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Castelnovo / Imminente il ritorno nella chiesa parrocchiale della Pieve del grande Crocifisso restaurato durante gli ultimi due anni

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E' ormai imminente il ritorno alla Pieve del grande Crocifisso restaurato durante gli ultimi due anni. La statua, in terracotta policroma su croce lignea, versava in condizioni di grave degrado dopo secoli di incuria aggravata da pesanti interventi realizzati in passato a scopo di riparazione e di ripristino cromatico.

L'altare del Crocifisso è annunciato per la prima volta nella chiesa da un'annotazione scritta il 13 aprile 1690 dall'arciprete don Domenico Manini. Nell'elenco dei sacri arredi in dotazione si legge: “Crocifisso grande di terra incolorito con il casamento (ancona, ndr) di stucco”.

La chiesa, in quel tempo, era ancora l'antico tempio romanico a tre navate  presente alla Pieve almeno dall'undicesimo secolo. La nuova cappella fu ricavata nell'esiguo vano che si apriva sulla navata “dalla parte dell'Epistola” (cioè quella a destra guardando dal fondo), in corrispondenza del campanile. Oggi in quel luogo è posta la cappella dell'Immacolata Concezione, molto più spaziosa per le modifiche apportate alla chiesa durante la riedificazione iniziata nel 1713.

Il progetto dell'erezione della nuova cappella del Crocifisso, tuttavia, aveva preceduto di alcuni anni la primavera del 1690. L'idea doveva essere stata del suddetto attivissimo arciprete Manini che già nel 1667, con l'aiuto economico dei parrocchiani, aveva introdotto il culto di S. Antonio da Padova alla Pieve, fondandovi l'omonima cappella in luogo di quella della SS. Trinità rinunciata dalla già potente famiglia Pacchioni che, ormai avviata all'estinzione, non era più in grado di provvedere alle sue necessità. L'arciprete stesso commissionò e pagò di tasca propria alla bottega dei Ceretti di Casola di Montefiorino la mirabile ancona lignea che incornicia tuttora la pala del Santo.

Qualche anno dopo, dunque, don Domenico decise di erigere un nuovo altare, portando a nove il numero delle cappelle della chiesa. Lo fece elevando a piena dignità la piccola cappella, poco utilizzata e mai intitolata in precedenza, da sempre esistente fra l'altare di S. Antonio da Padova ed il transetto del S. Rosario. Al di sopra dell'altare venne posto il grande Crocifisso che diede il titolo alla nuova cappella. Prima di arrivare a questo, però, furono necessari anni di lavoro dei parrocchiani, poiché quell'angolo di chiesa, addossato alla torre ed (allora) anche al Battistero, doveva trovarsi ancora nelle condizioni fatiscenti in cui l'avevano lasciato la trascuratezza e l'abbandono del lungo periodo di commenda della Pieve conclusosi soltanto sul finire del secolo precedente.

Molti parrocchiani si strinsero al loro arciprete e costituirono una sorta di società impegnata a fornire i fondi e le braccia per la realizzazione della nuova cappella. Il 14 marzo 1682, ad esempio, Girolamo Zuccolini detto “il Cardinalino”, castelnovese assai conosciuto, devoto e benestante, fece rogare dal notaio Alessandro Silvi il suo testamento attraverso il quale lasciò la possessione (proprietà agricola con terre ed immobili, ndr) della Schiezza alle due Compagnie del Santissimo Sacramento e del Santissimo Rosario della Pieve “con quella dell'Altare del Crocifisso” il quale, evidentemente, già allora era in progetto o in costruzione.

Si potrebbe dunque pensare che l'artistico simulacro raffigurante il Titolare di quell'altare fosse stato procurato ed introdotto in chiesa proprio in quegli anni.

Però, dall'attenta analisi di un inventario redatto nel 1608 dall'arciprete Ambrogio Iattici su commissione del vescovo Claudio Rangone, si apprende che in quell'anno era dichiarato presente, nella cappella di S. Antonio Abate (la prima “dalla parte dell'Evangelo”, cioè a sinistra procedendo dal fondo), “uno Christho di stuccho”. Siccome tra gli altri sacri arredi sono elencati la “Statua di S. Antonio”, titolare della cappella, e la “Croce di legno dorato”, obbligatoria su ogni altare, appare evidente che il suddetto “Cristho di stuccho” non era là in funzione liturgica, ma come elemento  di ulteriore ornamento della cappella. Dovrebbe trattarsi proprio del nostro Crocifisso che, infatti, in sede di restauro è stato riconosciuto di palese fattura cinquecentesca (e, per questo motivo, il restauro si è protratto oltre il tempo inizialmente previsto).

Bisogna considerare anche che quella cappella, che a fine '500 era stata ripetutamente censurata  dai vescovi visitatori per le sue deplorevoli condizioni e che era priva di una famiglia patrona che vi provvedesse, fu presa in cura personalmente dall'arciprete don Ambrogio Iattici.

Questi, che prima di trasferirsi a Castelnovo nel 1576 era stato rettore di Coviolo, doveva conoscere bene le realtà della città di Reggio ed, in particolare, luoghi e personaggi presso i quali procurarsi manufatti d'arte, e magari a buon prezzo. Fu alla fine del XVI secolo, infatti, che egli portò alla Pieve la statua di S. Antonio Abate che, durante il recente restauro, è stata attribuita a Prospero Spani detto “il Clemente” (1516-1584). Fu ancora lui, con l'aiuto dei parrocchiani, ad arricchire la chiesa con il dipinto di Orazio Perucci (1548 ca.-1624) raffigurante S. Pancrazio. Ed allora dovette essere sempre lui a procurarsi il rarissimo Crocifisso ed a collocarlo proprio nella “sua” cappella di S. Antonio Abate. Va detto che la statua è ritenuta (ma, per ora, ancora in via ufficiosa) opera del  modenese Antonio Begarelli (1499 ca.-1565), maestro dello Spani o di altro scultore a lui contiguo.

Vale la pena, poi, riferire di un curioso episodio verificatosi il 31 agosto 1705, durante la visita pastorale del vescovo Ottavio Picenardi. Passando in rassegna le cappelle della chiesa e soffermatosi ad esaminare quella del Crocifisso, il presule denunciò che la statua presentava un'anomalia tanto evidente quanto indecorosa e tale da indurlo ad ordinarne un urgente restauro “pro maiori decentia et cultu”, cioè per maggior decoro e rispetto del Cristo raffigurato in quell'immagine. Ma il monsignore incaricato di verbalizzare la visita, ovviamente in latino, sbagliò e pasticciò un poco  nello scrivere, tanto da non consentire al suo elaborato di rivelarci con assoluta certezza se il difetto rilevato riguardasse il perizoma (“brachis”) oppure le braccia (“brachiis) del Gesù crocifisso. C'è voluto il restauro della statua per risolvere il “giallo”: da esso è emerso che il panneggio inguinale è tuttora quello originale, mentre abbondano le tracce di interventi successivi operati sulle braccia. Erano dunque queste ultime che il vescovo Picenardi, nel 1705, aveva trovato troppo corte (“indigentis”). Ciò significa che il Crocifisso, prima di allora, aveva subìto gravi rotture ed era stato riparato alla bell'e meglio. Non si può pensare infatti che l'autore, che ora sappiamo essere stato artista eccellente e prestigioso, avesse compiuto un errore tanto grossolano nel modellare le braccia di una statua che risulta perfetta in tutte le altre sue parti, a cominciare da quelle di più difficile e delicata esecuzione come, ad esempio, il volto. Le scarse braccia del Redentore vennero quindi sostituite con altre di dimensioni più adeguate, opera di un diligente scultore a noi ignoto.

Il Crocifisso, in effetti, dopo il 1615 era stato rimosso dalla cappella dove l'aveva collocato don Iattici e non se ne ritrova traccia nei successivi inventari della chiesa fino ai già ricordati documenti del 1682 e 1690. Sicuramente fu durante un incauto spostamento del pesante e delicato manufatto che esso subì i gravi danni di cui abbiamo riferito. L'oblìo che lo avvolse per buona parte del XVII secolo dimostra che, in quegli anni, non era ancora assurto alla meritata notorietà (cosa che peraltro accadde anche a tanti altri importanti artisti del tempo) colui che aveva realizzato il Crocifisso della Pieve, né si immaginava il valore di tale opera.

Agli inizi del XVIII secolo, dopo la riedificazione della chiesa nelle forme attuali, l'arciprete conte don Giovanni Paolo dalla Palude di Crovara portò l'altare del Crocifisso nella prima cappella a destra (partendo dal fondo) ove restò fino al 1838 quando l'arciprete don Giovanni Battista Caselli lo trasferì nuovamente, destinandogli la cappella in cui si trova ancora oggi. Probabilmente fu in occasione di uno di questi due ultimi posizionamenti che avvennero il cambio della croce lignea e l'inopportuna ed antiestetica amputazione del suo legno verticale.

(Corrado Giansoldati)

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