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Dedicato ai montanari e alla loro storia

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Riceviamo e pubblichiamo.

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Ho letto con grande partecipazione le parole di Normanna e Dalmazia sul passato, la storia piccola, la storia di tanti. Le ho trovate un soffio leggero e caldo su quell’insieme di suggestioni, emozioni e ricordi che spezzettati rappresentano la memoria di un singolo, di una famiglia, ma tutte insieme diventano la memoria di una collettività. E, allora, mi è venuta voglia di intervenire su questo argomento, la memoria. Ci tengo molto, perché credo che sapere cosa si è stati significhi molto di più che ricordare un tempo passato. Credo che significhi trovare il filo sottile che lega il sistema di valori di un singolo, di una famiglia, di una collettività.
Nella sua lettera Dalmazia ricorda mio padre, Sveno Manari, un maestro d’Appennino che ha svolto il suo lavoro con passione e con lo sguardo sempre rivolto ai ragazzi. Io lo ricordo con un bel sorriso stampato in viso. Credo lo ricordino così in tanti. Ma, soprattutto, lo ricordo per quelle serate interminabili nelle quali sentivo lui e mia madre parlare di loro, i benedetti ragazzi dei quali quasi quasi ero gelosa. Il richiamo a mio padre, del quale ringrazio Dalmazia, mi aiuta però anche a esprimere un concetto. Quando parlava del lavoro di un maestro Sveno Manari usava spesso un’espressione che può sembrare curiosa: “a un bambino della montagna la scuola deve insegnare quanto fa 2+2, ma anche come fa il nido il merlo”. Era, questa, non una battuta spiritosa, bensì una metafora sottile per definire un ruolo della scuola che doveva andare oltre a quello del 2+2, per divenire occasione di crescita, luogo dove stimolare il senso di cittadinanza e di appartenenza di un giovane cittadino che cresce. Nella scuola di Busana, in quegli anni attorno alla metà degli anni '60, andavano carbonai a raccontare come si costruisce una carbonaia, pastori a parlare del loro lavoro con le pecore… Oggi, con un’espressione che ormai è divenuta accademica, questo modo di fare scuola immaginando che il territorio abbia un ruolo importante nella formazione di un ragazzo, si definisce “comunità educante”.

Ecco, sono partita dal lavoro di quel maestrino d’Appennino per condividere alcune, umili, riflessioni proprio sulla memoria, sul suo legame con l’identità e sull’importanza strategica che ha nella conservazione di un sistema di valori. Nella lettera e nei ricordi di Dalmazia ho provato qualcosa di struggente, ma credo che la memoria possa essere alimentata anche in una prospettiva che va oltre la rimembranza o la celebrazione di un qualcosa di morto. E’ giusta la riflessione cardine sulla quale poggia la lettera di Dalmazia: “ci saremo solo noi a parlare di queste cose?”, ma credo che si possa e si debba fare un passo in avanti.

Quando mio padre portava a scuola i pastori o i carbonai o il vecchio Merio che sapeva tutto del paese faceva una considerazione che mi piace condividere. Diceva che in quel modo avrebbe fatto conoscere ai ragazzi il loro passato, i vecchi mestieri, le antiche abitudini, e in questo senso avrebbe fatto un’operazione di memoria. Ma, a questa considerazione ne aggiungeva un’altra che credo rappresenti uno spunto di riflessione e un punto di vista ancora attuale. Diceva che se i ragazzi avessero visto il loro nonno o il loro padre a scuola, in un contesto nel quale il loro lavoro, con una brutta espressione definito “umile”, fosse stato la lezione di quel giorno, allora non si sarebbero vergognati delle loro origini. Condivido molto questo punto di vista, forse perché in casa mia mio padre riempiva l’etere di storie sulla nostra famiglia, sui vecchi, sul paese... Ma si trattava di storie di gente d’Appennino, di gente umile, di contadini di Casa Manari o di Marmoreto. Devo molto a quegli interminabili racconti. Mi hanno regalato forse una coscienza di classe (la mia gente è la gente semplice) e mi hanno reso orgogliosa delle mie origini.

Molto tempo è passato da allora . Mi sono laureata, guarda caso in storia, e lavoro in Consiglio regionale, dove seguo i progetti di cittadinanza attiva che questa istituzione realizza in collaborazione con le scuole. Ma sono anche membro dell’associazione Amanzio Fiorini, che in Appennino è nata e vive per valorizzare il lavoro del fotografo di Nismozza, ma più in generale per parlare di memoria e di identità senza paura. Nella mia veste di studiosa di storia ho scritto alcuni libri sull’Appennino ma poi ho condiviso con altri l’importanza di mettere a disposizione della comunità quanto imparato altrove.

E allora ecco il tema della memoria declinato nel suo legame con il presente nell’iniziativa che ha voluto raccontare la storia dell’acquedotto rurale Ventasso di Busana che da quaranta anni porta l’acqua nelle case. Pochi in paese ne conoscevano la storia. Pochi sapevano che è stato scavato a mano dagli uomini di Busana per un tratto di 9 chilometri dal Ventasso al paese; pochi sapevano dove erano state captate le sorgenti e chi erano quegli uomini. Un lungo elenco di uomini nei nomi dei quali ciascuno di noi ha sentito quello di suo padre o di suo nonno.

Anche questa è memoria e non necessariamente una memoria che svapora. Così come è memoria realizzare una serata nella quale parlare della storia di Nasseta per poi scoprire che un intero paese, Acquabona, si fa carico di andare a ripulirne i ruderi. Anche questo è memoria. Si fa memoria tutte le volte in cui si parla di un avvenimento del passato per capire perché e cosa è successo. Perché forse qualcuno può oggi pensare che sia anacronistico parlare di guerra e genocidi, ma quello che è successo in Rwanda o in Bosnia non è molto lontano.

Fare memoria e parlare del passato significa interpretare il presente. La malinconia di Dalmazia per quel passato non credo sia legata ai singoli frammenti di esso ma ad un modo di essere e di vivere che era in equilibrio. Senza fare della retorica si può affermare che si tratta di sguardi su un mondo che aveva regole, patrimonio condiviso e senso di comunità. Credo sia questa la percezione che deve trasparire là quando si fa della memoria. E’ ricordare a tutti noi e al nostro Appennino che la nostra storia è una storia importante perché è quella che ha consentito di conservare la nostra terra.

Nella mia storia personale questo è il bagaglio che mi porto dentro e che convive, benissimo, con il peperoncino sul pomodoro e la piattezza della pianura che, ora, non mi fa più paura. Ora amo anche lei, perché il cuore, così come l’identità, non è fissità ma un continuo divenire che si alimenta degli incontri che fai. Credo che si possa andare ovunque ed essere liberi di diventare altro, quando si sa chi si è stati e su quali regole e valori si è fondata la comunità che ti ha generato.

Oggi che in Consiglio regionale porto ragazzi che raccontano come e perché hanno deciso di ridipingere loro la piccola stazione dei treni del loro paese perché degradata, dimostrando che ci si può assumere una responsabilità nei confronti di una comunità anche se giovani, oggi che assieme ad altri cerco di raccontare storie d’Appennino credo che investire sulla memoria significhi investire sull’identità. Ma credo anche che esistano responsabilità ben precise, in questo cammino, che chiamano in causa il singolo, ma anche la scuola e le istituzioni.

Vorrei terminare questo piccolo contributo con una suggestione, che dedico a tutti i montanari. Si tratta delle parole scritte da un inglese di ritorno da un viaggio nell’Appennino reggiano compiuto all’inizio del secolo scorso: “Di certo questa gente ha su di sé una benedizione, generata dalla loro semplice vita. Tutti hanno gli occhi gentili e senza paura. Il cuore è pieno di canti e di memorie del loro paese natio. In viso hanno il sorriso e la malinconia”.

A tutti i montanari dedico queste parole che parlano di cuori pieni di canti e di memorie e di visi con il sorriso e la malinconia, due sentimenti di una delicatezza infinita.

(Rosi Manari, funzionario del Consiglio regionale e responsabile dei progetti di cittadinanza attiva, storica del territorio, membro fondatore dell’associazione Amanzio Fiorini)

 

1 COMMENT

  1. Rosi, sei fantastica, hai saputo interpretare i sentimenti di tutti i montanari con semplicità e chiarezza. Concordo perfettamente con quanto scrivi e, come insegnante con i miei alunni, sto lavorando al progetto sulla cittadinanza proprio per dare loro il senso di appartenenza, di Stato e di montanari con un ricco bagaglio culturale da scoprire.

    (Esterina Fioroni)