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Sanità: chi lavora in una relazione di aiuto non dovrebbe avere anche delle qualità umane?

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Voglio proporre una riflessione pubblica collettiva, non fare polemica.  Ho aspettato a scrivere perché non volevo uno sfogo "a caldo" ma bensì pensare a voce alta. Un po' di tempo fa ho dovuto ricorrere d'urgenza al 118 per un familiare. In un tempo molto breve, circa 10 minuti che sono sembrati comunque interminabili, è arrivata la Croce Verde.

Gli operatori gentilissimi e volenterosi hanno fatto il loro lavoro di primo soccorso con semplicità e umanità. Giunti al Pronto Soccorso ci accoglie rapidamente un medico, di cui non voglio dire il nome perché non è questo il punto, che non ci saluta nemmeno, e non si presenta.  La persona trasportata lì d'urgenza era visibilmente scossa e impaurita, in panico.

Il primo approccio è stato glaciale, asettico, impersonale e spersonalizzante.

Ora abitare in montagna dovrebbe offrire il vantaggio di una vita a misura d'uomo. Ben lontano dalle realtà descritte dal TG di ore di attese e negligenza. Infatti non c'era nessuno. Tuttavia dopo questo contatto sconcertante per fortuna arrivano due infermiere che spiccano subito per la loro gentilezza, cordialità e affabilità.

Un contrasto piuttosto evidente col medico di cui sopra.

Finito di fare gli accertamenti e le terapie dovute veniamo congedati in modo sempre molto freddo, sbrigativo e senza nessun rituale di commiato.

Per fortuna l'episodio si è risolto per il meglio.

Ma una volta a casa non ho potuto fare a meno di ripensare e riflettere su l'atteggiamento che alcuni, e sottolineo per fortuna solo alcuni, medici e dintorni hanno con i pazienti.

Se si sceglie di fare una determinata professione è perché si pensa di avere i requisiti per poterlo fare. Un bravo medico o chiunque svolga una relazione di aiuto, infermieri, educatori, insegnanti, oltre alla preparazione tecnica deve avere qualità umane. Che non vengono mai testate. All'università non è richiesto un esame in gentilezza, in accoglienza, in comprensione. Nemmeno in psicologia.

Non basta per un medico sapere il dosaggio di un farmaco, come non basta per un maestro conoscere il verbo essere, o la geografia.

Quando ci si approccia a un essere umano, in più in difficoltà, occorre essere dotati di una qualità essenziale imprescindibile: l'empatia.

Occorre sapesi porre nei panni di e saper mentalizzare lo stato d'animo dell'altro, conoscere un alfabeto emotivo e le sue sfumature. "Io se fossi lì come vorrei essere trattato?" Invece spesso chi fa queste professioni, soprattutto se ricopre una carica nel pubblico impiego, (il famoso posto fisso!) si adagia in una sorta di routine anche emotiva, che spesso sconfina nel BURN OUT (esaurimento professionale), attento magari soprattutto agli aspetti tecnici, dimentico degli aspetti umani, psicologici altrettanto importanti.

Diventando così una sorta di casta di eletti intoccabili, a cui buone maniere e calore sembrano non essere richiesti.

Per fortuna c'erano in quel contesto persone che tutto questo invece lo possiedono come risorsa personale.

Ci sono medici meravigliosi per la loro capacità umane, educatori che non sono meri trasmettitori di contenuti ma che ci credono davvero.

Sapersi rapportare all'Altro presuppone attenzione e comprensione.

Per chi invece ne è sprovvisto non sarebbe meglio occupare un altro ruolo, magari in un laboratorio, non a contatto col pubblico?

Colgo l'opportunità per ringraziare Ilona Fekete della Croce Verde e la sua squadra di quella sera. E le infermiere del Pronto soccorso Lucia Dallari e Elisabetta Guidetti.

Lettera firmata

9 COMMENTS

  1. Io penso che come sono state citate le infermiere per il loro ottimo modo di fare si poteva anche citare il nome del medico; non deve sembrare un’offesa se si è comportato male; perché non dire il nome, magari può attivare un esame di coscienza utile anche al medico.

    (Luigi Sesto Borghesi)

    • Ci risulta che abbia ricevuto diverse segnalazioni. Ma la personalità non si cambia, il medico in questione se non ha finora appreso che ci si presenta e che se un paziente è in panico magari lo si guarda in faccia, non gli si alza la voce. Magari invece un saluto e una frase di rassicurazione può essere utile. Ma se non lo ha imparato, non lo apprenderà ora. Lo scopo di questa riflessione non è far cambiare il comportamento al medico, se uno non ha empatia, calore, non lo può improvvisare. Lo scopo è creare una coscienza in chi legge. Occorre selezionare il personale, in base ai requisiti. E requisiti per fare il medico sono ANCHE la capacità di accoglienza e l’attenzione alla persona. Invece spesso alcuni medici, non voglio banalmente fare fasci di erba, vagano a un metro da terra, tronfi e supponenti nei loro camici, e si arrogano il diritto in base al loro ruolo da fare il bello e brutto, di potersi permettere di trattare in modo brusco e sbrigativo, senza nemmeno dire cosa stanno facendo al paziente. Sono questi i modi? E perché? Visto i chiari di luna con i posti di lavoro, a mio modesto avviso, se un medico come chiunque altro, dimostra di non avere le qualità necessarie, lasci il posto a chi merita di più. Invece nessuno seleziona le capacità relazionali dei medici e affini. Leggere libri di testo e ripeterli davanti a una commissione di esame è un conto. Sapersi rapportare al pubblico, tutta un’altra cosa. Finora la classe dei medici è stata venerata, nella piramide dello status sociale essi sono inarrivabili. Ma proprio per la delicatezza del loro operato vanno regolamentati e richiesti alcuni requisiti. Altrimenti restino a fare ricerche sui libri. Il medico in questione non si è presentato a noi famiglia. Lungi da me ricordarne il nome e consegnarlo anche in questo semplice articolo all’immortalità. Che resti insignificante, come si è posto. Ci penserà la vita. Chi non ha cuore non lascia tracce. Né merita di essere nominato.

      (commento firmato)

  2. E’ capitato anche a me, credo sia sempre lo stesso medico, non è riuscito neanche a fare un cenno di sorriso o dire una semplice parola di conforto a una bimba ferita di 4 anni… Per fortuna c’era un’infermiera molto molto gentile e umana che provava a calmare la bimba, un’altra invece che aveva solo fretta di terminare la cura facendo battute che la agitavano ancora di più! Sono rimasta anche io delusa dalla poca umanità di alcuni operatori anche se professionalmente penso abbiano eseguito il loro “lavoro” nel migliore dei modi.

    (Commento firmato)

  3. Personalmente credo che l’educazione e la cortesia debbano essere proprie di ogni persona, indipendentemente dalla posizione che rivestono, sebbene in certi luoghi “caldi” se ne percepisca maggiormente il valore. Questo vale sia per chi eroga un servizio ma anche per chi lo riceve. Non ci dovrebbe essere bisogno di un esame universitario per apprendere la cortesia ma l’educazione che ci si aspetta da un medico dovrebbe essere la stessa di quella del panettiere o del giornalaio o dello studente. Senza entrare nei meriti della questione, che non conosco, mi viene spontanea anche un’altra considerazione e guardare l’altra faccia della medaglia. Non credo che il lavoro del pronto soccorso sia tra i piu’ “leggeri” di questo mondo e noi siamo ancora fortunati!!!! Ogni giorno i medici vedono un sacco di facce che non conoscono, alcuni cordiali e tranquilli ed altri che insultano, o, nei peggiori dei casi, feriscono gli operatori senza motivo (la cronaca ne è piena).
    Si devono gestire situazioni drammatiche, talvolta nel giro di pochi minuti e mantenendo sempre il sangue freddo che probabilmente mancherebbe a molti di noi. Molta gente si rivolge all’ospedale per prestazioni che non necessitano di tale livello di cura e da qui l’elevato numero di prestazioni che i pronti soccorsi italiani devono cercare di soddisfare. Le ore di lavoro sono tante e il personale talora carente. Da qui al burn out il passo credo sia breve e spesso capibile.
    Io non dico che i medici e gli operatori vadano osannati ma attenti a condannare facilmente le persone perche’ i motivi di una scarsa empatia possono essere davvero tanti.
    Il famoso dottor House direbbe che tra un medico gentile e incompetente e uno scorbutico che sa fare il suo lavoro è meglio quest’ultimo.

    (Alberto)

    • Dove sta scritto che un professionista O è gentile O è bravo? Lo lasci dire al dottor House. Nella realtà chi sa fare un mestiere impari educazione, gentilezza. E se non riesce a reggere il burn out non se la prenda col paziente.

      (fp)

  4. Ovviamente era una battuta… e comunque da quanto scritto con mi sembra che qualcuno se la sia presa con il paziente. Comunque la prossima volta che qualsiasi persona o professionista (qualunque esso sia) non sarà carino con me aprirò un post… visto che, se non sbaglio, siamo tutti uguali.

    (Alberto)

  5. Mi è uscito in Google cercando Burn out questo documento dal sito dell’ordine degli infermieri di La Spezia
    http://www.ipasvi.laspezia.net/pubblicazioni/newsletter/burnout.pdf

    DEFINIZIONE
    Il burnout o sindrome da burnout è un processo stressogeno legato alle professioni d’aiuto (helping profession). Queste sono le professioni che si occupano di aiutare il prossimo nella sfera sociale, psicologica, etc. Si parla quindi di infermieri, medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, preti ecc. Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro stress personale e quello della persona aiutata. Ne consegue che, se non opportunamente trattate, queste persone cominciano a sviluppare un lento processo di “logoramento” o “decadenza” psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato. Letteralmente burnout sigifica proprio “bruciare fuori”. Dunque è qualcosa d’interiore che esplode all’esterno e si manifesta.
    DESCRIZIONE
    Burnout è il “non farcela più”, l’insoddisfazione e l’irritazione quotidiana, la prostrazione e lo svuotamento, il senso di delusione e di impotenza di molti lavoratori, in particolare di quelli che operano all’interno delle cosiddette professioni di aiuto, ossia di attività nelle quali il rapporto con l’utente/cliente ha un’importanza fondamentale in termini di significato e di lavoro in sé. Tutte le professioni socioassistenziali implicano un intenso coinvolgimento emotivo: l’interazione tra operatore ed utente è centrata sui problemi contingenti di quest’ultimo (psicologici, sociali o fisici) ed è, perciò, spesso gravata da sensazioni d’ansia, imbarazzo, paura o disperazione. Poiché non sempre la soluzione dei problemi dell’utente è semplice o facilmente ottenibile, la situazione diventa ancora più ambigua e frustrante e lo stress cronico può logorare emotivamente l’operatore e condurlo al burnout. Questo viene normalmente definito come una sindrome di esaurimento emotivo, di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale, che può insorgere in coloro che svolgono una qualche attività lavorativa “di aiuto”: dunque uno stato di malessere, di disagio, che consegue ad una situazione lavorativa percepita come stressante e che conduce gli operatori a diventare apatici, cinici con i propri “clienti”, indifferenti e distaccati dall’ambiente di lavoro. In casi estremi tale sindrome può comportare gravi danni psicopatologici
    (insonnia, problemi coniugali o familiari, incremento nell’uso di alcol o farmaci) e deteriora la qualità delle cure o del servizio prestato dagli operatori, provocando assenteismo e alto turnover.
    Pur essendoci definizioni diverse della sindrome del burnout gli autori concordano nel considerarlo non un evento, ma un processo che si sviluppa diversamente a seconda delle peculiarità soggettive e del contesto sociale.
    In conclusione è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le helping profession qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. La sindrome del burnout nel personale della sanità, considerato anche la rilevanza sociale del fenomeno, sta riscontrando un notevole interesse da parte della letteratura psicologica e psichiatrica. Gli effetti dello stress lavorativo sulle condizioni di salute dell’operatore sanitario ed i conseguenti
    rischi di burnout coinvolgono numerosi fattori che si sviluppano diversamente in ogni individuo e/o in ciascuna categoria professionale. L’azione patogena degli stressors protratti nel tempo, argomento su cui è
    ormai disponibile una ampia casistica sperimentale e clinica, anche se originariamente ristretti all’ambito lavorativo, può determinare reazioni disadattative che si estendono alla sfera extralavorativa fino a favorire l’insorgenza di quadri nevrotici o depressivi.

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    Credo che l’autore di questo intervento abbia le idee poco chiare sul fatto che si è vittime del Burn out e che non è dato da un adagiarsi pigramente nel posto fisso. Sicuramente la gentilezza e il sorriso verso gli altri sono auspicabili in ogni attività lavorativa e non. Ma a volte sarebbe utile anche un po’ di comprensione dell’impegno gravoso richiesto a certi lavoratori che spesso non ricevono gratitudine per il loro buon operato ma si trovano a confrontarsi con persone che pretendono da loro anche l’impossibile. Chi è stato curato al Pronto soccorso è guarito, la “casta di eletti intoccabili” è ancora alle prese con grosse responsabilità e impegni gravosi spesso non riconosciuti. Sono umani anche loro, con pregi e difetti come tutti.

    (Commento firmato)

  6. Gentile commento firmato che riporta il testo sul Burn Out, sono l’autore della proposta di riflessione. Non ho volutamente specificato nei dettagli l’accaduto poiché lo scopo non era quello di innescare qui una querelle personale. Sono a conoscenza dell’URP. Come ho già detto i miei erano solo pensieri a voce alta, senza grida, offese, né scandali, né processi. C’è molta paura di parlare, di dire le cose come stanno. Per ripercussioni anche sottili… Signor Alberto scriva anche lei le cose che pensa, sicuramente il coro sociale trova spazio nei toni pacati per tutti. Ribadisco e qui chiudo la vicenda per quanto mi riguarda: se vogliamo osservare come vanno le cose, spesso ci si dimentica della persona, e anche di se stessi. L’inconsapevolezza ci porta a camminare sul mondo come viene viene. Soprattutto se non ci si ferma a guardare se stessi. Rendersi conto di come ci si pone è già un bel rendersi conto. Il Burn Out so bene cos’è, mi creda. Proprio perché lo conosco bene mi permetto di invitare chiunque lavori col pubblico a riflettere. Nessuna categoria esclusa. Fornai, docenti, sanitari, operatori. E certamente mi includo in questa riflessione. Ma bisogna stare molto attenti. Pur di non mettersi mai in discussione e interrogarsi su come ci si pone, si procede nella vita per meccanismi proiettivi. Se si è stressati è colpa dell’utente pretenzioso e esigente. Senz’altro il mondo è pieno di inconsapevoli. Di persone maleducate, grossolane, boriose. Che siano laureate o no. Tuttavia un ruolo, oltre che dare diritti, implica anche doveri. Chi fa una professione che comporta una relazione d’aiuto è tenuto ad accogliere il dolore, la paura. E’ tenuto oltre che fare una flebo anche a prendersi carico della persona che non è un pezzo di legno buttato sul lettino. Altrimenti ci si depersonalizza. E il senso di estraniazione è uno degli indicatori del test della Maslach sul Burn Out (http://www.psyjob.it/burnout.htm). Senza voler insegnare nulla a nessuno, senza volere codici speciali né tappetti rossi, verdi o blu. Ricordiamoci soltanto che se lavoriamo con le persone, come tali devono sentirsi riconosciute. Per prevenire e ovviare al Burn Out che può subentrare si facciano le dovute riflessioni. Che non spettano al paziente di un pronto soccorso spaventato e sofferente.

    (Commento firmato)