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Incontro al castello delle Gazze

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Il sentiero nel bosco era scosceso e viscido, bisognava scendere con molta circospezione, una semplice distrazione poteva costare cara. Ma dopotutto ne era valsa la pena, pensava fra sé Goffredo, quei luoghi erano carichi di fascino, giusti per un tuffo solitario in un mare di verde e per una bella trovata di funghi porcini. Era un fresco mattino di fine estate, il primo di bel tempo dopo giorni di temporali, in una zona impervia e solitaria dell’appennino reggiano lungo la valle dell’Enza.

Ai lati del viottolo piccole spianate erbose lasciavano intravedere famiglie di amanite rosse sotto a cespugli di ginepro, fra profumi di terra umida e di resina. In lontananza si udiva il bramito di un maschio di capriolo, che segnalava la presenza di un intruso sul suo territorio, unico rumore oltre a quello dei suoi passi.

Goffredo amava andare a funghi, una passione acquisita fin da bambino, sensazioni da condividere, quando era possibile, in compagnia. Quel giorno era solo.

Stava ormai giungendo alla meta, il pendio di colpo era cessato e di fronte si stagliava una grande salita che portava ad una sommità, modellata dalle mani dell’uomo.     Man mano che saliva il sentiero si apriva, fino a giungere al culmine di un pianoro che il bosco si era ripreso. Il Castello delle Gazze, luogo ora spoglio del suo passato e dei suoi ricordi, senza più tracce delle antiche vestigia, sottratte dall’uomo e dal tempo. Un posto che sprigionava sensazioni profonde, uno di quelli di cui una volta si mormorava che “ci si sentiva e ci si vedeva”, dove si poteva provare la sensazione di essere osservati. In questo silenzio era più facile lasciarsi trasportare dalla propria mente, le situazioni reali si potevano mescolare ad immagini e a ricordi stipati al fondo della memoria, percezioni che viaggiavano su un’altra lunghezza d’onda.

Una circostanza che quel giorno si era fatta forte, che gli stava accelerando i battiti del cuore, più forte del suo autocontrollo.

Aveva intravisto qualcosa di strano, l’ombra di un individuo che lo stava osservando, immobile, in piedi appoggiata al fusto di un vecchio faggio. Un essere impalpabile, nascosto da una tunica che lasciava intravedere un viso scavato, con una lunga spada al fianco. Che aveva cominciato a parlare…
“Chi sei tu, uomo di un tempo che io non ho mai vissuto, che calpesti questo luogo solitario e selvaggio, suolo sacro al ricordo e patria dei miei avi?”

Un senso di paura e d’angoscia verso sé stesso lo stava trasportando in una dimensione sconosciuta. La sua mente non riusciva più a distinguere un tronco di un albero da una figura medioevale.!

E la voce aveva continuato. “Come puoi tu sentirmi, quando vago invano dalla notte dei tempi alla ricerca di qualcuno, di un’approdo che per me non può più esistere, da quando il mio tempo è scaduto? Cosa rappresenti tu che vesti di abiti stranieri, di stoffe sconosciute, che hai da poco parlato a un pezzo di metallo dai suoni trillanti e magici? E cos’è quel drago che solca il cielo, più rumoroso del tuono? Com’è cambiato il mondo, dal mio tempo, quando le primavere e gli inverni ti si stemperavano addosso, quando le stagioni scandivano il ritmo della vita?

Com’era esaltante quella mia primavera di fanciullo, quando le macchie intorno a Gottano esplodevano di fiori e di colori, e com’era azzurro il cielo sopra il fiume Enza che scorreva là sotto, un tumultuoso scroscio d’acqua cristallina che trasportava perle di petali bianchi, di biancospino, che si lasciavano fluitare sulla spuma e velocemente scendevano a valle..

Con il mio amico Bartolo andavo spesso verso il fiume, lasciando la Bianchina e la Bigia, le mie due pecore, a pascolare sopra il Vidicello.

Quella mattina lo zeffiro soffiava dalla parte del Lagastrello, gonfiando le nostre vesti e la voglia di volare ci aveva spinto ancora giù verso il fiume, dove gli uccelli costruivano i propri nidi. Li volevamo spiare, noi cacciatori di piccole prede e di storie fantastiche, di draghi fiammeggianti e di fate, di ninfe che sorgevano dalle acque..

Sul sentiero che scendeva ripido all’improvviso ci comparvero a terra due corpi aggrovigliati che sembravano stessero lottando, per poi fermarsi come in un’estasi divina..

Il fuoco della passione, come lingue abbaglianti che si ergevano alte nel camino di casa, quando mia madre accendeva una fascina e i guerrieri lanciavano dardi ardenti verso il cielo sui loro cavalli alati, fra crepitii e “falistre”portati da mago Merlino..

E la contemplazione di un cielo turchese sulla valle del Lonza, fra voli di rondini e il profumo di lilla’, al tramonto del sole, quando tutto ti faceva pensare a un domani migliore dell’oggi..

La scoperta dell’amore, che d’un tratto mi aveva fatto crescere, quel mattino di primavera del dodicesimo secolo”.

E Goffredo si sentì di rispondergli. “Io sono un uomo del mio tempo e del tuo futuro, un uomo di questa valle, nato come te, parte di una storia infinita. Ci guida lo stesso legame, la certezza di originare da una terra aspra e dura, ma che ha sfamato le genti, una terra meravigliosa che ci rimarrà sempre dentro, come ultimo nostro ricordo. Dove però le ingiustizie non sono state superate, dove la speranza di un futuro migliore è vacillante e tanti uomini da essa si devono staccare per andare lontani a cercare fortuna”.
L’ombra dopo un breve silenzio riprese a parlare.”Dunque, questa terra non si è ancora redenta del tutto, anche se ha vinto tanti dolori, violenze e soprusi!
La vita al mio tempo era dura, come il pane raffermo che conservavo gelosamente per le giornate nelle quali la fame mordeva lo stomaco e le castagne dell’autunno erano già marcite, quando il vento fischiava e faceva paura e il gelo ti crepava le mani.
Marta mia moglie gemeva su un giaciglio di foglie secche, nei dolori di un parto che non sarebbe mai avvenuto, urla nella notte che nessuno avrebbe udito, che mi supplicava di aprirle il ventre, per salvare il suo bambino. E lei nella fredda e  nuda terra, che terra ritornava nel silenzio e nel gelo.
La voglia di sopravvivere, la volontà di continuare, nonostante tutto.
Dalla sommità della chiesa di Montalto a Gottano vedevo bagliori su torri d’avvistamento lontane, poste sui monti lungo la valle dell’Enza, giù verso Rossena e fin su verso il Lagastrello.
Messaggi della Grancontessa Matilda che bucavano la notte, che da Canossa alla Tuscia annunciavano la discesa di Enrico Imperatore.
Anche il castello delle Gazze era illuminato, quel maniero in cui un giorno avrei vissuto, dopo che scudiero avrei servito in battaglia Azzo da Nigone, battendo la grande pianura padana e le asperità dell’appennino, condividendo la paura e l’odore del sangue.
La grande battaglia di Bianello, quando la vassalleria matildica, partendo da castelli, da rocche, da alture,  prese a tenaglia le orde imperiali e io salvai il mio signore, da cavallo caduto.

Ugolino, signore del castello delle Gazze, su un dirupo della valle dell’Enza! Quale onore mi riservava la vita, io che a quarant’anni avevo già percorso gran parte del mio viaggio..

Campogrande mi dava il grano, il podere di Garzane le castagne, la frutta, gli armenti e il buon latte che i miei servi mi facevano trovare tutte le mattine.

Amavo restare in solitudine, perchè in questo mare verde, in questa selva sconfinata, i miei pensieri volteggiavano come le fronde degli alberi al levarsi della brezza dalla parte del fiume.

E pensavo a Marta, a come poteva essere stata la mia vita con lei, quale destino mi aveva riservato la sorte, miseria e nobiltà in questo lembo di terra, per me, ombelico del mondo.

D’inverno, dall’alto della torre, nel grande candore della vallata, ogni rumore si attutiva, il freddo pungente mi penetrava dalla pelle fin dentro le ossa. Che fosse questo l’inizio della fine?

Gli scheletri bruni delle querce e dei castagni accoglievano branchi d’uccelli, corvi che in volo giungevano gracidando nel cielo grigio che prometteva ancora la neve. Si posavano vicini ai comignoli fumosi, in cerca di tepore. E stridevano ancora, spezzando il silenzio tombale della valle, dove anche l’acqua del fiume era soffocata dal ghiaccio.

E un giorno vidi da lontano un gruppo di uomini a cavallo, avvolti da neri mantelli, che avanzavano a stento nella neve..

Il mio ultimo pensiero fu il desiderio di potere un giorno rivedere questi luoghi.

Nulla di allora è rimasto in questi posti, solo questo colle a picco sull’Enza. Ma il mio cuore qui è rimasto e qui vuole tornare per sempre”.

Le parole si erano sciolte nell’aria, in un silenzio assordante. Col bastone che stringeva fra le mani, Goffredo colpì violentemente più volte una roccia affiorante, per sentirsi di nuovo nella realtà. Davanti a lui, fra l’erba tagliolina era comparsa la sagoma di un fungo porcino.

(Renzino Fiori)

7 COMMENTS

  1. Complimenti Renzino!
    Dopo aver letto le prime dieci righe ho capito che eri tu l’autore del brano.
    Bravo, spero che pubblicherai anche questo, insieme a tanti altri brani non ancora raccolti e a nuovi che continuerai a scrivere.

    (Gigi)

  2. Caro Renzino, sarebbe banale farti semplici complimenti. In pochi hanno la sensibilità che consente di vivere il presente avvertendo le ombre di un passato indotto dalla cornice naturale dei tuoi monti della natura e dei ricordi. E in pochissimi sono in grado di metterlo per iscritto. Anch’io ho sempre sentito “abitate” le pietre del borgo e ho cercato di salvarle e di farlo capire, anche se è molto difficile. Continuiamo a provarci perchè è nel passato e nella memoria dei luoghi il senso della vita e dell’uomo.

    (Tiziana)

  3. Ho letto il racconto del” Castello delle Gazze” tutto d’un fiato, con animo trepidante come quando cerchi di mettere insieme un mosaico andato in parte disperso….Sono stata colta da forte emozione, perchè la mente è corsa al passato. Il castello (o meglio, i ruderi del castello) erano del nonno Cesare che , in una notte di plenilunio in gennaio, andò al castello alla ricerca del tesoro nascosto nei suoi bassifondi. Appena iniziato il lavoro di scavo, raccontò che sentì il suono di campanacci e nel contempo, dei belati di un gregge che si avvicinava…..poi fu circondato da un nugolo di lucciole….Preso dal panico, tornò sui suoi passi, meditando sulla leggenda tramandata fino ai giorni nostri. che diceva che il tesoro del castello era custodito dagli spiriti e nessuno poteva impossessarsene.
    (L. D.)

  4. Non nascondo una certa emozione nell’apprendere quanto sopra. Ringrazio vivamente gli autori dei commenti. Penso che la bellezza antica e il fascino dei nostri luoghi saranno sempre di più riscoperti da tanti di noi. Perchè rappresentano il substrato delle nostre radici, le origini di una storia comune, di montanari così legati alla nostra terra. Come se tutti facessimo parte di una storia infinita…

    (Renzino Fiori)

  5. Caro Renzy,
    un racconto fiabesco, bellissimo, che intreccia con molto sentimento storia, fantasia, leggenda, e passioni umane. Si sente l’amore viscerale di questa nostra madre-terra, senza scavare troppo è bello trovare
    radici comuni. Spero che pubblicherai presto i tuoi nuovi racconti.
    Grazie

    (MarisaNice)