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Negli occhi di Aristide l’Arcobaleno del mondo

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Aristide Gazzotti ha modi riservati, che quasi rifuggono l’essere trascinatore. Lo incontriamo prima del suo rientro in Bolivia, nella sua casa materna di Toano, perché ha una bella storia da raccontare e, soprattutto, è riuscito a creare le condizioni per qualcosa di davvero grande. Più che di missione, preferisce semplicemente parlare di esperienza di vita.

“Ho quindi conosciuto la Bolivia e dodici anni fa mi sono trasferito a Cochabamba, a 2700 metri d’altezza. Qui prima lavoravo nella Diocesi, poi nell’Università Salesiana, come professore di teologia. Ma ben presto sono venuto a contatto con molte persone che vivevano una situazione difficile”.

“Quei bambini ‘liberi’ lungo le strade”

Perché?

“La Bolivia ha oltre 9 milioni di abitanti, non ha certo i grandi numeri di miseria del Brasile. Ma un povero vale come mille. Un giorno il Vescovo locale ha lanciato un appello a tutte le forze della Chiesa: ‘Se la Chiesa è madre non può permettere che i suoi figli vivano per strada, perché una madre non lo permetterebbe. E quindi faccio questo appello a tutte le comunità religiose della Diocesi per dare insieme una risposta a questa sfida lanciata dai tanti bambini che vivono in strada nella nostra città di Cochabamba’”.

Aristide Gazzotti

 

Ma come mai i bambini vivono in strada?

“Ricordo che la sera, insieme agli amici con cui vivevo, vedevamo molti bambini dormire sotto i portici della città. Non capivo il perché. Questa domanda attanagliava pure me e, quindi, ho iniziato a prendere contatti con loro, cercando pure il motivo di questa loro situazione. Si consideri che alcuni di questi bimbi avevano appena quattro o cinque anni. Mi rispondevano che lì era molto meglio che a casa, dove non avevano né affetto né cibo. Preferivano la strada perché lì, almeno, potevano aggregarsi con altri coetanei. Ho provato dapprima a invitarli nella casa dove vivevo, ma non venivano. Poi ho capito il motivo: ritornando la sera ritrovavo bambini sempre diversi… Nessuno sapeva dove finivano quelli prima conosciuti”.

Una fiducia da conquistare, lottando contro la… colla

Come guadagnarsi la loro fiducia?

“A volte – prosegue – li ho ‘obbligati’ a venire da noi per avere almeno un pasto caldo lasciandoli poi liberi. A gennaio del 2001 i primi bimbi arrivarono a dormire nei corridoi della nostra casa. Poi tornavano in strada facendo i consueti lavori di posteggiatori, lustrascarpe o in cerca di elemosina. Ne avremo conosciuti un centinaio e abbiamo iniziato a interessarci alle loro storie. Tuttavia non parlavano mai delle famiglie, temevano di essere riportati a casa. Io non capivo perché barattassero l’affetto familiare a un affetto disordinato della strada, dove sniffavano colla, quella che si usa per le scarpe, che inebetisce (mentre la cocaina boliviana è destinata all’estero), colla che si compra dagli scarpolini per solo 5 Bolivianos, mezzo euro, cioè, che non costa nulla”.

Quale è il fascino della strada per un bambino?

“A me sembra di capire che è quello della libertà, la libertà da ogni norma: non ci si deve mai lavare, ci si alza quando si vuole, non si va a scuola, e soprattutto si vive assieme ad altri. Una situazione che per loro non è di disordine. Ma questi bambini non arrivano mai ad essere grandi perché la colla provoca danni irreversibili. Anche la promiscuità provoca molte affezioni. Tbc, Aids, infezioni di tutti i tipi sono le cause della morte prematura su corpi deboli”.

Il contatto con l’Italia… dà il via a un grande sogno

Riprendiamo il percorso

“Dopo aver conosciuto le loro storie – prosegue –, con gli amici boliviani, siamo riusciti a riportarne a casa una quarantina, altri purtroppo sono morti. Ho imparato una cosa importante dagli amici boliviani: che non è importante puntare sulle grandi attività  o sulle risorse personali, ma ciò che vale è offrire una amicizia sincera. Ed è stato così che li abbiamo avvicinati e piano piano li abbiamo conosciuti, con tutte le loro storie tragiche alle spalle. Di qui uno sforzo per ricongiungerli alle loro famiglie. Quello era il passo più duro perché loro non ne volevano proprio sapere di tornare a casa. Ricordo che una volta abbiamo fatto circa duemila chilometri per ritrovare i familiari di un bambino, in uno Stato che è grande quasi quattro volte l’Italia. Dopo sei mesi dall’appello di aiutare chi era in difficoltà, il Vescovo mi disse: ‘Sai, da allora non si è avvicinata nessuna comunità religiosa. Ma di quanto avete fatto sono molto contento’”.

“È stato triste accompagnare molti di loro al cimitero, noi ci sentivamo la loro famiglia. Diversi sono morti tra le mie mani. C’erano anche molte coppie giovani con figli e abbiamo visto morire bambini figli di genitori malati, i primi a soffrire di questa tragedia”.

E i contatti con l’Italia, sono serviti?

“Un giorno, a Cochabamba, – prosegue Aristide – mi sono incontrato con una famiglia italiana del Matho Grosso, un forte movimento cattolico molto attivo in Sud America, che tornava in Italia dopo il servizio in Bolivia. Mi portarono nello scantinato della loro casa e lì intravidi scatole di mattonelle marchiate Roteglia. E questo ovviamente mi incuriosì molto. Roteglia è a 20 km da Toano, il piccolo paese dove sono nato! Questa famiglia era di Brescia: un loro amico di Roteglia aveva mandato questo materiale da impiegare nella costruzione di un ospedale”.

“Nel 2002, tornato in Italia dove ho ancora mia madre – spiega Aristide - , conobbi Fausto Costi, un operaio ceramista in contatto con suore rotegliesi che hanno tre comunità anche in Bolivia. Era lui che si era attivato per mandare, tramite il movimento del Matho Grosso, le mattonelle. Mi invitò a cena da sua madre Luciana, che poi nel 2003 venne a trovarmi e trascorse varie settimane con noi a Cochabamba, in un periodo in cui avevamo affittato una casa grande per ospitare i ragazzi di strada per un tempo più lungo. Non avevamo nulla in quella casa, nemmeno i letti, ma solo qualche materasso. Ricordo che mandai una lettera ai parrocchiani di Toano, in quel periodo, per chiedere aiuto e ci fu un grande risposta grazie anche all’appoggio incondizionato di don Massimiliano”.

E’ stato un incontro determinante quello con Luciana e la sua famiglia?

“Beh, quando Luciana arrivò si rese conto che eravamo sprovvisti di tutto e da mamma buona e attenta, si offrì di restare una settimana per aiutarmi, assieme ad un’altra amica di Roteglia, Elisa. Invece trascorsero tutte le loro vacanze con noi. Credo sia stato quello l’inizio de La Casa de Los Niños di Cochabamba, un luogo dove ospitare i bambini e strapparli alla strada”.

Una magia: i bambini si parlano e aiutano tra loro

Che esperienza è stata?

“Non fu facile. Recuperavamo bambini sporchi e disordinati in strada, dove si poteva finire derubati o attaccati Da un lato spaventa, dall’altro era un orizzonte nuovo e una bella sfida. Con Luciana è stato come se fosse arrivata per noi una mamma, per altro con l’esperienza dei suoi settant’anni. Tutte le domeniche, con il gruppetto degli amici boliviani, in quella casa presa in affitto, facevamo il doposcuola a duecento bambini, dai 6 ai 13 anni, della zona periferica dove vivevamo. Tutti provenienti da situazioni sociali molto dure e sofferte. I bambini di strada che vivevano con noi erano molto incuriositi dal fatto che, al termine del doposcuola, gli altri tornassero volentieri a casa”.

Perché questa curiosità?

“Abbiamo maturato la convinzione che i bambini potessero aiutarsi gli uni con gli altri. Quindi, le abbiamo inventate tutte affinché aumentassero i contatti tra questi gruppi, quelli di strada e quelli della periferia. L’amicizia tra loro è stata potentissima e, reciprocamente, lo scambio in questo contesto di umiltà e sofferenza ha fatto sì che i bambini di strada tornassero ad accettare la loro famiglia e, a loro volta, desiderassero tornare dai loro genitori”.

Dalla Casa de Los Niños al villaggio Arcobaleno

La Casa de Los Niños è così cresciuta

“Sì. Nel 2003 ci siamo trasferiti dal centro della città a quella bella casa presa in affitto nella periferia. Dal 2003 al 2006 la Casa de Los Niños è stata un punto di riferimento importante per tanti. Ci vivevamo una decina di persone fisse, tra bimbi e adulti, ma vedevamo gravitare attorno tante centinaia di ragazzi. E poi conoscemmo anche le loro famiglie. In quegli anni, si estese anche il circolo dei nostri “amici”. Conoscemmo molti bambini che vivono in carcere con la loro mamma e che partecipavano alle nostre attività. Entrammo in contatto con bambini gravemente ammalati dell’ospedale pubblico di Cochabamba. I medici, intelligentemente, davano loro il permesso di passare il fine settimana nella nostra casa in mezzo alla bella confusione che si creava con il riunirsi di tanti altri bambi. Nel maggio del 2006, quegli stessi medici ci chiesero di ospitare la prima bimba con il sindrome del HIV di Cochabamba. Accettammo, con timore e con trepidazione. Non sapevamo cosa ci aspettava e dove ci avrebbe portato questa nuova sfida. Intanto, nel 2006. Luciana e la sua famiglia avevano dato vita alla Associazione Onlus ‘Casa de Los Niños’. Grazie all’aiuto di questa nostra Associazione abbiamo potuto comprare un terreno di 5 ettari sempre nella periferia di Cochabamba e dal gennaio 2007 ci siamo trasferiti lí. Con Luciana e gli altri amici si era acceso nelle nostre teste il sogno di dare una casa ai bimbi che avevamo conosciuto e alle loro famiglie, per cui in quel terreno appena comprato abbiamo iniziato a costruire case o appartamentini. Ora, ne abbiamo circa un’ottantina. E così, da quel sogno un po’ pazzo, è nato il ‘villaggio Arcobaleno’, dove trovano ospitalità attualmente quasi quattrocento persone”.

Quante persone?!

“Quattrocento. Sono bimbi malati di Aids che vivono con le loro famiglie, bimbi che vengono dal carcere con le loro famiglie riabilitate, bimbi che vengono dalla strada che sono tornati a vivere con le loro famiglie. Un arcobaleno di situazioni e di storie che sarebbe bello raccontare. Il 30% dei bambini di Cochabamba, portatori del Hiv, vive con noi. Fin dall’inizio abbiamo puntato sulla famiglia: tutti i bimbi hanno diritto ad avere una famiglia e a vivere con la propria famiglia! Al villaggio Arcobaleno si reca chi è davvero in difficoltà: persone conosciute o segnalate da ospedali o da enti pubblici. Qui rimangono per un tempo indefinito. Tutti, nel nostro villaggio, abbiamo un’unico obbligo, quello di volere e di cercare insieme il bene, il bene dei bimbi, degli ammalati, delle persone sole. E tutti devono tenere il cuore aperto per dare tutto, nella misura delle proprie possibilità. Alle famiglie, infatti, proponiamo di essere aperte nell’accoglienza, anche ospitando in casa i bambini malati che ci vengono segnalati. Come noi abbiamo aperto loro la possibilità di una casa, loro possono aprire la casa ad altri. Senza obbligarli. Il nostro scopo ora è apunto questo: che in queste case il cuore delle persone si apra con gesti d’amore. Per questo coinvolgiamo un po’ tutti, anche in Italia”. Vogliamo essere una comunità che sogna il bene per tanti!

Perle di vita quotidiana e… l’incontro con giovani sposi

La cosa più bella che è successa?

“Si è creato un rapporto di stima e amicizia sincera con le persone e sta nascendo una comunità, una comunità che punta al bene, che unisce Italia e Bolivia. Questo ci rende soddisfazione. Essere espressione della Chiesa madre con l’accoglienza ai bambini più poveri. Ora le persone possono aderire a un sogno di bene per tanti, un sogno che va avanti. Da tre anni c’è la scuola nel nostro villaggio. Ora non costruiamo più case, ma vogliamo rendere solida la nostra comunità. Dall’Italia e dal mondo, dal 2003 sono venute più di cento persone a condividere un tempo di vita con noi. Ci interessa moltiplicare il bene e che sia il bene medesimo che ci costruisce”.

La vostra giornata tipo?

“Ci si alza al mattino, si prega con padre Josè, un sacerdote di 86 anni degli Stati Uniti che fin dall’inizio ci accompagna. Personalmente mi occupo delle spese, per la scuola e per il vitto. Mi sono dedicato molto alle cose pratiche nella costruzione delle case realizzate solo da persone che vivono con noi, retribuite. Poi abbiamo un contatto costante con l’ospedale pubblico. Il pomeriggio, secondo le responsabilità di ognuno, cerchiamo di affrontare i vari problemi. Alcune delle famiglie più stabili sono messe al corrente dei problemi di altri nuclei e si cerca di risolverli. Adesso abbiamo molti scambi con istituzioni locali che ci tengono a dialogare con noi perché di fatto diamo una risposta a bisogni reali (la strada, le malattie, le adozioni delle famiglie). I bimbi rientrano da scuola alle 4 del pomeriggio. Sino alle 20 ci dedichiamo a loro. E la sera ci si ritrova stanchi morti, ma a chi vuole viene offerto lo spazio della preghiera comunitaria. Poi tutto l’anno abbiamo gente che sta con noi, in maniera fissa, vengono da tante parti per aiutarci, con i servizi per i bambini”.

E ci sono altre persone che vengono dall’Europa?

“Tramite il contatto via internet o scambi di amicizia, per esempio, arriverà presto Giorgia da Castelnovo e forse un signore di Ramiseto. Attualmente vivono nella nostra casa: un ragazzo tedesco di 19 anni, uno argentino di 28, Giulia, di Parma, di 72 anni che da tre ci aiuta con le sue doti di bravissima infermiera e fedele donna di preghiera. Il 98% dei giovani che vengono da noi dall’Italia non ha esperienza religiosa di vita attiva nella chiesa. Ma alcuni sono già tornati in Bolivia per sposarsi, nella nostra cattedrale della natura, nel bel parco del villaggio… Noi ci teniamo che la nostra esperienza sia una esperienza con radici solide nel Vangelo”.

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Aristide nella sua abitazione di Toano con l'anziana madre

 

CHI E’

Aristide, un sorriso che parte da… Toano

La storia di Aristide Gazzotti inizia nel 1956 a Toano. Nel reggiano ha ancora la madre, Mirella Cappucci e i fratelli Renzo e Renata che vivono nel capoluogo e a Modena.

Orfano di padre è accolto per gli studi a casa da uno zio sacerdote, prima tre anni nel seminario di Marola e altrettanti in quello di Reggio, al seguito della madre, per gli studi classici. In città conosce uno dei nuovi movimenti della Chiesa assieme al gruppo di Toano. Nel 1982, subito dopo la laurea in agraria parte per fare questa esperienza.

“Non parlo di missione – racconta –, ma di esperienza di vita e condivisione del Vangelo, e della mia fragilità, prima in Cile e poi in Bolivia. In Cile per mantenermi facevo l’agronomo, gestendo un’azienda agricola in campagna a Santiago, partecipando a esperienze cristiane con i giovani”. Dodici anni fa l’arrivo in Bolivia… uno stato ricchissimo di materie prime, sfruttate dal mondo ricco, in cui mancano tuttavia le industrie in grado di lavorarle, e anche per questo rivela le sue aree di estrema povertà economica. A farne le spese, anche, i più piccoli. Di qui decolla un impegno a loro favore.

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IL CASO

Carcere, tribù tropicali, Aids: tre esperienze che il Signore ci ha regalato

“Dal 2003 la Casa del Los Niños si è aperta a nuove esperienze. Ad esempio ad una cinquantina di bambini del carcere di Chocabamba, dove vivono insieme alle loro madri, fino a 18 anni. Spesso le cause della carcerazione in Bolivia riguardano la droga (trasporto di componenti per la fabbricazione della cocaina, servizio molto ben pagato ma che costa spesso 10 anni di carcere!)”.

“Nel 2006 ci conobbero negli ospedali pubblici, dove ci recavamo quando portavamo i bambini malati. Qui ci chiesero aiuto per David, un bambino di sei anni di una tribù tropicale. Non voleva mangiare, pesava solo dieci chili, aveva una forte infezione ai polmoni. Ci chiesero se potevamo tenerlo con noi il fine settimana per distrarlo dal clima pesante dell’ospedale. Pur non parlando spagnolo, era felicissimo quando veniva da noi. E anche gli altri nostri bimbi si trovavano molto bene con lui. Riportarlo all’ospedale era sempre un dramma. Poi purtroppo la malattia è peggiorata ed è morto tra le mie braccia di meningite fulminante. Un’esperienza molto dura. Eppure, David ha aperto a noi il mondo della sua tribù, nella zona tropicale, formata da poco più di duecento persone con cui siamo sempre in contatto. Quando è mancato lo abbiamo riportato a casa, lungo la foresta, nella sua bara bianca sulle canoe che scendevano lentamente lungo il fiume Chimorè, e dopo molte ore abbiamo scoperto la sua famiglia, il suo villaggio, la sua tribú. David però ci aveva chiesto: ‘Spero che attraverso di me possiate salvare la mia tribù’, gli Jukis, che salgono in ospedale a Cochabamba dall’Amazzonia Boliviana per il problema delle infezioni.

“Sempre nel 2006 si è conclamato il primo caso di bambina, a Cochabamba, portatrice del virus dell’Hiv, Maria Renè. E l’ospedale ci ha chiesto di accoglierla. La madre era depressa, mentre il padre, appena saputo il risultato degli esami, è scomparso. Abbiamo dato la nostra disponibilità. Ma poco prima di uscire dall’ospedale, con le cure che l’avrebbero stabilizzata, la bimba ha preso un’infezione all’orecchio che, a soli due anni, in quello stato di mancanza di difese, le ha comportato il coma. Lei non parlava e non camminava ancora. I medici non sapevano come intervenire. Noi tutti i giorni andavamo da Maria Renè che era isolata e intubata. E pregavamo. Con tutti gli amici e le amiche di Cochabamba, ci siamo trovati una sera chiedendoci se Gesù poteva fare il miracolo a fronte di una nostra maggiore concordia in un momento difficile. Abbiamo pregato assieme. Non c’erano altre speranze. Dopo una settimana Maria Renè è uscita dal coma e dopo dieci giorni, il 3 maggio 2006, è venuta a vivere con noi. Noi non avevamo esperienze con bambini così piccoli e in più con questa malattia. Per fortuna, il 5 maggio 2006 Luciana è tornata da noi, e lei da brava mamma e nonna ci ha insegnato ad allevare una bimba. Siamo riusciti ad avvicinare la mamma e a trovarle un lavoro pur nella sua condizione di disordine e tutte le sere stava con lei. Poi pure la mamma si è trasferita nella nostra casa. Un’esperienza bellissima. Abbiamo imparato a vivere e a conoscere questa malattia. Maria Renè con l’affetto è cresciuta, ha imparato a camminare, a parlare, e non è mai più tornata in ospedale. Bimbi di strada, bimbi malati della tribù tropicale, bimbi colpiti da altre malattie difficili, ma tutti inseriti nelle loro famiglie, e noi lì a fianco a loro: ecco la nostra attività oggi”.

(Gabriele Arlotti)

 

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