Con il termine counselling si indica una forma di relazione d’aiuto, comparsa per la prima volta negli Stati Uniti e sviluppatasi all’interno delle scienze sociali, con oramai più di un secolo di legittimità come pratica professionale. Nonostante se ne possano rintracciare le prime forme già intorno al 1870, nell’ambito del sostegno alle famiglie da parte delle organizzazioni di assistenza sociale, è a Carl Rogers che si attribuisce il merito di aver fatto divenire questa pratica materia centrale della psicologia applicata, intorno al 1950. Risale al 1952 la nascita dell’American counselling association. In Europa, l’istituzionalizzazione del counselling avverrà principalmente per merito di Hans Hoxter, di nazionalità tedesca, a cui va il merito di aver diffuso il metodo dapprima a Londra, con associazioni volontarie a sostegno delle vittime dei bombardamenti, e in seguito in Francia. Grazie ai numerosi incontri con i rappresentanti dell’Unesco e dell’Unicef, Hoxter riuscì a porre le basi che avrebbero in seguito dato vita alla British association of counselling.
Le definizioni fornite dalla SICo (Società Italiana di Counselling), dalla AICo (Associazione Italiana di Counselling), dal CNCP (Coordinamento Nazionale Counsellors Professionisti) e dal REICo (Registro Italiano dei Counsellor) sottolineano tutte le peculiarità fondamentali di questa pratica, individuabili:
- nell’attenzione specifica alle RISORSE: a differenza di altri tipi di relazione di aiuto, dove non si da per scontata una lente di ingrandimento sulle risorse della persona piuttosto che sul disagio, la pratica di counselling ha come obiettivo fondamentale l’empowerment, vale a dire la valorizzazione dei punti forza dell’individuo che vive il disagio, promuovendo la consapevolezza personale, migliorando le percezioni, i conflitti, aiutando così a gestire al meglio le crisi interne o esterne;
- nella promozione del benessere psico-fisico e socio-ambientale, che si tratti del singolo, della coppia o della comunità;
- nel guardare al paziente come colui che porta la domanda d’aiuto dell’intero sistema d’appartenenza: identificando la persona come appartenente ad un sistema specifico, è possibile costruire la relazione d’aiuto tenendo in considerazione il contesto in cui la problematica è insorta, agendo così in maniera armonica con la vita del paziente;
Terapia e counselling non devono essere confuse come forme d’intervento, in quanto il lavoro del counsellor è orientato all’aiuto rispetto a situazioni di disagio psichico di tipo sociale/relazione, che non richiedano una profonda ristrutturazione psichica. Vale a dire che si tratta di un’azione che potremmo definire più “blanda”, rispetto a quella terapeutica in cui c’è una vera e propria richiesta di “presa in carico” da parte del paziente. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di una terapia di seconda categoria, bensì di un intervento che agisce partendo da richieste differenti.
I presupposti fondamentali per mettere in atto il counselling, che sono quelli elencati in precedenza, non ne costituiscono solo la definizione, ma sono anche un’utile linea guida da applicare alle relazioni di tutti i giorni, anche da parte di persone non qualificate, ed è ciò che rende questa pratica d’aiuto così degna di interesse.
Concepire il disturbo, il disagio del singolo come uno stile comunicativo, così come farebbe un counsellor, ci permetterebbe quantomeno di comprendere con più facilità cosa quella persona prova, entrando nell’ottica che tutto quello che ciascuno di noi patisce, difficilmente riguarda davvero solo il singolo, ma è più spesso la conseguenza di processi codeterminati, ovvero agiti da più individui, quelle che vanno a definire il sistema di appartenenza della persona.
E ancora : nell’ambito del counselling ogni storia è considerata come unica ed originale. Adottando questa visione nel relazionarci con gli altri, eviteremmo di essere vittime di pregiudizi e preconcetti che, più spesso di quanto ne siamo consapevoli, minano le nostre relazioni sociali, restituendoci un’immagine falsifata dell’altro, che non ci consente di beneficiare degli aspetti positivi che di certo quella persona possiede, ma che non ci diamo il tempo di scoprire, presi come siamo dall’idea che, precocemente, ci siamo fatti di lui/lei.
Un altro punto su cui il counselling si muove è l’individuazione delle risorse della persona. Semplificando, potremmo forse parlare di una visione “ottimistica” della realtà. Ciascuno di noi non si identifica più solo con i propri problemi e le proprie angosce, ma diventa un concentrato di elementi positivi da potenziare (empowerment), al fine di migliorare, di imparare ad affrontare la realtà, a prendere decisioni, a gestire le relazioni con gli altri.
Ogni counsellor infine, sa che per instaurare una relazione che sia paritaria e proficua, è necessario essere rispettosi, curiosi e soprattutto neutrali. Parole chiave che hanno una valenza specifica nella dimensione tecnica di questa pratica, ma che sono evidentemente utili anche per ciascuno di noi, nella vita di tutti i giorni e che significano liberarsi dalle pre-convinzioni (neutralità) per aprirsi all’altro nel modo migliore possibile, accogliendolo così per ciò che è, e mettere in pratica un attenzione attiva (curiosità) nel relazionarci con gli altri, ascoltandoli cioè realmente, unico modo per comprendersi vicendevolmente.
Il counselling quindi, oltre ad affermarsi a pieno titolo come una pratica d’aiuto utile ed efficace, offre alcune importanti linee guida, da seguire nel nostro agire quotidiano. Conoscere come questo modello si muove, pur non sostituendo l’intervento dell’esperto, può aiutarci nella crescita e nel miglioramento personale, non solo per quanto riguarda la capacità di prendere decisioni e di risolvere al meglio le difficoltà della vita di tutti i giorni, ma anche nelle relazioni con gli altri.
(Alessandra Nocerino)