QUATTRO SALTI IN... CARBONAIA.
Oggi il Venerdì sera è dedicato alla musica e al ballo nelle discoteche. A volte, anzi spesso, anche allo sballo. Un tempo non era così. Bella forza, direte voi! A quei tempi non c’era la corrente elettrica. Di conseguenza mancavano tutti gli strumenti che da questa traggono energia, a cominciare dalla più importante, la luce in sala. Una cosa però l’avevamo anche noi, e anche i nostri zii e genitori: la voglia di ballare fino allo sfinimento. Quelle poche volte che lo si poteva fare serviva da liberazione, da gesto scaramantico contro la fatica accumulata durante la settimana.
Ma dove andare? Cosa inventare? Al mio paese si riusciva a mala pena ad organizzare un veglione per la sagra: un rettangolo di tavole rimediate su alla meglio, neppure piallate; il perimetro sbarrato con frasche di castagno per evitare che chi non voleva pagare il biglietto si godesse gratis lo spettacolo seduto a pochi metri; dei suonatori che esaurivano in meno di un’ora il repertorio e lo ripetevano poi all’infinito per arrivare alle ore piccole. L’articolo di cui non vi era carenza era il vino fatto in casa, quel vino definito lambrusco, (ma forse sarebbe stato meglio dire solo brusco). Quel vino che autorizzava il produttore a vantarne le qualità, messo a disposizione non subito ma dopo che Bacco aveva già prodotto i primi effetti, quel vino che, magari, veniva offerto, sotto sotto, in occasione del veglione per liberarsene, facendo comunque bella figura.
Il primo veglione del dopoguerra fu collocato nell’aia di Rìch, appena fuori della borgata. Ma questo, come detto, avveniva solo per la Sagra. Qualche volta i giovani del borgo andavano anche lontano, di notte, dove si sapeva che c’era una festa e che avrebbero organizzato i tipici quattro salti.
Ma subito dopo la guerra qualcosa si è mosso. Il senso di libertà, di potere decidere in proprio, si stava facendo strada. Casualmente ci fu un altra circostanza a smuovere le acque. Giù, nella stretta vallata dove il Rio Maillo si affaccia a Fergnola, c’era il mulino Rosati, definito semplicemente Al Búj. Cosa poi significasse realmente quel termine ancora non l’ho scoperto. Certamente allude ad uno spazio stretto e oscuro, ma l’aggettivo Buio non passa in dialetto pari pari. A me evoca immediatamente l’oscurità e lo spazio angusto del bugno delle api (in dialetto suona sempre Búj). Ma dove c’è buio c’è anche freddo. E allora potremmo tirare in causa il vento di Bore, vento freddo proveniente dal settentrione.
La località consisteva in un unico opificio, non antichissimo: vantava circa settanta anni allora, ma per l’industriosità dei giovani componenti della famiglia quel luogo poteva essere paragonato ad un piccolo centro industriale. L’acqua del torrente veniva sfruttata al massimo. Uscendo dal bottaccio l’acqua azionava subito le macine (mi pare fossero tre), poi una dinamo per produrre corrente elettrica (residuato bellico americano), quindi una sega a nastro per fare tavole o legna, e subito dopo un banco che poteva fungere da tornio, da pialla o da altri attrezzi. Il ciclo si concludeva con una vasca che veniva utilizzata per macerare la canapa. Sempre lì, al mulino, capitava spesso che l’ampia cucina si tramutasse in sala da ballo per Carnevale o in altre occasioni. C’era infatti, tra quella squadra di giovanotti, uno che aveva scelto di imparare a suonare bene la fisarmonica. Già il padre e il fratello strimpellavano, da autodidatta. Berto invece si era imposta una vera disciplina per riuscire bene. Nelle domeniche normali di bella stagione i giovani dei borghi vicini, chi per un sentiero, chi lungo una carraia, si trovavano in una carbonaia nella Fratta, oltre il crinale, sopra il mulino. Da lì era meno facile che al paese si sentisse la fisarmonica. Meglio non dare ai vecchi l’occasione per brontolare. Ma la spia la facevano poi i piedi, sporchi di polvere di carbone, quando i giovani rientravano per governare le mucche. E lì si recava Berto ad esperimentare i primi valzer, provati e riprovati durante la settimana.
La fisarmonica Berto l’ha cambiata, e anche più di una, ma lui continua imperterrito, dopo oltre sessanta anni, a macinare valzer e mazurche. Qualcuno, parlando appunto di Berto, ha sottolineato che “è stato la colonna sonora del nostro Appennino” e che, ballando al suono della sua fisarmonica, molte coppie di giovani hanno poi costruito una famiglia.