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Profughi o immigrati?

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La televisione credo ci renda ormai assuefatti anche ai drammi più odiosi e intollerabili. Vedere i barconi stracarichi, spesso con donne e bambini, che riescono (non sempre!) a raggiungere l’isola di Lampedusa è ormai notizia di routine. Avere alcune di queste persone presenti nei nostri piccoli paesi, come accade da diverse settimane a Cervarezza, dove sono ospitati presso un albergo (circa una decina), richiede una riflessione meno superficiale. I commenti più frequenti che si sentono sono di biasimo per una spesa che lo Stato sostiene per il loro sostentamento, oltre a molti altri che preferisco non riferire.

In un recente dibattito S.E. Mons. Marchetto diceva: “Certo bisogna riconoscere che la vita è composta di sentimenti, timori che a volte possono anche essere fondati: l’importante, però, è capire se certe paure siano ragionevoli oppure no, e se determinati fenomeni debbano essere considerati analizzandone in maniera limitata solo i rischi o vadano piuttosto inseriti in contesti ben più ampi”.

Occorre partire dal presupposto della distinzione tra i termini di “immigrato” e “rifugiato”. Il rifugiato è colui che fugge dal proprio paese perché ha subito una violenza, una tortura, una violazione dei propri diritti e gode di una protezione internazionale, come stabilito dalla Convenzione di Ginevra dell’Onu; gli immigrati fuggono da realtà in cui non è in atto una violazione dei diritti umani, ma sono le condizioni sono di fame, carestie, mancanza di lavoro.

Ebbene, questa decina di persone ospitate a Cervarezza – in parte provenienti dal Mali, di lingua francese, e in parte dal Ghana, di lingua inglese, che lavoravano in Libia, dove hanno lasciato i loro congiunti – sono in attesa delle verifiche, in corso, ovviamente non semplici, per accertare se si debba loro concedere lo status di rifugiato (cui concedere asilo) oppure di immigrato cladestino (da rimpatriare) in base alla nostra legge.

La riflessione che io vorrei brevemente fare cerca di guardare alla cause più o meno lontane di questo fenomeno che è mondiale. Con la ovvia premessa che la “regola d’oro” è che chi delinque è un delinquente e come tale va trattato, ma che molti sono in fuga da condizioni di vita sub-umane o da conflitti infiniti e cercano lavoro per vivere dignitosamente. Al di là delle opere di misericordia cui i cristiani sono chiamati a far riferimento, per tutti vale la Carta dei Diritti Umani sottoscritta da tutti i paesi civili; ma a me pare che ancor più noi che abbiamo avuto la fortuna di essere nati in Occidente dovrebbe esserci un sussulto di coscienza.

Secoli di colonialismo, “rapina” di materie prime, guerre che imperversano in Africa, hanno trovato spesso regie e interessi dell’Occidente sviluppato. Molto spesso si fanno combattere “per procura” gli africani fra loro, fornendo le armi per puntare a controllo delle imponenti risorse di ogni tipo di quel continente. Gli africano sono in gran parte ancora una società basata sull’agricoltura, ma l’Occidente tiene ben chiuso ogni spazio per eventuali esportazioni dei loro prodotti agricoli, magari sovvenzionando, come è accaduto in Europa, agrumi o altri prodotti destinati al macero.

Credo poi che molte storie individuali di queste persone, senza bisogno di riportarne alcuna, di cui abbiamo letto in questi anni, sono veramente agghiaccianti: privazioni e angherie di ogni tipo, violenze ed umiliazioni, un vero e proprio “calvario” per raggiungere il nostro mondo occidentale a rischio non metaforico dell’esistenza stessa. Di fronte a queste che non sono favole ma la vita concreta di milioni di esseri umani come noi, credo dovremmo essere meno “sbrigativi” nei giudizi, ma offrire, se non possiamo fare altro, almeno dignitosa accoglienza e calore umano. 

(Claudio Bucci – Tratto da “Oltre la Sparavalle”, n. 3, ottobre 2011)