Don Angelo Busi, parroco di Borgotaro (provincia di Parma, diocesi di Piacenza-Bobbio), per circa un’oretta ha parlato sul tema “Chiesa e territorio in montagna: quale futuro?” (evidenti le attinenze col convegno ecclesiale della montagna svoltosi ormai quasi dieci anni fa sul nostro Appennino) davanti ad un’assemblea attenta. Davanti a lui, ieri, circa 200 persone perlopiù provenienti dal mondo cattolico della nostra montagna, che gli facevano corona nella bella sala del Centro diocesano di spiritualità e cultura di Marola. Un pressante messaggio – “alziamo gli occhi” – è stato ripetuto più volte. “Mancano parroci, perché? Perché guardiamo troppo a noi stessi e allora occorre questa capacità, di alzare gli occhi, perché Cristo visita anche questo nostro tempo. Concentrarsi troppo sul proprio campanile è un limite; o meglio, è importante cercare di riuscire a vederne la verticalità”.
Tempo di dispersione e necessità di credere con tutto il cuore
Ma che tempo è mai questo? Don Busi lo definisce della dispersione. Le varie generazioni procedono a velocità diverse rispetto all’avanzare tecnologico. Quando si fa fatica a stare dietro alle cose si arranca e si leggono le difficoltà come più forti delle risorse per affrontarle: da questo stato di cose può umanamente generarsi la paura, una paura che diventa la “realtà”. “Compare a questo punto – osserva il sacerdote – la sensazione di trovarsi a dover cercare di sopravvivere”. Usa immagini per spiegarsi. In questo caso sceglie quelle “marinare”: la tempesta, la zattera, il naufragio. Non a caso, ovviamente. Ricorda il passo evangelico in cui Gesù dorme tranquillo mentre, sull'acqua, gli elementi infuriano e gli apostoli, spaventati, temono per la loro vita… Questo serve a don Busi per ricordare quel che davvero occorre e conta alla fine di tutto: la fede. Infatti, il bisogno di certezze e la risposta che diamo a queste nostre necessità, riponendo questo sentimento nel più o meno materiale, non soddisfa veramente e lascia sempre qualcosa di irrisolto nel nostro animo – più o meno consapevolmente - impedendoci di “prendere il largo”. Di alzare gli occhi.
Per la morale? Rivolgersi ai sarti
Per titoli alcuni altri punti toccati. “Le parrocchie: luoghi di religiosità e meno di socialità; le più piccole di esse diventano via via non più autosufficienti e ciò genera senso di sconfitta”. “La presenza forte della Chiesa sta diventando invisibile”. “No alla parrocchia ‘burocratica’”. “Avere tutto e mancare dell’essenziale”. “Per la morale si va in sartoria: a ciascuno la sua, fatta su misura”.
Pastorale e relazione
“La pastorale? Essenzialmente è un ‘esserci’”. “Perché alcune (tante delle) nostre iniziative non danno i frutti sperati, non funzionano? Perché sono solo ‘cose’ e non offerta di relazione. Mentre invece queste ultime, se ci sono, creano sempre qualcosa… Soprattutto in montagna è necessario creare relazioni”. Ed ecco che cadono qui i riferimenti a quella piccola perla sempre attuale che è il “Piccolo principe”. “Dobbiamo rilanciare una – come viene definita – “pastorale silenziosa”, fatta da comunità aperte, accoglienti, umili, vive… che devono sforzarsi di esserlo, di diventarlo”. “Guardiamo le persone con la coda dell’occhio, sappiamo che ci sono, ma manteniamo le distanze". “Non i capi di stato ma i santi hanno creato comunione”. “Il protagonismo non produce granchè, meglio accordarci sul diapason della Parola. Invece spesso il sacerdote fa la sua suonata personale e il parrocchiano ha la sua propria sinfonia”.
“Comunità-sentinelle” e "alberi" che sostengono la montagna
Don Angelo propone: costruiamo ‘comunità-sentinelle’”. Il pensiero vola subito alla GMG 2000 e alle “sentinelle del mattino” di wojtiliana memoria… Il campanile è lì come segno di quella verticalità che deve interiorizzarsi nel cristiano per innervarne l’azione di evangelizzazione. Si ritorna sui concetti e non a caso uno degli argomenti proposti si chiamava proprio “Chiesa in montagna: campanile o territorio?”; e qualcuno (il vescovo Caprioli nel suo intervento conclusivo) ha osservato in proposito che quella “o” poteva anche essere, interscambiabile, una “e”. Il presule della nostra diocesi, arrivato “a sorpresa” (la sua presenza non era stata annunciata), ha poi tirato le somme della giornata. E al termine gli abbiamo chiesto un commento (video).
E per finire... ritroviamoci!
In piena “zona cesarini” don Filippo Capotorto interviene per proporre che questo intenso appuntamento (che mons. Giovanni Costi ha chiamato “assemblea costituente”), che ha anche visto un gran numero di interventi dalla platea, ben moderati anche per quanto ha riguardato il rispetto dei tempi e questo ha permesso di ascoltare tante più voci, non rimanga cosa isolata. Occhi alzati e disponibilità sempre maggiore alla relazione e alla comunione. Continuando a camminare insieme.
La straordinaria partecipazione all’incontro di Marola di domenica scorsa promosso dai tre vicariati della montagna credo sia stata indotta anche dal titolo dell’iniziativa. Siamo infatti stati invitati a partecipare ad un incontro dal titolo: “Chiesa e territorio in montagna: quale futuro?”. Anche quel punto interrogativo finale evocava quello del Convegno ecclesiale della montagna di alcuni anni fa: “Vivere in montagna si può?”.
Personalmente, pur avendo preso visione dei sottotitoli (e preciso su Redacon infatti La Libertà mi è stata recapitata oggi lunedi 7… anche in questo siamo molto periferici) avrei voluto esprimere qualche pensiero su quell’assonanza col convegno del 2002/2003. Approfitto per farlo del prezioso strumento di Redacon.
Partendo dalla lettera con la quale il nostro vescovo indisse il 22 luglio 2002 il Convegno ecclesiale della montagna.
Conteneva tre indicazioni di fondo:
1) l’invito ad utilizzare il convegno per ripensare e rinnovare modalità di presenza della Chiesa in montagna;
2) il favorire l’intrecciarsi di legami (“gemellaggi”) tra l’intera diocesi e la sua montagna (come una “sorella maggiore”, scriveva il vescovo);
3) il mettersi intorno ad un tavolo di tutte le realtà ecclesiali della montagna con le istituzioni e le autorità di governo per concordare insieme il proprio cammino nel prossimo futuro.
Credo di non essere lontano dal vero dicendo che il Convegno si è focalizzato soprattutto sulla terza indicazione, previlegiando l’approfondimento sul piano sociale ed economico della montagna e aggiungo che non mi pare sia stata una scelta ma l’imporsi di una urgente priorità che permea e condiziona ogni altro aspetto della vita in montagna.
Ed è anche per questo che mi chiedo se non sia “colpevole” aver spento come Chiesa i riflettori sulla realtà sociale ed economica del nostro territorio a partire, disse il Convegno, dal territorio di crinale.
Ciò detto è meritorio l’avere promosso questo nostro incontro focalizzando la nostra riflessione proprio sulla prima indicazione del vescovo all’indizione del convegno della montagna e cioè ripensare e rinnovare modalità di presenza della Chiesa in montagna.
Ma se lo studio, l’approfondimento, il dibattito esteso sugli aspetti socio-economici della montagna ci ha prevalentemente occupati per un anno, credo che al ripensare e rinnovare modalità di presenza della Chiesa in montagna dovremmo dedicare molto più tempo di quanto si è potuto fare comunitariamente domenica a Marola. E capisco bene anche il rischio, insito in ogni assemblea, della dispersione, magari protestataria o nostalgica, di un dibattito aperto ed è del tutto comprensibile quindi l’esigenza di favorire la stringata concretezza del contributo di ognuno; io peraltro auspicherei che oltre all’annunciato rinvio al dibattito nei vicariati, siano previsti anche spazi assembleari (magari da agevolare con lavori di gruppo) pazienti ed aperti.
Penso così anche perchè mi pare che il momento storico che ci è dato di vivere, nel quale siamo comunque immersi, è così tortuoso e difficile che porta ognuno ad un grande disorientamento. A questo disorientamento, richiamato anche dai vescovi italiani negli “Orientamenti pastorali per il decennio 2010/2020”, noi che viviamo in luoghi più “periferici” aggiungiamo le peculiarità che ci contraddistinguono chi più che meno:
– prevalenza di popolazione anziana;
– scarsità di “numeri”;
– distanze considerevoli;
– demoralizzazione diffusa.
Le mie tre proposte sono:
a) passare dalle messe “mordi e fuggi”, figlie del precetto, a celebrazioni comunitarie più preparate e meno diffuse;
b) mantenere accanto ad ogni “campanile” comunque la celebrazione del giorno del Signore pregandolo e celebrandone la Parola;
c) il sacerdote sia unicamente guida spirituale, ogni altra incombenza sia demandata ai laici.
Un sentito ringraziamento ai vicari ed a mons. Costi per la promozione ed il coordinamento di un lavoro importantissimo ed urgente.
(Claudio Bucci, Parrocchia di Busana)
Avrei desiderato partecipare al convegno di Marola di domenica 6 novembre. Come ebbi la gioia di partecipare a quello del 2002 “Vivere in montagna si può”. Amo la chiesa e la nostra montagna. Ora la mia l’età è avanzata, io però nutro viva speranza di poter vedere concretizzarsi più sviluppo economico sulla nostra montagna e un chiesa più viva e attenta, che tenga conto degli anziani che vivono esperiensa di vita e di fede cristiana che possono dare il proprio contributo anche nelle assemblee. Il mio lamento sta dentro la mia parrocchia disattenta a non proporre l’invito anche ad anziani che non hanno mezzi di trasporto. Cio che hanno detto mons. Costi e don Capotorto non rimanga cosa isolata. Ho letto il commento di Claudio Bucci che mi è molto piaciuto e tutto condivido. Confido nel buon DIO.
(Angiolina Casoni, Felina)