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Morte agli italiani! Il massacro di Aigues Mortes, 1893, ai “Martedì letterari” con gusto alla Casa cantoniera di Casina. Aggiornamento: un documento che ci segnala il prof. Giuseppe Giovanelli

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Che cosa sappiamo davvero della nostra emigrazione? Di quella degli italiani e di quella dai nostri monti? In quali condizioni si trovavano a vivere quelli che cercavano lavoro all’estero, come venivano accolti? A volte sono gli episodi estremi a illuminarci sulla quotidianità e l’incontro di martedì 16 agosto alle 21 alla Casa Cantoniera di Casina con Enzo Barnabà autore del libro Morte agli Italiani! Il massacro di Aigues Mortes, 1893, è certamente un’occasione per chi ama conoscere tutte le facce della storia.

Storico e francesista, di Grimaldi di Ventimiglia ma con lunghi soggiorni di studio e insegnamento all’estero, Enzo Barnabà ha condotto su questa pagina tragica della nostra emigrazione una ricerca ampia e complessa per le fonti esplorate e i materiali considerati ma esposta in un libro dall’impostazione semplice e chiara e di facile lettura.

La presentazione casinese avviene a 118 anni esatti da quel 16, 17 agosto 1893 in cui la furia omicida di alcuni operai e cittadini francesi contro i nostri lavoratori nelle saline di Aigues Mortes provocò 9 morti accertati e numerosi dispersi e feriti anche gravi. Tra questi ultimi Severino Grisanti di Castelnovo.
Questa informazione, riportata sul libro di Barnabà in una piccola nota, ha suscitato l’interesse di due ricercatrici locali, Dalmazia Notari e Giovanna Caroli. Le prime ricerche d’archivio condotte a Castelnovo indicano un secondo castelnovese ferito ad Aigues Mortes, Bernardo Ferri, e offrono un interessante spaccato della realtà economica e sociale sui nostri monti a fine Ottocento; sembrano poi far emergere come consistente il fenomeno migratorio anche dal capoluogo montano, almeno nelle frazioni di Garfagnolo e Costa de’ Grassi considerate nella ricerca.

Potremo saperne di più dalla stessa Dalmazia Notari che alla Casa Cantoniera introdurrà la ricerca di Enzo Barnabà e il contesto migratorio. Sarà poi l’autore a presentarci il libro Morte agli Italiani (ed. Infinito) e l'esperienza maturata nel campo dell'emigrazione ma anche dell''immigrazione cui è dedicato un suo romanzo, Il Ventre del Pitone.

La degustazione che conclude la serata sarà offerta da Latteria Sociale S. Giorgio di Cortogno, “da Sandro” pizzeria da asporto, Conad Casina e Bar Diana.

AGGIORNAMENTO

I fatti di Aigues-Mortes (e altre avventure) nel ricordo dei protagonisti di Maro

Da un giornalino scolastico della scuola popolare di Maro (per adulti) del 1937, retta dalla maestra Ada Gregori, alcuni passi di uno scritto di Adeodato Ferri che parla della emigrazione dei suoi compaesani in Francia, Tunisia e Algeria

I primi che emigrarono in terra straniera furono: Cani Giovanni, Ferri Erminio e Albertini Domenico, che partirono nella primavera del 1887. La fortuna di questi tre pionieri del lavoro non fu grande, ma le avventure furono molte. Quando, nel 1894, l’anarchico Caserio uccise Carnot, Presidente della Repubblica Francese, loro si trovavano proprio a Marsiglia: tutti gli italiani, anche i più innocenti, che si trovavano colà, furono presi di mira così che accaddero i fatti di Acqua Marcia [Aigues-Mortes, ndr], abbastanza scandalosi, e per i quali il Console italiano di Marsiglia dovette far passi verso il Governo francese e questo, a sua volta, sborsare un ingente somma d’indennizzi. Fu, in quest’occasione, che A. Grisanti di Costa de’ Grassi prese per 4.000 lire di bastonate!
Albertini Domenico, invece, che si trovava pure a Marsiglia, venne insultato da diversi fanatici: dopo ripetute ingiurie, scacciò l’insopportabile pazienza, trasse di tasca un pugnale: ben presto fè largo intorno a sé. Folla e poliziotti formarono un doppio cerchio per costringerlo alla resa e per fargli pagare un debito caro. Il cerchio aumentava, di minuto in minuto, quando gli Agostini, due compaesani spinti dalla curiosità, vollero vedere che cosa accadeva in quel mezzo e, più che stupefatti, scorsero il loro amico in tale pericolo. L’Albertini aveva fisso lo sguardo su i gendarmi e su quella serrata morsa nemica, da cui sarebbe stata pazzia pensare di fuggire, e non vide i due patriotti che, in quell’ora, erano fratelli. Gli Agostini furono audaci: salirono ben presto su una carrozza di piazza, ordinarono al vetturino di mettere al galoppo i cavalli e di forzare un varco in quel cerchio serrato: così fu fatto. E, in quella mischia, gli Agostini presero il compagno fra le braccia, gettandolo dentro la carrozza e portandolo a 10 Km di distanza. All’Albertini parve un sogno: eppure era vero!
Dopo qualche mese, Albertini sentì dire che in Africa si sarebbe fatto maggior fortuna: (…) A Tunisi seppe che, poco distante, stavano costruendo una ferrovia e che vi lavoravano parecchi uomini. Vi si diresse e fu assunto come minatore: colà ritrovò di nuovo il Serravolta con altri italiani. Ma lì nacque e germogliò qualcosa di peggio dei fatti d’Acqua Marcia: tutti gli operai francesi, spagnoli e africani si unirono per scacciare, da quel lavoro, gli italiani. Il perché non fu spiegato veramente, ma non poteva essere altro che per gelosia, dato che l’Impresa, per meriti di lavoro, dava la preferenza agli operai italiani su gli altri.
Da principio si credettero soltanto chiacchiere ma quando, una sera, la triplice intesa barricò la galleria, l’affare diventò serio. Gl’italiani erano in tutti circa trecento, neppure un terzo dei loro nemici, ma erano tutti uomini forti e, in quella notte, nessuno di loro andò a dormire: si strinsero tutti in una fraterna “ridotta” per consigliarsi. Abbandonare quel lavoro, dato che era un fatto abusivo, fra loro operai, voleva dire viltà. Ricorrere alle autorità? Da chi? Erano in terra straniera e si convinsero di adoperare tutta la forza che avevano per affrontare il nemico, il giorno dopo, a viso aperto.
Dato il numero preponderante dei nemici, taluni pensarono, però, di preparare un’imboscata ma gli altri risposero decisamente di no: avevano la ragione e non volevano nasconderla. I francesi, gli spagnoli e gli africani si erano radunati tutti nel piccolo paesetto e gl’italiani in un baraccamento, costruito appositamente per gli operai e distante circa un paio di km. Erano, forse, le 9 del mattino quando i due eserciti di operai s’incontrarono. Quelli della triplice intesa scesero per quattro in una lunga fila, dirigendosi verso il baraccamento, dove erano accampati, fin dalla sera avanti, tutti gli italiani. Entrambi si erano armati fino ai denti: che aveva il fucile, chi la rivoltella, chi la scure. E quando gli italiani udirono il frastuono e videro quella lunga colonna, composta di uomini di varie razze ma con in testa la bandiera francese, si guardarono in faccia, si alzarono tutti in piedi e vi andarono incontro. Erano a circa 40 metri di distanza, gli uni dagli altri, quando i francesi e compagni si fermarono e dissero: - Indietro gl’italiani! Via gl’italiani! - sparando, nel frattempo, fucilate a salve per intimorire.
Gli sguardi erano inferociti e il Serravolta pure sparò sul serio, colpendo a morte il portabandiera degli avversari. Allora la lotta divenne asprissima. L’Albertini raccontava di aver veduto, in quella tremenda mischia, un colosso indigeno che teneva stretti e immobilizzati, con l’uno e l’altro braccio, un toscano e un lombardo mentre da altri venivano fortemente percossi. Ma un veneto, che si trovava in posizione più comoda dell’Albertini, corse in loro aiuto, vibrando con tutta la forza un colpo di scure nell’occipite del gigante africano, dividendogli così il cranio in due parti. Quell’orrenda guerriglia durò circa un paio d’ore, finchè giunsero le autorità con la forza pubblica: i morti e i feriti, d’ambo le parti, s’aggirarono a qualche decina; solamente gl’italiani furono tratti in arresto e rinchiusi in un recinto, piantonato dai gendarmi. Ma, in questo caso, non si trattava di pecore timide allo stazzo, bensì di gente coraggiosa e decisa, momentaneamente sopraffatta dal numero e dalla ingiustizia.
Nella notte medesima uno dei più audaci, nonostante la stretta sorveglianza riuscì ad evadere e ad allontanarsi. L’Albertini ed altri quattro compagni non si lasciarono catturare dalla forza militare e si diedero randagi sopra una piccola boscosa montagna. Al quinto giorno, però, non trovando cibo, furono costretti arrendersi: prima vollero sapere notizie esatte dei loro compagni e così, sfiniti, si sedettero vicino alla carrozzabile che giungeva a Tunisi. Al primo europeo che ivi passò chiesero come trattavano gl’italiani. Questi rispose che li avevano rinchiusi tutt’insieme e che il loro gran patire era la fame. Allora L’Albertini e i compagni decisero di raggiungere i connazionali per condividerne la sorte, qualunque fosse.

1 COMMENT

  1. Un appello
    Grazie, Giuseppe, per la segnalazione che conosco per averla pubblicata in “La signora Ada”. Finora con i nomi citati non abbiamo trovato nessun documento ma siamo solo agli inizi della ricerca. Colgo l’occasione per lanciare un appello a chi avesse lettere o memorie di famiglia sull’emigrazione, in particolare a chi sa di essere discendente dalle persone citate o ha avuto un parente di nome Bernardo Ferri emigrato in Francia o parenti di cognome Grisanti e Pedori emigrati in America, a mettersi in contatto con me: [email protected].
    Grazie ancora, il discorso continua!

    (Giovanna)