascine di legna del bosco non si legavano con gli “stropetti”: per quelle si usavano rami giovani di castagno.

E con i rami di castagno “in amore”, in primavera, mio padre mi aveva spiegato come costruire gli zufoli e i fischietti. Praticava due tagli intorno alla circonferenza della corteccia a distanza di una ventina di centimetri, poi muoveva la corteccia fino a scollarla dal legno; la staccava, incideva una tacca vicino ad uno dei fori, chiudeva completamente il foro di fondo, inseriva in quello in alto una specie di ancia fatta con il legno del ramo spellato e poi… magia: il flauto primitivo poteva suonare!

Le fascine delle viti, secche, crepitanti, erano preferibili per il forno poiché producevano una fiamma pulita e potente che sbiancava subito la volta interna di mattoni.

Infatti, il forno era caldo al punto giusto solo quando i mattoni diventavano bianchi. Ci si infilava la mano e si capiva, così, senza termometro, che era pronto.

Anche i ginepri, che mio nonno tagliava sulla Battuta e portava ai conigli da rosicchiare, e che venivano ben spellati dai potenti dentini delle bestiole, finivano nel forno per la vampata finale.

Poi, si spostavano le braci verso l’imboccatura e si cominciava a spazzare il fondo con un attrezzo semplicissimo: un grande mazzo di foglie di granoturco legate all’estremità di un manico.

Una specie di scopa, chiamato “spasadur” (spazzatore), che s’immergeva in un secchio d’acqua e, così bagnato, si usava per spazzare velocemente il forno prima di inserirvi le pagnotte da cuocere.

L’acqua dello “spasadur” veniva usata come impacco per guarire i porri e le verruche, e pare che funzionasse. Essendo un intruglio a base di cenere, doveva avere un contenuto di fosforo tale da bruciarli.

Per sistemare le braci e la cenere all’imboccatura, dove poi si appoggiava il coperchio di metallo, usavamo una paletta corta, rettangolare, di ferro (o di acciaio?) con l’impugnatura del manico di legno.

Era di foggia unica e io credevo che fosse semplicemente “la paletta del forno”, uguale per tutti i forni, invece…

Mi raccontarono che era una paletta americana.

Americana? Sì, l’avevano lasciata lì gli americani quando erano venuti, alla fine della guerra, a disseppellire un morto nel castagneto di Peppo, alla capanna; un morto che non ho mai capito se fosse russo e che non ho mai capito da chi fosse stato ammazzato.

Tuttavia, mi avevano raccontato che l’avevano seppellito in fretta e furia (i partigiani? I fascisti?) lasciando fuori… una mano. Orrore.

Per anni, quando passavo per quel castagneto, sentivo i brividi rimontarmi per la schiena. La pala badile della jeep Willys era dunque rimasta a mio nonno come dono (o dimenticanza) di quegli “americani” (o saranno stati inglesi?) ed era subito stata riciclata come pala del forno.

Ma non era l’unica rimembranza di quel tempo ad essere giunta fino a me. Nei racconti di mio padre, a Soraggio era rimasto, per un lungo periodo (rifugiato in casa dei mezzadri dei Casoli, nel solaio), addirittura un generale italiano.

Prima l’avevano nascosto nella casa di Berzana, i Casoli, poi, in seguito ad una spiata, i nazisti erano andati là a cercarlo, avevano trovato un letto disfatto e il padrone di casa se l’era cavata dicendo che la moglie, incinta, aveva dei disturbi di salute e preferiva dormire sola e che quello era il suo letto. Così, lui era riuscito a scappare fino a Soraggio.

L’altro racconto è quello che riguarda il perché del mio nome.

Qui la colpa è di un colonnello: Augusto Berti (nome di battaglia “Monti”) che, nel ’45, capitò dalle parti di Soraggio in cerca della sua segretaria scomparsa. Mio padre aveva quindici anni e rimase profondamente colpito dalla figura di questa donna mai vista, soltanto immaginata, che il colonnello Berti stava cercando. Decise allora che, se da grande avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata con quel nome. E mi chiamò Normanna.

La paletta americana serviva, dunque, per accomodare la cenere contro l’imboccatura del forno, chiusa dal coperchio, aspettando che cuocesse il pane.

Più tardi, quando il pane era cotto e sfornato, si trovava il modo di non sprecare il caldo residuo.

Così, nel forno ci finivano anche “brasadelle” dolci e focacce salate con i ciccioli, che cuocevano meravigliosamente. E ci finivano le cassette di prugne ed amarene, già stese al sole a seccare per giorni sul tetto del pozzo; il forno le asciugava completamente, disidratandole, in modo che poi, ben chiuse nei sacchetti di carta, si conservavano per l’intero inverno nel “tricantun” di sala.

Preziosa e gustosa riserva di sali minerali a costo zero.

Il pane era frutto davvero del lavoro dei campi di tutta la famiglia, perché la farina era quella del nostro frumento portato a macinare al mulino del Fariolo: il mulino dei Santi.

Ricordo dei raccolti di grano di quaranta quintali; lo ricordo perché contavo le tacche incise su un bastoncino alla battitura, e quei quaranta quintali credo che fossero sufficienti per le nostre esigenze e per quelle delle nostre bestie.

Il mugnaio, Sergio Santi, era persona schiva, un gran lavoratore, silenzioso, discreto. Arrivava con il camion e scaricava la farina: quella per il pane e quella per le vacche. Con lui, tutti e due infarinati, il figlio Marco, della mia stessa età, che scendeva dal camion e, svelto, lo aiutava a trasportare i sacchi.

I Santi erano gente che stava bene, gente che aveva i mezzadri e la bottega, oltre al mulino, e la mamma di Marco era maestra. Eppure a Marco, che poi sarebbe diventato un ottimo medico condotto, non venne risparmiata l’esperienza del lavoro manuale, ritenendola, (probabilmente per il buon senso che caratterizzava quelle generazioni) formativa e indispensabile quanto la scuola.

Oltre alla pasta infilata nella scodella e destinata a diventare lievito, mia madre, spesso, prima di dare forma ai fili di pane, metteva da parte altra pasta, che poi stendeva con il matterello e friggeva in padella con lo strutto: erano le rotonde, morbide, squisite “carsente” che accompagnavamo persino con la frutta, l’uva, soprattutto.

La scodella, invece, tornava nel “tricantun” , in compagnia degli altri profumi.

Pasta madre, viva. Rinnovata settimana per settimana.

Una specie di morte e resurrezione che insegnava tanto e che era vera esperienza del senso profondo della vita.

7 COMMENTS

  1. Cara Normanna. Il tuo non è solo un racconto, come hai già fatto è la cronaca del lavoro della rasdora, completato da osservazioni, storie vissute, commenti personali rigorosi e completi. E’ sempre un piacere leggerti. La tua saggezza ha profonde radici contadine e hai ragione a fartene vanto… è sempre stata la scuola migliore. Complimenti!

    (Ilde Rosati)

  2. Ho letto ieri sera questo bellissimo racconto che mi ha riportato a tanti ricordi infantili. Oggetti, gesti, sapori e profumi che rimangono nella mente come segni indelebili. Come sempre bravissima Normanna per come li sai raccontare.

    (AnnaMaria Gualandri)

  3. Cara Normanna,
    grazie per aiutarci a riscoprire con dolcezza e commozione parole gesti e memorie sepolte dal tempo e dalla noncuranza. Si capisce come anche tu abbia avuto il privilegio dell’ascoltare racconti che ora riproponi con la stessa intatta musicalità, amando , direi quasi accarezzando le parole. Pensa che il generale Berti, Monti il nome di battaglia nella Resistenza dove anche mio padre combattè, spesso è passato da casa mia, ma non ci ha mai raccontato la storia della segretaria a cui si ispirò tuo padre per il bel nome che porti .
    E la passione per il pane appena sfornato con il suo profumo irresistibile?E la questione dello scambio del lievito madre tra le famiglie ti risulta? Altrimenti si sarebbe impoverito.
    La nostra vita è “impastata” anche di questi ricordi che tu ci aiuti a ri-scoprire!

    (Fiorella Ferrarini)