Una opinione pubblica smarrita non si orienta più. Un governo che nel giro di un mese e mezzo predispone 5 versioni diverse di una manovra dopo aver assicurato in luglio che tutto filava bene e che non ci sarebbe stato bisogno d'altro. Norme affastellate senza coerenza, senza un disegno. 28 articoli suddivisi in 250 commi, la previsione di oltre 150 provvedimenti attuativi, perché le norme abbiano efficacia nel mondo reale. Il senso della mancanza di una guida in un momento così tempestoso: guida ad alto spessore etico, ad alta credibilità, competente.
Per farci una opinione dobbiamo partire dai fondamentali.
Due problemi sopra tutti
I problemi dell'Italia, dal punto di vista della gestione della finanza pubblica possiamo così riassumerli:
spendiamo troppo rispetto alle risorse che abbiamo; spendiamo troppo anche perché siamo caricati del peso del debito da restituire, che ogni anno sottrae risorse ai servizi per i cittadini. E' stato calcolato che tra il 1996 ed il 2008 le entrate statali hanno superato le spese di oltre 500 miliardi di euro. Un enorme sacrificio (il prof. Fortis l'ha denominato SIL, il Sacrificio Interno lordo...) per pagare i nostri debiti;
cresciamo troppo poco; in un mondo occidentale che cresce poco noi siamo cresciuti nell'ultimo decennio della metà, nei due anni della grande crisi abbiamo perso il doppio del PIL e stiamo ancora crescendo la metà.
E' su questo meccanismo alto debito/bassa crescita che fanno la loro scommessa gli investitori internazionali. Ce la possiamo cavare parlando della cattiveria della speculazione (del resto corroborata dalle disastrose politiche della destra internazionale) ma la sostanza è più semplice: per pagare bisogna avere un reddito sufficiente, bisogna evitare di fare nuovi debiti. Se il debito cresce e il reddito cala per un po' gli investitori si accontentano di chiedere un interesse più alto, poi pensano che il rischio non vale la candela e investono in titoli più sicuri di latri stati, e l'offerta è molto ampia.
Quattro requisiti per le buone politiche
Dunque avendo a che fare con questi dati strutturali, aggravati dagli errori fatti dal governo o dalla mancanza colpevole di politiche attive, non si può galleggiare, fingere, tirare la palla in avanti, bisognerebbe il coraggio di radicali riforme. Ma per farle ci sono dei requisiti senza i quali è impossibile ottenere risultati.
La credibilità, interna ed internazionale. Conta di più di quel che si pensi, perfino per la definizione del rating internazionale, che dovrebbe essere un affare prevalentemente tecnico. Se l'Italia è riuscita ad entrare nell'euro è perché Carlo Azeglio Ciampi aveva una sua reputazione inattaccabile nei circoli finanziari internazionali. Perché Prodi era conosciuto per una persona seria. Ora come si può credere ad un Governo guidato da un personaggio come Berlusconi e ad un paese che non se ne sa liberare? Uno che guarda con simpatia ad ogni dittatore della terra, da Gheddafi al bielorusso Lukashenko, che dovendo scegliere tra Obama e Putin ha un moto cordiale di simpatia per Putin, che frequenta senza imbarazzi, e se ne serve, piccoli malfattori e ricattatori come Lavitola, che si espone a ricatti di ogni tipo, che travolge nella sua disordinata e compulsiva vita sessuale ogni convenienza, ogni regola, ogni rispetto umano. Non sono fatti privati, sono fatti che hanno inciso gravemente sulla reputazione del paese, bene essenziale in un momento così perturbato.
La coesione sociale. Sempre, nella storia della Repubblica è stato un motore essenziale per superare le difficoltà. Che si sia trattata della stagione drammatica del terrorismo, in cui una forte alleanza tra i partiti costituzionali, le forze sindacali, le istituzioni democratiche ha consentito di sconfiggere le brigate Rosse, a prezzo altissimo, ma senza sbandamenti, Che si sia trattato del duro periodo della crisi del '92, con l'Italia sull'orlo del fallimento, da cui siamo usciti con una stagione di concertazione sociale, sostenuta con grande coraggio dalle forze sindacali e coltivata con cura da governi lungimiranti. Oggi il governo disprezza la coesione sociale. Se può fare qualcosa lo fa per impedire l'incontro tra le forze sociali. L'introduzione del famigerato art. 8 nella manovra è sbagliato politicamente e tecnicamente. Tecnicamente perché accentua il dualismo del mercato del lavoro italiano, perché nelle aziende più piccole e meno sindacalizzate sarà facile imporre deroghe alla legislazione e ai contratti vigenti. Politicamente perché si pone come un macigno ad ostacolare il cammino dell'accordo di luglio tra tutte le parti sociali: un evento da festeggiare e soprattutto da sostenere in ogni modo, con un esplicito incoraggiamento da parte del governo. Si fa di tutto per distruggerlo, animati da una prevenzione ideologica imprevidente e dannosa.
L'equità. Per chiedere sacrifici occorre che vi sia la percezione nell'opinione pubblica che ognuno è chiamato a fare la propria parte, senza sconti per nessuno ed in modo proporzionato alle possibilità dei singoli. Ma questo è forse la parte più odiosa della manovra. La casualità dei sacrifici richiesti, la mancanza di proporzione, l'evidente squilibrio, l'iniquità di alcune norme. L'elenco è lunghissimo, ma bastano pochi esempi. L'aumento di un punto dell'aliquota maggiore dell'IVA, oltretutto senza utilizzare il nuovo gettito per ridurre altre imposte, ad esempio quelle sul lavoro, pesa principalmente sui redditi più bassi. Per il dieci per cento più povero pesa per il 5 per mille del reddito, per il 10% più ricco pesa solo per il 3 per mille del reddito. E per i più deboli tutto il reddito si traduce in consumo, mentre per i più ricchi resta una quota elevata di risparmio su cui l'IVA non agisce.
La delega fiscale, presentata in pompa magna al paese come lo strumento per ridurre la pressione fiscale e semplificare il sistema della tassazione al contrario prevede una gravissima distorsione. Se come è altamente probabile i tagli previsti non daranno tutti gli effetti sperati il Governo agirà con una riduzione delle agevolazioni fiscali, oltre a tagli insostenibili sull'assistenza. Dice Tremonti che sono oltre 400 e che non ha senso una tale pletoricità. Vero, ma quelle che contano sono poche: le detrazioni per i carichi familiari, per i mutui per la casa, per le spese sanitarie e per l'istruzione. Toccare queste agevolazioni significa incidere in modo tollerabile sui redditi reali delle famiglie più deboli. I tagli ai trasferimenti dei comuni significano meno servizi o servizi a domanda individuale più cari. Ancora una volta sui colpiscono i ceti che accedono a servizi pubblici essenziali per l'equilibrio dei loro bilanci familiari. Pensiamo al rinvio dell'erogazione del trattamento di fine rapporto per i dipendenti pubblici: dsono soldi dei lavoratori, trattenuti dallo Stato a fini di risparmio individuale, fondi su cui ogni lavoratore ha fatto le proprie previsioni: comprare un appartamento, cambiare la macchina, ecc. Lo Stato si appropria di denari non suoi, altro che non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Per i più ricchi non c'è un sacrificio proporzionato. E' restato un contributo di solidarietà solo per i dirigenti pubblici e per i parlamentari, per gli altro solo per i redditi superiori a 300.000 euro, una esiguissima minoranza,s senza sostanziale effetto per il risanamento.
Infine occorre lungimiranza. Dare il senso ai cittadini che sai dove stai andando, che prendi per mano il paese per guidarlo con mano sicura. La certezza che se oggi faccio dei sacrifici questo mi serve a non doverne fare di più pesanti per il futuro, a non farli fare ai propri figli. Si potrà pur criticare la storia dell'azione di governo dei Prodi, dei Ciampi, dei Padoa Schioppa, ma certo non mancava loro la lungimiranza. Scegliere di entrare subito nell'euro, chiedere sacrifici pesanti, una nuova tassa per l'Europa mantenendo poi la promessa di una restituzione. Senza quella lungimiranza, senza la disponibilità anche ad affrontare una impopolarità nel breve periodo dove saremmo adesso?
Basandosi su questi prerequisiti era possibile agire in modo diverso e più incisivo. Lo abbiamo dimostrato con il complesso dei nostri emendamenti alla manovra, che hanno individuato una strada alternativa: stessi risultati di risanamento finanziario (l'obiettivo dei saldi) ma con il rispetto di due riferimenti essenziali: una maggiore equità ed una maggiore crescita.
Il rigore di bilancio serve per l'equità
Il mantenimento dei saldi, cioè l'impegno di ridurre il debito ai livelli previsti dagli accordi un sede europea. Perché rendere sostenibile il debito è una leva essenziale delle politiche per l'equità. Non è una roba delle destre. Non si tratta di escludere, in senso keynesiano, l'uso del bilancio pubblico per politiche di crescita e di redistribuzione del reddito e di accrescimento dell'equità. Al contrario solo un bilancio pubblico non stressato si rende disponibile per politiche di equità e crescita. E' il bilancio in deficit strutturale che è uno strumento violento di accrescimento della disuguaglianza sociale. Va contro l'equità intergenerazionale perché si appropria di una parte delle risorse che appartengono alle generazioni future. Soprattutto costituisce un iniquo trasferimento di risorse dal cittadino produttore alle grandi banche e ai grandi investitori. Una parte dei redditi prelevati con la tassazione non viene restituita sotto forma di servizi ma viene trasferita alle grandi centrali finanziarie. Ed il paradosso di questo momento è che la finanza pubblica si è appesantita con enormi trasferimenti al settore bancario, travolto dalla finanza creativa e cioè sostanzialmente dall'avidità privata. Risanati i bilanci delle banche con denaro pubblico, ora le banche incassano interessi più elevati dai titoli pubblici, perché sono più a rischio in conseguenza appunto degli interventi fatti a favore dei privati!
Le proposte alternative del PD si sono organizzati attorno a tre pilastri: le politiche per una spesa più efficiente, le politiche per l'equità fiscale e le politiche per la crescita.
Salvare la buona spesa, estirpare la cattiva
Bisogna ridurre la spesa per rendere sostenibile il bilancio, ma la spesa non è tutta eguale. C'è la spesa buona, che fornisce servizi essenziali per il benessere, l'eguaglianza dei diritti, la costruzione del futuro (non solo investimenti materiali, ma anche investimenti sulla persona: scuola, sanità, ecc.) e c'è la spesa cattiva, quella che deriva dalla prestazione di servizi non essenziali, da procedure inefficienti, dall'alimentazione di clientelismi, dalla duplicazione di funzioni, da pervasività burocratica, ecc. Per questo abbiamo proposto una generale spending review, cioè una revisione totale della spesa pubblica: ogni euro speso deve essere verificato e giustificato, per vedere se rientra nelle priorità e se fa capo a processi virtuosi di efficienza ed efficacia. Il Governo ha accolto questa proposta sia pure indebolendola, vedremo ora se avrà la capacità di darne piena e coraggiosa attuazione. Bisogna lavorare sulla duplicazioni di funzioni: in Italia esistono due grandi istituti previdenziali, l'Inps e l'Inpdap, accanto ad altri minori, che fanno esattamente lo stesso mestiere. Una unificazione comporterebbe importanti risparmi. E' proprio necessario che in ogni provincia, anche la minore, vi sia la prefettura ed accanto molti uffici periferici dello stato? Come mai vi è una vistosa differenza di produttività nei diversi uffici territioriali? Tribunali che funzionano bene ed altri, che a parità di reati e magistrati in servizio hanno un servizio pessimo? Il ministro Brunetta si è dedicato con impegno ad insultare e screditare la categoria del pubblico impiego, di cui peraltro farebbe parte, ma non ha fatto nulla di concreto per introdurre sul serio la categoria del merito nella pubblica amministrazione, accompagnato anche in questo caso da una generale verifica delle prestazioni e dei processi in direzione appunto di premiare il merito e il servizio al cittadino.
Dentro questo capitolo ci mettiamo naturalmente quello dei cosiddetti costi della politica. Termine generico che contribuisce ad alimentare un confuso dibattito pubblico, alimentato dai mass media spesso senza riguardo alla necessità di una informazione completa. Premesso che i "costi" diventano costi perché è la politica che è percepita come inefficacie, non credibile, intempestiva e che solo affrontano questi nodi si può risolvere in modo positivo la percezione così largamente diffusa di un costo eccessivo della politica, anche su questo piano occorre agire con determinazione. Distinguendo i concetti. I costi della democrazia: ciò che serve ad evitare che i partiti, la cui funzione è ben definita dalla Costituzione, siano prigionieri dei poteri economici e non abbiano accesso ai mezzi di informazione. I costi della struttura istituzionale: quanti livelli di governo, quanto spazio all'iniziativa pubblica. I costi della rappresentanza: quanto è giusto pagare chi fa il parlamentare, il consigliere regionale, il sindaco, ecc.
Su tutti questi punti il PD ha fatto le sue proposte: il finanziamento pubblico legato alla natura democratica dell'organizzazione dei partiti, la semplificazione dell'architettura istituzionale: meno parlamentari perché si sono sviluppati altri istituti di rappresentanza, a livello regionale ed europeo, riorganizzazione di tutti gli enti intermedi, dalle province all'eccessivo numero di enti e di consigli si amministrazione, ad una razionalizzazione delle modalità di remunerazione del lavoro politico (eliminazione dei vitalizi, indennità aggiuntive legate alla effettiva presenza nelle aule e nelle commissioni), ecc.
Sacrifici in base alle possibilità: un fisco meno pesante e più equo
Il secondo pilastro è costituito da una tassazione più equa. Berlusconi ha vinto tre campagne elettorali promettendo una riduzione della pressione fiscale. Volta a volta promettendola per tutti, o promettendola ai più ricchi, o compiacendo e giustificando il popolo degli evasori. Ma l'effetto di queste promesse è incredibile. In Italia abbiamo ora, sotto la cura di Berlusconi, la pressione fiscale più alta da quando esiste la Repubblica italiana. In nessun altro momento della nostra storia è stata così elevata e così bassa la qualità e la quantità dei servizi ricevuti dai cittadini. Pressione fiscale elevata e molto sperequata: la maggior parte del gettito si carica sull'IRPEF dei redditi più bassi e sulle imprese in regola con il fisco e dunque la pressione fiscale di fatto è ancora più elevata sulla fascia dei contribuenti onesti.
Perciò e ovviamente lotta all'evasione primo strumento di una maggiore equità fiscale. I governi di centrosinistra l'hanno fatto, hanno ottenuto risultati importanti, probabilmente abbiamo anche perso le elezioni su questo punto. La linea di condoni tremontiani ha distrutto l'affidabilità del sistema. Ora riconoscono che è un dovere. Nella manovra di agosto reintroducono una parte delle vituperate iniziative del governo Prodi in materia fiscale. Si parla di manette agli evasori: virtuali, perché eventualmente riguarderebbero evasioni superiori a tre milioni di euro. Abbiamo perfino la campagna televisiva con l'evasore paragonato a spaventosi parassiti. Un evasore sudaticcio, scamiciato, con la barba lunga: sarebbe magari stato più appropriato un evasore con giacca e cravatta, che sono quelli che fanno più danni.
Per la lotta all'evasione poco servono le chiacchiere. Intanto occorre essere credibili sul fatto che la parola condono non esista nel vocabolario dell'amministrazione fiscale, mentre esponenti della maggioranza continuano a riproporla e per ciò stesso incentivano il contribuente disonesto a restare tale. Poi occorre fare a tappeto due cose semplici: ridurre fortemente l'uso del contante, che è il principale strumento di pagamenti in nero, senza lasciare traccia. Ci sarà pure un motivo sul fatto che le statistiche ci dicono che l'Italia è il paese europeo, tra quelli più grandi, a più alta evasione ed è quello che ha il più basso uso di "moneta elettronica": l'uso delle carte di credito in Italia è poco più della metà della media dell'eurozona e le transazioni effettuate per abitante sono meno di un terzo della media europea, includendo paesi a più basso pil e a più debole struttura produttiva, a più basso consumo. Poi occorre estendere il principio del conflitto di interesse. Lo abbiamo fatto sulla filiera dell'edilizia, con le norme della ristrutturazione al 36% e dell'efficienza energetica al 55%. Hanno avuto un enorme ruolo nel fare emergere evasione fiscale e contributiva, talché norme così positive per i cittadini si sono pressoché autofinanziate.
Spesso il ministro Tremonti ha parlato che le linee di una riforma fiscale dovrebbero essere indirizzate si questa formula: dalle persone alle cose, dal lavoro alle rendite. Siamo d'accordo. Per questo abbiamo giudicato positivamente la scelta di rivedere la tassazione delle rendite finanziarie, innalzando la tassazione sugli strumenti finanziari ed abbassando quella sui conti correnti. L'abbiamo proposto da molti anni, inascoltati, e quando tra l'altro i mercati finanziari erano più tranquilli. Comunque meglio tardi che mai.
Ma non si capisce la resistenza ad introdurre in Italia una forma di tassazione dei patrimoni, come c'è in molti paesi dell'occidente.
La situazione dell’Italia è questa. Vi è una consistente ricchezza privata. Rispetto ai redditi dichiarati - particolarmente bassi per le categorie che possono evadere il fisco - la ricchezza privata è pari a 8.300 miliardi di euro, sei volte il PIL. 170 miliardi di attività di portafoglio sono detenute all’estero senza essere denunciate, nonostante lo scudo fiscale. 2/3 di questa ricchezza ha natura immobiliare.
Vi è un’alta concentrazione e disuguaglianza nella distribuzione. Il 10% più ricco della popolazione detiene il 44% della ricchezza privata.
C’è in Italia un a pressione fiscale sui cespiti patrimoniali particolarmente bassa ed in calo. Secondo i dati Eurostat nel 1995 l’Italia era più o meno alla pari con gli altri paesi europei, con un gettito dato dalle varie forme di imposte patrimoniali pari a circa il 10%. Oggi i dati sono il 5,8% per l’Italia, il 10,5 per la Francia, il 14,9 per il Regno Unito, l’8,7 per la Spagna. Il Fondo Monetario calcola che se l’Italia portasse il peso della tassazione sugli aspetti patrimoniali a quello medio di Canada, Usa e Regno Unito (noti paesi comunisti…) si avrebbe un gettito aggiuntiva pari ad un punto di PIL.
Tra l’altro gli studi economici dimostrano che la tassazione sul patrimonio è quella che ha meno effetti depressivi sull’attività economica. Abbiamo proposto un intervento del tutto ragionevole. Una imposta sui grandi valori immobiliari pari allo 0,50% per i patrimoni superiori a 1.200.000 euro e dello 0,80 per quelli superiori a 1.700.000 euro. Un intervento equitativo, perfettamente sostenibile ed in linea con quanto praticato negli altri paesi occidentali. Quindi l’opposizione della maggioranza ha una natura puramente ideologica: i ricchi non devono pagare nulla, deve pagare il ceto medio e devono pagare i poveri sotto forma di privazione di servizi essenziali.
Solo con una maggiore crescita si risana il bilancio
Infine il terzo pilastro: quello della crescita. Lo Stato non può sostituirsi all'impresa, ma certamente può contribuire a creare un ambiente più favorevole per le attività economiche. Le nostre proposte: sostenere i buoni investimenti, ad esempio quelli in innovazione e buona occupazione. L'aumento dell'IVA, che pesa sempre sui redditi più deboli, almeno avrebbe dovuto servire a finanziare una diminuzione dell'IRAP e perciò del costo del lavoro. Tra l'altro c’è uno studio del Fondo Monetario Internazionale che calcola un indice di efficienza dell’IVA: se tutto il consumo effettuato producesse un gettito pari all’aliquota normale dell’IVA l’indice sarebbe pari a 1. Contribuisce a ridurre l’indice l’evasione e l’eventuale diffusione di aliquote agevolate. In Italia l’indice è 0.36, siamo terzultimi su 16 paesi. La Francia è a 0,45, pur avendo aliquote IVA più basse: al 2,1 e al 5,5 quelle agevolate, al 19,6 quella ordinaria, rispetto ai nostri 4, 10, 20. Se andassimo all’indice della Francia attraverso la lotta all'evasione fiscale, la revisione delle agevolazioni, un più diffuso conflitto d'interesse avremmo un gettito aggiuntivo di un punto di PIL senza variare le aliquote.
Introdurre semplificazioni coraggiose: la tassa burocratica per le imprese è maggiore di quella fiscale, in termini di costi e tempi dei procedimenti. Ci hanno fatto un ministero, hanno fatto il falò delle leggi inutili, ma la vita quotidiana delle imprese non è cambiata: si è calcolato che le 81 procedure a maggiore impatto per le imprese comportano un costo annuo di 23 miliardi di euro.
Occorre liberare i mercati chiusi e meglio proteggere i consumatori. I dati dell'inflazione tornano ad essere pesanti, particolarmente in alcuni settori. Nell'ultimo anno si è avuto un aumento di questa dimensione, e con l'incremento dell'aliquota Iva le cose peggioreranno: +17% gasolio, +10% gas, +8% ferrovie, + 5% assicurazione auto. Cosa hanno in comune questi settori: una concorrenza imperfetta a danno dei consumatori. E non è un caso che l'unico comparto in cui vi è stato un calo dei prezzi è stato quello dei prodotti farmaceutici, dove la liberalizzazione introdotta da Bersani con le parafarmacie ha consentito un vantaggio evidente per il consumatore.
Occorre anche rimediare ad un dualismo del mercato del lavoro che non solo crea ingiustizia tra tutelati e non tutelati, ma deprime la crescita, perché l'eccesso di flessibilità in una parte impedisce l'accumulazione di capitale umano e incrementi della produttività totale dei fattori che non siano solo legati al basso costo del lavoro
Pur in un quadro di risorse scarse bisogna anche a fini congiunturali sostenere gli investimenti. In particolare con una edizione meno stupida del patto di Stabilità Interno si potrebbe consentire a comuni che hanno fondi propri di procedere ad un ciclo di lavori pubblici che avrebbe un effetto tonificante sull'economia.
La tassa della cattiva politica
Proposte concrete dunque. E di fronte a queste proposte quasi sempre dinieghi immotivati. Soprattutto la mancanza di un disegno lungimirante. Un Governo ripiegato sulle proprie contraddizioni, incerto e spaventato su tutto. Il paese sta pagando una tassa della cattiva politica. Come ha osservato un economista affatto prevenuto nei confronti del Governo, Marco Fortis, "una strategia economica per essere credibile necessita anche di un Governo che sia credibile. Ed è soprattutto questo che oggi ci manca, più che i numeri". Il paese paga un enorme costo per questa mancanza di credibilità. Per questo Berlusconi deve essere cacciato. Perché serve al futuro del paese, anche dal punto di vista della tecnica economica e perché è pronta anche una ricetta alternativa per gestire il paese nel cuore della crisi, come hanno dimostrato le proposte del Pd.
(Paolo Giaretta, senatore Pd)