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Ed ecco i proverbi montanari

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Savino Rabotti

Savino Rabotti è nato nella montagna di Reggio Emilia (a Castellaro di Vetto).
Cultore del dialetto, amante dei luoghi, dell'etimo, delle tradizioni e di tutto ciò che ricorda l'infanzia e i fatti correlati, ci regala una pagina di saggezza popolare.

ALCUNI PROVERBI

 Vogliamo dare un’occhiata a quella che viene definita “La saggezza dei popoli”, cioè i proverbi?  Ho ritenuto opportuno presentarne solo alcuni tra i moltissimi di cui dispongo. La maggior parte dei proverbi del mondo contadino si interessa delle condizioni atmosferiche. Ho detto del mondo contadino perché questa è stata la mia culla e, credo e immagino, anche la culla di molti di voi.

Logico, comunque! Dalla terra si ricavava tutto il cibo necessario alla sopravvivenza, sia per gli umani che per gli animali. E ciò che arrivava da cielo, (acqua, sole, neve, a volte anche il vento) era una benedizione.

Vi sono grato se intervenite anche voi citando le varianti locali.

Partiamo coi

                  Proverbi relativi al tempo

 

Molti di Noi ancora ricordano che l’anno agricolo iniziava con la festa di San Martino, l’11 Novembre. C’era un motivo valido e molto semplice: in questa fase dell’anno i lavori di campagna, quelli pesanti, erano già conclusi, i raccolti finiti, il terreno iniziava il lungo riposo invernale.

Far Sân Martîn (Martîn) indica, ancora oggi, un cambiamento di alloggio, un trasferimento ad altro luogo per infiniti motivi.

Ironicamente (e speriamo il più tardi possibile), indica anche il passaggio da questo mondo all’altro.

Ed ecco, subito, un accenno alla precarietà della vita umana:

L’istâ d’ San Martîn

al dûra tri dì e un puchîn. (Durâr)

 

Attendere o, peggio ancora, superare S. Martino per seminare il grano non conviene: il terreno è troppo bagnato e il freddo imminente potrebbe danneggiare il seme. Infatti,

Chi ch’a smêna a San Martîn

al gh’ha la sperànsa dal purîn,

perché  al purîn, o purèt, o puvrâs era colui che doveva andare all’elemosina oppure, (se la fortuna non lo ignorava completamente), andare a spigolare.  Comunque a San Martino ogni lavoro importante doveva essere concluso.

Dicembre. La prima proposta?

Santa Bibiana  - quarânta dì e ‘na stmâna. (Quarânta)

Di sicuro il motto risale almeno al Rinascimento, visto che abbiamo il corrispondente, scritto in un latino forbito:  Ut Bibianæ dies / sic quadraginta dies.

La neve e il gelo di sicuro non sono graditi alle persone. Immaginarsi allora, in assenza completa di riscaldamento. Tuttavia hanno anche loro un aspetto positivo. E lo sapevano bene i nostri antenati quando sussurravano:

 

Sùta a la nêva ‘l pân,

sùta a l’àqua la fàm,

condensato negli altri adagi:

Àn da nêva – àn da sgnûr

e

Méj un öv int al pulâr  - che ‘l sûl al dì d’ Nadâl

E, come avviene continuamente, un occhio osserva il tempo e l’altro il capitale, costituito dagli animali domestici:

Nadâl sensa la lûna

ad növ pègri gh’n’armàgn ùna.

Perché la luna la si vede se il cielo è sereno, e il sereno d’inverno comporta gelate estreme. Però la neve, gelando, ci mette di più a sciogliersi, così il terreno viene irrorato più lentamente e conserva sotto la coltre nevosa quel teporino sufficiente a mantenere in vita i semi che poi daranno il cibo per l’uomo e il foraggio per gli armenti. Ma se non vi sarà foraggio bisogna eliminare il bestiame eccedente.

L’Epifania - túti ‘l festi la pâra via,

fin ch’a n’ rîva San Bendèt

ch’a n’in pôrta un bel sachèt.

San Benedetto un tempo si festeggiava il 21 Marzo, inizio della Primavera e periodo Pasquale. Oggi lo si festeggia l’11Luglio.

Non manca in questo periodo una nota di colore, che però cambia data a seconda delle località: nell’Italia centrale il fenomeno succede per l’Epifania, in altre località la notte di S. Antonio abate, a Istria la notte di Natale:

La notte di Befana nella stalla

parla l’asino, il bove e la cavalla.

La nòte de Nadàl  - tūte le bestie sà parlār.

A Febbraio abbiamo uno dei principali momenti che il contadino dedicava a presagire il futuro. Di questi momenti i più importanti lungo l’arco dell’anno erano: S. Bibbiana, S. Paolo dei segni (25 Gennaio), la Candelora, le Calende, e altre di carattere locale.

Quand a vên la Candelôra

da l’invêrn’ i’ sèma siamo föra.  (candelôra).

 

So che esiste un numero imprecisato di varianti di tale proverbio. Per esempio?

(Spazio al pubblico)

Vi interessa sapere da dove deriva una parola così strana, quasi in contrasto con la delicatezza della festa della Purificazione?  Si tratta di una storpiatura, che il Devoto spiega così: la ricorrenza veniva detta festa (o festum) candelarum oppure festa cereorum. Tramite un latino molto approssimativo abbiamo: Festa candelarum diventa Candelora, e Festa Cereorum diventa Seriöla. Sigajöla  invece è un termine onomatopeico legato al vento gelido che spira in quel periodo.

Tuttavia non conviene fidarsi troppo dei detti popolari (molto spesso un proverbio ha anche il suo contrario)! Nel seguente caso la diffidenza può diventare preghiera, invocazione (devozione non credo, paura forse sì!):

 

Fervâr, Fervarîn

sa stâr i cuntadîn.

Fervâr, Fervarìa

tú-c i dì ‘na malatìa! 

 

Marzo vien detto Pazzerello. Conviene allora essere prudenti:

Se t’ ghê un bel sucûn

rispàrmiel per Marsûn.

Aprile inizia con lo scherzo del pesce, che da noi si diceva Fâr purtâr al cúch. Il fatto era legato all’arrivo del cuculo, uccello migratore, che ritornava appunto in questo periodo.

Al cúch l’ha da gnîr

tra ‘l sèt o l’ot d’Avrîl.

S’a n’ vên tra ‘l set e l’ot

o ch’l’è mort o ch’l’è còt!

A proposito di questo scherzo la gente commentava così:

riferito alle donne:

Al prìm d’Avrîl

túti gli ôchi gli ên in gîr.

riferito agli uomini, (ma qui siamo in Romagna):

Al prém d’Avrîl

tót i bèch i’ vân in gîr.

 

L’arrivo delle rondini e l’andamento della campagna erano in relazione:

S’a cânta prèst la rundanîna (Primavera precoce)

l’è pu’ rèmel che farîna.

E passiamo a Maggio che non deve essere piovoso altrimenti il grano non produce semi turgidi ma solo foglie rigogliose:

Maš urtlân

tanta pàja e pôch pân (o pôch grân).

 

Arriva l’Estate, e qui addirittura si chiama in causa un santo in occasione del cambio dei vestiti:

Se t’ vö che ai tö pàn

la tignöla la n’ fàga dàn

fàgh ciapâr la guàsra d’ San Švàn.

 

 

 

E, per il raccolto?

L’aqua agustâna

la fa crèser la castâgna.

Quando ormai i prodotti autunnali sono formati, più che di acqua hanno bisogno di sole. Le tiepide giornate soddisfano ancora tutti:

Setèmber mît

al le  gôd anch i pît!

 

Le cime dei monti sono un punto costante di riferimento per l’osservazione e la previsione del tempo. Poteva sfuggire il Ventasso?

Quand al Ventàs al gh’ha ‘l capèl

a n’ la perdûna gnân a su’ fradèl.

 

 

Proverbi del comportamento

 

L’esperienza è la miglior maestra di vita, ma non sempre basta la buona volontà.

E in questi due motti torna in ballo l’eterna rivalità tra nuora e suocera:

 

La gàta vècia la pêla cla šùvna.

 

La scúa növa la pulìs méj la cušîna,

ma cla vècia l’arîva in tú-c i cantûn.

Esistono alcuni principi basilari che tentano di dimostrare l’animo delle persone. In questo caso parliamo dei tirchi:

 

A dâr e artör - a va la bìsa al cör.

 

Roba rubâda - la n’ fa né pro né parâda.

 

Poi delle male lingue:

 

Al ciàc-ri gli ên cmé ‘l srêš:

t’in sêrch  úna, t’ n’in càt dêš.

 

Fino ad arrivare alla notissima strofetta che invita una benemerita scocciatrice a togliere il disturbo:

A sûna l’Avemaria!

I’ n’ dìgh mia per lê, sgnûra Maria,

ma se mè i’ fúsa in cà sua

cme lê l’ê in cà mia

i’ m’n’in turê sú e i’ m’ n’andarê via.

 

La legge è uguale per tutti. Così si dice, ma sappiamo che ...

Cûn i sôd e l’amicìsia

la s’ fà in bârba a la giustìsia.

 

E che dire dell’adattabilità di certe coscienze di fronte a possibilità di guadagno o di carriera?

La cusiênsa l’è un calsèt

‘na volta lârgh, ‘na volta strèt.

 

Sarà per questo che

 

Chî ch’ gh’ha la cusciênsa sporca

l’ha sémper pajûra!

 

Ci sono dei sacrifici che non vengono retribuiti giustamente.  E ciò non induce all’ottimismo!

Chi ch’ lavûra al mangia,

chi ch’a  n’ lavûra al mangia e al bèv!

 

E questo ci suggerisce una filastrocca arcinota, considerata un poco la descrizione dell’Homo politicus, perché tale sembra essere il comportamento di costoro:

Òm, bel òm,

fûrb e lâdre e galantòm.

 

No comment! Ma è arrivato il momento per una digressione. La strofetta ha ormai perso il suo senso originale per passare ad un secondo significato, e ci lascia un poco perplessi per le contraddizioni espresse. Ma inizialmente chi recitava la filastrocca si trovava di fronte una persona il cui vestito mostrava una bella sequenza di bottoni sul davanti. In una specie di conta li scorreva dall’alto al basso pronunciando la formula. Se di bottoni ve ne era uno ci si fermava a uomo; se erano due a bell’uomo; se tre a furbo, poi a ladro e infine a galantuomo. Per cui conveniva avere almeno cinque bottoni, o un multiplo di cinque, come i leggiadri abatini del settecento.

In fatto di ambiguità politica ricordiamo volentieri il detto che circolava a Villaminozzo quando, per interessamento di Umberto Monti, ci fu un gran da fare per spostare gli uffici amministrativi in un zona centrale a tutto il territorio comunale. Promesse tante, ma alla fine:

Gîra e prìla, gîra e prìla,

ma e’ Cumûn l’armàgn a Vila.

 

Chi ha formulato il seguente adagio di sicuro non aveva rapporti idilliaci col parentado:

 

I parênt i’ ên cmé i  stivâl:

pu’ i’ ên strèt e pu’ i’ fân mâl!

 

Si potrà anche scherzare sugli atteggiamenti di certe persone tendenzialmente avare. Tuttavia utilizzare al meglio le cose, alla fine, porta vantaggi anche economici.

Tút l’artûrna bûn,  anch a-gli úngi per plâr l’àj.

 

che trova conferma in quello più noto:

 

A n’ gh’é trìst cavàgn

ch’a n’ vègna bûn ‘na vôlta a l’àn.

 

E  il risparmio?

S’a gh’é i sôld int al burslîn

a s’ fà Nadâl e Pasqua e Sân Martîn!

 

Gratitudine:

Per gnênt gnân i cân i squàsi la cùa!

 

Laboriosità:

 

Chî ch’a n’ vôlta la manèla

a n’ girarà la canèla.

 

A gh’é chî ch’ prêga Noster Sgnûr

per pudêr catâr lavûr,

e pu’ ‘l prêga Santa Maria

pr’a n’ catârel mia.

 

 

La polenta ha sfamato generazioni di montanari. Non per questo era gradita:

 

La pulênta d’ furmentûn

la sadùla, ma la n’ fà bûn.

La sadùla ma la n’acuntênta!

T’gnìsa un cûlp a la pulênta!

 

L’avversione  alla “crema di mais”  è stata a lungo motivo di battibecchi, in periodo di transumanza, tra i nostri pastori diretti in Lunigiana e i padroni di casa. Costoro canzonavano i nostri con l’adagio:

Lumbardàs d’un lumbardûn,

s’a n’ ghe fúsa al furmentûn

t’ murirìs int un cantûn.

Ai provocatori i nostri rispondevano:

Garfagnîn d’ la Garfagnâna,

s’a n’ ghe fúsa la castàgna

t’ muriris dentr’ a la stmâna!