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Horror vacui: la paura dello spazio vuoto. Una riflessione in attesa dei botti di Capodanno

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Horror Vacui- Eva Beierheimer

Horror Vacui è una locuzione latina che indica la paura del vuoto, inteso come spazio interiore. E anche nell'arte c'è una corrente che lo rappresenta attraverso raffigurazioni totalmente piene di scritte o di immagini, non lasciando vuoto nemmeno un millimetro della figura.

Sul finire dell'anno si tirano somme, ci si guarda intorno e si possono fare alcune riflessioni dettate anche da quanto accade intorno. A proposito di pieno e vuoto molto si può dire in questo periodo natalizio appena trascorso in attesa dei botti di capodanno.

Nonostante la crisi si è comprato, si è venduto. E la tecnologia è stata presa d'assalto. Telefonini smart phone, Ipod, Ipad, Tablet et similaria attraggono gli attori della scena sociale contemporanea. La comunicazione sembra diventato il bisogno primario dell'essere umano moderno. Se questa è una società liquida come l'ha definita Bauman, occorrono navi moderne per navigare in questi mari e raggiungere l'altro, l'altrove. L'acqua non lascia spazi inesplorati, riempie ogni singolo luogo. Ed è proprio questo bisogno di riempirsi che esprime chi non vuole e non sa restare scollegato. Una bulimia di parole, scritte, lette, dette, chattate, digitate, inviate. Parole e suoni, rumori, viaggiano come onde, tentacoli ubiquitari.

E' possibile osservare chiaramente la paura che anima questa epoca storica di restare nello spazio vuoto. C'è sempre qualcosa di acceso o qualcuno che parla. Non importa cosa dice, chi lo dice, come, quando e dove. Dire dev'essere consentito. Non  è raro entrare in una casa e trovare una tv accesa e nessuno che la guarda."Fa compagnia".

Si cammina o si va a correre con l'ipod, un minuscolo apparecchio che contiene infinita quantità di musica. Qualcuno tiene il cellulare acceso anche di notte, non si sa mai.

Sembra impossibile pensare come si facesse a vivere soltanto 15 anni fa, quando i cellulari non erano così diffusi. Eppure i genitori non perdevano di vista la famiglia, e i figli erano lo stesso figli.

Si inviano miliardi di sms al giorno, per comunicare, avvertire, dire, chiedere, stare in contatto. Ci si scrive per abitudine, per controllo, per noia. Eppure si digita, si chatta, si scrive, si gioca perfino a carte con uno sconosciuto di là dal video, pescato in rete a caso nei siti appositi. Chat di incontri virtuali, chat erotiche, si "ama" per un'ora una foto, uno schermo, pur di riempire e riempirsi.

Esseri iper - comunicanti?

Come per ogni ipertrofia e per un principio complicato e assurdo, il troppo equivale al niente. Si parla e non si dice, si sente ma non si ascolta.

A iniziare da se stessi. Una radiosveglia parte al mattino informando di qualcosa che viene accolto con distrazione, si fa colazione magari leggendo il giornale, si arriva in ufficio si accende un pc, mentre due o tre telefonini sono sul tavolo. Si va in palestra e si ascolta DJay Tv, oppure l'ipod, si sale in ascensore e ci si sente in dovere di dire qualcosa, fare gli spiritosi, per non lasciare spazi vuoti, senza dire nulla in fondo.

Non si spegne la tecnologia nemmeno nei contesti in cui viene richiesto con espliciti cartelli. Si vocifera, un chiacchiericcio continuo fa da sfondo sonoro al vivere quotidiano.

Il rumore è una consuetudine. Nelle pizzerie c'è sempre una, o più di una,  televisione accesa, una musica assordante, a volte diventa impossibile parlarsi. Il caos sembra essere scenario utile e necessario all'azione, all'esistere. Tant'è che non si è più capaci di staccare. L'oste stesso teme che se non arreda il suo locale con un bel mega schermo i clienti andranno da un'altra parte. Il frastuono è compreso nel prezzo. Nel tempo libero se si esce di casa è per svagarsi, non per accumulare ulteriore stress. Questo però non viene preso in considerazione dai gestori, preoccupati di riempire non solo di cibo l'avventore.

La tecnologia non ha colpa, è sacrosanta, utile e ben venga la modernità. Da osservare è l'uso parossistico che se ne fa come riempitivo.

Chi è portato a ingozzarsi lo fa di qualunque cosa.

Allora quand'è che si sta soli con se stessi? Chi ci educa e incoraggia a farlo? Il terrore di una madre è che il figlio non abbia amici e non socializzi, per cui c'è una precocità alla vita comunitaria, una fretta frenetica nel far sì che egli impari a stare con gli altri. Mentre raramente si incita un bambino ad apprendere a stare con se stesso.

Se nessuno glielo insegna, quando lo impara?

Questa prassi manca nella nostra società. si pensa che il ritiro sociale sia presagio di comportamenti devianti da adulti. Tuttavia alcune ricerche in merito svolte all'università di Psicologia di Parma (So-stare in solitudine, Cigala, Corsano, 2003) dimostrerebbero che il bambino capace di giocare anche da solo diventa un adulto socialmente più competente.

Lo psicanalista pakistano Masud Khan usa l'espressione "restare a maggese" per definire quella necessità della persona di restare del tempo anche senza fare nulla. Ester Buchholz (The call of solitude, 1998), altra psicanalista americana, sostiene che il cervello umano necessita di periodi di recupero e di silenzio, altrimenti le aree corticali vengono sottoposte a continue ed eccessive sollecitazioni, restando come un motore sempre acceso surriscaldato che non ha tempo per "raffreddarsi".

Infine la sociologa Marianella Sclavi esprime molto bene il passaggio che ognuno viene chiamato a fare quando incontra veramente un altro in una dimensione di ascolto. Per poter ascoltare davvero è necessario uscire dai propri conosciuti confini e restare per un attimo sospesi, spogliati di ciò che si conosce, senza le cornici contestuali di riferimento. In tal modo si potrà prestare davvero attenzione a ciò che accade intorno e com-prenderlo.

Operazione che risulterà difficile se non conosciamo per primi quali sono i nostri spazi interiori autentici, frequentati senza paura di ascoltare per primi noi stessi, disponibili a fronteggiare le emozioni anche dolorose che possono emergere in tale processo di consapevolezza. Questo accade se si attraversa la soglia della propria personalità e si fa un passo nel nulla, rinunciando alle maschere che il vivere attuale ci impone e se si è disposti a fare "senza" qualcosa  per un attimo, disposti a essere "nessuno " per un po', semplici osservatori di se stessi, imparando a conoscersi .

Stare da soli spaventa, e ancora di più nei periodi festivi.

Per comunicare in modo autentico, senza il filtro tecnologico che fa da diaframma tra sé e l'altro, è necessario perciò fare amicizia e abituarsi a se stessi, dandosi il tempo di frequentare i propri vuoti e silenzi.

Solo dopo si può apprezzare l'allegria e la festa vera dell'incontro con l'altro. Allora non si userà il rumore per parlare o per nascondersi, né i botti di capodanno per riempire, ma per festeggiare ed esprimere gioia insieme agli altri.

 

 

4 COMMENTS

  1. Ho molto apprezzato la lettura dell’articolato pezzo della dottoressa Canovi, con la quale mi trovo concorde. Credo che l’incontro con l'”altro” debba essere (quando le occasioni lo consentono e il lavoro spesso non è tra queste) principalmente un piacere, non un atto compulsivo. Ma per essere così l’individuo deve avere la capacità di essere solo con se stesso, per non clonarsi con la massa che lo circonda e che sempre di più lo vuole omologato a mode di comportamenti, abiti, costumi.
    Costruire se stessi, insomma, con le caratteristiche psichiche e fisiche che più ci sono congeniali per essere sempre “unici”, anche se diversi dai canoni che la società (intesa soprattutto come bombardamento dei media) vorrebbe imporre. Ma questo richiede un lavoro da svolgere con introspezione e silenzio. A questo punto non spaventa il Capodanno in solitudine, magari cercata, in compagnia di un ottimo vino, di un libro, di un film, di un camino acceso o di una musica sommessa. Nè andare a dormire senza aspettare l’arrivo del nuovo anno che probabilmente non differirà da quello in corso. Non una mancanza di alternative ma una alternativa. Con la A maiuscola.

    (Celeste Grisendi)

  2. Articolo interessante e ben scritto che meriterebbe un’attenta riflessione.
    Credo, tuttavia, che il termine “horror vacui” sia in realtà fuorviante poiché il vuoto non esiste realmente.
    La paura che la gente prova non è tanto quella del vuoto ma quella dell’ignoto, la paura di non sapere cosa c’è nella sospensione, nella solitudine.
    Che il mondo ci riempia o che siamo noi a riempire il mondo è, dal punto di vista della “pienezza”, poco rilevante. Diventa rilevante in rapporto alla capacità di comprensione del reale, ma questa è un’altra storia su cui non voglio insistere, visto che l’articolo ne parla ampiamente.
    Ciò che mi preme dire è che, per quanto questo continuo bombardamento sensoriale possa sembrare assurdo e insensato, anch’esso risponde a un’esigenza umana. Gli uomini perseguono il piacere e la stimolazione sensoriale è piacevole.
    Un poeta o un filosofo, non ricordo, ebbe a dire: “E’ bello vedere la luce!”. Non era una metafora per dire “E’ bello nascere”, era una banale ma spesso dimenticata constatazione dell’evidenza. Gli occhi sono fatti per la luce, le orecchie per il suono e noi traiamo piacere da queste stimolazioni.
    Non a caso una delle tecniche di tortura più raffianate consiste nel chiudere qualcuno in una stanza completamente spoglia e completamente bianca, insonorizzata in modo tale da non ricevere rumore alcuno; a seguito della mancata stimolazione sensoriale il soggetto abbandona ogni resistenza e può anche cadere nella follia in breve tempo.
    Tuttavia il vuoto non esiste, la voce interiore, l’immaginazione, anche in condizioni di solitudine e di silenzio, non ci abbandona mai, nemmeno nel sonno. Le tradizioni filosofico religiose di matrice orientale che sostengono la sospensione del pensiero quale condizione propedeutica al raggiungimento della “liberazione” sanno benissimo quanto questo sia difficile (ammesso che sia auspicabile o anche solo possibile). Anche nella solitudine e nel silenzio una ridda di immagini e parole popolano il nostro cervello e più cerchiamo di scacciarle e più esse si fanno insolenti e inarrestabili. Lo scopo, in fondo, non dovrebbe essere quello di annullare il pensiero quanto quello di fare ordine nei propri pensieri.
    E’ evidente che non si può nè auspicare né immaginare che si possa vivere nella sola dimensione interiore o nella sola dimensione esteriore ma neppure bisogna nascondere la problematicità di un passaggio dall’esteriore all’interiore e viceversa. Chi trova nella dimensione del silenzio il suo spazio ottimale sarà ovviamente disturbato dal bombardamento mediatico, dalla folla, dalla ressa e devrebbe a sua volta comprendere la paura della persona “esteriore” ad entrare nella dimensione della solitudine e del silenzio.
    Insomma anche la visione della solitudine invocata come spazio di riflessione e recupero è, in fondo, una visione del mondo tanto valida quanto il “caos”. Ma il ciclico passaggio dall’interiore all’esteriore, ancorché problematico, è pur sempre auspicabile perché proprio nel passaggio avvengono quei “cortocircuiti” forieri di interessanti sviluppi creativi ed emozionali.
    Non bisogna quindi avere paura di perdersi perché in realtà ci si trova sempre in un “pieno”, a volte interiore e altre volte esteriore. Non c’è il vuoto come non c’è il “non fare”. Non fare nulla è ancora fare qualcosa (cioè il nulla). Come filosofeggia il sagace beagle Snoopy, sdraiato supino sul tetto della sua cuccia, “oggi non faccio niente, perché ieri non ho fatto niente. Ma non avevo ancora finito…”. Ma in quel niente c’è sempre qualcosa e se il vuoto non esiste l’unica paura che ci resta da rimuovere è quella dell’ignoto.
    Salute.

    (R.S.)

  3. Per “abituarsi a se stessi” e imparare a farsi compagnia, per provare piacere nel “rimanere soli” c’è solo una palestra e per me straordinaria: il deserto. Il deserto non raggiunto partendo da patinate vetrine di agenzie di viaggio, ma vissuto come quotidiano, come ambiente di lavoro, dove la capacità “dell’attesa” è la “condicio sine qua non”… per riuscire nel tuo quotidiano. Ha solo una controindicazione però: quando ti rapporti con gli altri, una volta tornato a casa, scopri la distanza che c’è tra il tuo vissuto e l’accademico ragionato.

    (mv)

  4. Per non sembrar saccente
    Vi chiedo di firmar con “niente”
    della cui essenza (assenza) discerne,
    nello scritto e nei commenti, tanta gente.
    Suggerisco due letture:
    1) Zero, la storia di una idea pericolosa (C.Seife – Bollati Boringhieri, 2002)
    2) Apologia della solitudine (T. Dumm, Bollati Boringhieri, 2010)
    E per non far il recensore non dirò dell’autore.

    (Niente)