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I legami claustrofobici

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All’inizio ogni relazione ha tinte calde e entusiasmanti. L’altro appare sotto una luce affascinante, spesso è idealizzato. Grazie a un meccanismo proiettivo egli è investito da quanto vi è di più positivo, le sue doti diventano salienti, e in primo piano si mettono le qualità che sembrano emergere oscurando tutto il resto. Col procedere della frequentazione iniziano spesso incomprensioni, volontà di cambiare l’altro, desiderio di esclusività, tentativi di limitare la libertà altrui in nome della relazione, bisogno di avere il controllo sull’altro, di avere certezze e rassicurazioni sempre maggiore. Tali necessità possono diventare ossessive, patologiche, claustrofobiche all’interno della coppia.

Perché si arriva a tanto?

Nella relazione entrano in gioco dinamiche dettate, secondo Bowlby (1984), da un modello operativo interno che si eredita in base allo stile di attaccamento primario con le figure accudenti.

Qualora il bambino non riesca a instaurare un legame cosiddetto sicuro con la figura di accudimento, egli non sarà in grado di interiorizzare una base a cui tornare dentro di sé. Di conseguenza il suo modello relazionale con le future figure significative sarà guidato da incertezza, e da adulto diventerà un eterno bisognoso di rassicurazione.

Il bambino in fase evolutiva sperimenta uno spettro di emozioni a cui non sa dare un nome. Paure, angosce, rabbia, frustrazione per non ricevere quanto desiderato. Il genitore accoglie ciò che non è compreso e lo restituisce “pensato” e pensabile al bambino (Bion, 1967). Dandogli una spiegazione di ciò che sente, l’adulto lo aiuta ad alfabetizzare il suo vissuto, tenendolo per mano nelle tempeste incomprese dei propri confusi sentimenti, desideri, frustrazioni, delusioni, angosce e paure, ogni volta incoraggiandolo ad accettare quanto sta accadendo, invitandolo a sostarvi, e infine guidandolo fuori dall’alta marea, incoraggiandolo e insegnandogli a riconoscere quanto sente, rassicurandolo che quanto prova ha un senso ed è accettabile, e riconoscibile, comprensibile, lecito e legittimo.

La figura di riferimento svolge pertanto la funzione di costruire un significato a quanto vissuto dal bambino, e di attribuirvi un nome oltre che un senso, cosicché egli possa creare un ordine emotivo dentro di sé e saper come e dove collocare ogni esperienza del mondo interiore, senza sentirsi sbagliato, inadeguato per quanto sta vivendo.

Chi non ha fatto l’esperienza di essere accolto, contenuto, pensato, riparato da emozioni dolorose, resta come incompleto, irrisolto e facilmente da adulto andrà in cerca di relazioni in grado di riparare, risarcire, bonificare ciò che non è stato completato.

La relazione viene investita di un potere taumaturgico, e il partner vissuto come il sostituto della figura del genitore “buono” mancato, a cui richiedere attenzioni, contenimento, amore incondizionato, presenza, .

D’altra parte non è detto che il partner sia in grado di riparare gli elementi irrisolti dell’altro, perché egli stesso magari portatore di ferite ataviche e dolorose. E può sentirsi soffocare dalle richieste incessanti.

Iniziano quindi le incomprensioni, lotte di pretese e negazioni per proteggere uno spazio che è sentito come invaso dall’affamato di risarcimento per le cure mancate.

Il richiedente non sa sostare nello spazio di incertezza, poiché gli è mancato il supporto nelle prime nubi oscure attraversate, accumulando così dei buchi di rappresentabilità. Pertanto egli resta in richiesta perenne, in attesa che qualcuno arrivi ad alleviarne il dolore, e a garantirgli che quanto sta accadendo passerà. Egli reclama un sostegno continuo, non avendo imparato l’auto rassicurazione, l’autonomia emotiva, il pensare come cosa buona anche la sofferenza come facente parte di una scala cromatica accettata e compresa nella sua varietà.

Se l’altro non è sempre disponibile, allora si sperimentano sentimenti di abbandono che risvegliano sensazioni antiche e mai risolte. Il partner sarà punito per il presunto disamore, tacciato di insensibilità, accusato di non essere “abbastanza” qualcosa.

Si inizia col volerlo cambiare, affinché diventi come lo si vorrebbe, chiedendogli “di più”. Una raffica di richieste implicite o esplicite piovono sul rapporto a due, contrattazioni e negoziazioni che non bastano mai, fino a che il bisogno di controllarlo, spostarlo, aggiustarlo diventa primario, per portarlo a quella funzione, a quel modello ideale mancato e mai avuto.

Come uscire da questo schema?

Riconoscendolo innanzitutto. E poi, se la modalità relazionale è troppo disfunzionale e diventa immensamente dolorosa, è utile cercare legami satelliti come quello che si può costruire con uno psicoterapeuta, che svolga quella funzione di contenimento e di riordino emotivo, che sia in grado di restituire il non compreso come pensabile e accettabile.

Una volta fatta l’esperienza di potersi affidare a qualcuno che svolga il ruolo vicariante della figura genitoriale, si potrà ricostruire e interiorizzare quella base sicura finora sconosciuta e tanto ricercata. Da qui è possibile creare un luogo conosciuto dentro se stessi, ordinato e protetto. L’individuo sarà meno portato a cercare appigli esterni, e quindi diverrà in grado di instaurare relazioni sane, dove accade l’incontro con l’altro, ma poi sarà anche in grado di tornare a se stesso, senza sentirsi devastato per l’assenza e l’abbandono, capace di auto contenersi nei momenti “vuoti”, facendo l’esperienza di un vuoto fertile, vissuto non come privazione ma come infinita possibilità esplorativa di sé e del mondo.