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E’ molto probabile che ancora non risulti chiaro come l’attuale crisi segni la fine irreversibile del capitalismo liberista, ormai giunto alla massima espressione dell’egoismo di classe. Ci furono periodi in cui il capitalismo esercitò un ruolo nel processo dello sviluppo e del progresso; accadde quando le figure di banchieri del calibro di Rotschild e Morgan e capitani d’industria come Carnegie, Rockfeller, Ford, interpretarono la natura creativa del capitalismo. Anche in Italia non mancarono gli esempi, primo fra tutti Olivetti, che fu padre della sociologia dell’industria. Oggi i tempi sono profondamente cambiati; due guerre hanno cambiato la geografia del pianeta e la guerra fredda ha cambiato i termini del confronto e dello scontro, non più ideologico ma economico. Perché meravigliarsi se oggi capitalisti, imprenditori, manager, finanzieri non sono più quelli di una volta? In realtà Tanzi, Cragnotti, Fiorani, Consorte, Ricucci, sono il frutto di una logica sistemica. Rappresentano un capitalismo in declino, entrato nella sua Terza Età. Ma non possiamo trascurare di aggiungere, buon ultimo ma solo per ricordarlo meglio, lo stesso Silvio Berlusconi, fallito come politico e statista, sull’orlo del fallimento come imprenditore.
La natura creativa del capitalismo, con imprenditori di tal genere ha capovolto la sua tendenza per diventare esclusivamente manageriale e speculativo. Due guerre mondiali, l’abbraccio dello stato, la paura di nuovi crolli (come nel 1929) faranno il resto: il capitalista da attivo e creativo, è diventato parassita, verso lo Stato, verso il popolo, verso il mercato; produce ciò che rende e non privilegia ciò che serve.
L’evoluzione del capitalismo può essere riassunto in tre fasi; la prima quando si affermano i capitani d’industria, le cui attività portano alla formazione delle grandi imprese; la seconda dove gli eredi dei grandi imprenditori, passano la mano a manager e proprietari azionisti; la terza fase, quella speculativa (giunta in questi tempi a completa maturazione, generando la crisi in atto) dove i principale azionisti, non confidando nei manager, iniziano a differenziare gli investimenti per distribuire i rischi . Così la terza fase produce la figura, fin ora inesistente, del manager di portafoglio: venditori istituzionali, intermediari, ma sempre più spesso, imprenditori privi di scrupoli, animati solo dallo sfrenato desiderio di guadagno,non importa se lecito, illecito o anche criminale.
Il “gioco” finisce così per riguardare solo chi decide di offrire capitale e chi decide come investirlo; il lavoro diventa un optional che non fa guadagnare abbastanza. E quel che conta per entrambi, non è più la bandiera o il carisma imprenditoriale, ma la redditività di un capitale investito, che diventa sempre più speculativo. E’, perciò, ovvio che in tale situazione proliferino avventurieri di ogni genere. Come tutte le istituzioni sociali, anche il capitalismo è “mortale”, anche se a coloro che vi sono nati e vissuti, può apparire eterno. Non si capisce allora perché anche il capitalismo, come sistema politico, economico e sociale, non possa subire la stessa sorte di altre grandi istituzioni come l’Impero Romano, giudicato altrettanto eterno dai suoi contemporanei.
Sembra un ritorno alle origini piratesche del capitalismo; non per nulla furono capitalisti d’assalto, ma anche pirati pericolosi, Drake e Morgan, che hanno, però, rischiato la pelle; personaggi come Tanzi, Cragnotti, Fiorani, Consorte, Ricucci e Berlusconi, appaiono patetici, da capitalismo in disarmo. In questa atmosfera da resa dei conti emerge il nuovo ruolo dei sindacati, non più arbitri di una lotta di classe, schierati dalla parte della classe lavoratrice, ma promotori del confronto tra i detentori del capitale-denaro e i detentori del capitale-lavoro. Il capitalismo in fase terminale sta divorando ciò che resta del sistema politico ormai bloccato e privo di riferimenti: non esiste più destra, sinistra o centro, con la dialettica ideologica, ma uno stando confronto tra le parti per discutere solo di tasse, spesa sociale, pensioni, trascurando l’impostazione squisitamente politica dell’indirizzo da dare al progresso e allo sviluppo.
Il ruolo dei sindacati sarà quello di riproporre la democrazia, diventata un fantasma che non incute paura, bensì noia, e viene, perciò, spesso rimosso da chi riesce a imporre la propria dimensione, dopo avere vanificato il senso stesso della democrazia, che sta nel libero esercizio, da parte del popolo elettore, della scelta dei propri rappresentanti, secondo coscienza e non per imposizione del potente di turno. Se la democrazia sarebbe “macchina che fabbrica cittadini”, nel senso che il voto rappresenta l’esercizio di una libera scelta attraverso cui l’elettore può “cambiare le cose”, allora la democrazia italiana non “fabbrica” più cittadini dal 1994, cioè dalla discesa in campo politico di Berlusconi; situazione aggravata irrimediabilmente con la legge elettorale universalmente chiamata porcellum.
Nessuno meglio dell’apparato sindacale può farsi carico di un rilancio della democrazia ipnotizzata dalla promessa di facili guadagni e addomesticata da false visioni di chi ha tutto l’interesse di farci credere che siamo “una nazione di benestanti” che non deve preoccuparsi di nulla, neanche se si dovesse andare a elezioni anticipate; questo il succo delle affermazioni di Berlusconi che, ancora, crede di poter tornare nella stanza dei bottoni, trasformata nella “stanza dei bottini”. La promozione del confronto: questo il nuovo ruolo dei sindacati, perché non c’è democrazia se il confronto fra le parti viene sostituito dallo scontro.
(Rosario Amico Roxas)