Riceviamo e pubblichiamo.
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Stando alle notizie di cui disponiamo, col prossimo 31 dicembre, quindi fra pochi mesi, la Comunità montana dell’Appennino reggiano dovrebbe andare in pensione, per cedere il passo alle unioni dei comuni, ma sulla configurazione di queste entità i punti di vista dei nostri amministratori sembrano essere ancora piuttosto differenti, per non dire distanti.
Anche di recente gli organi di informazione hanno parlato di partita tuttora aperta, con una ipotesi prevalente ma non definitiva: dei tredici comuni componenti la Comunità montana reggiana i quattro cosiddetti del crinale (Busana, Collagna, Ligonchio e Ramiseto), già organizzati nell’Unione dell’alto Appennino, sarebbero orientati a proseguire così, mentre per i restanti nove si profilerebbe un’unica “grande unione”. Ma Toano e Villa Minozzo potrebbero anche smarcarsi per fare da sé; e vi è pure chi teorizza un maggior frazionamento, vale a dire unioni a dimensione più ridotta, tra comuni confinanti, ritenendole più adatte ad una gestione associata dei rispettivi servizi.
In un tale scenario di perdurante incertezza, stupisce e lascia francamente perplessi il fatto che i nostri amministratori, in mancanza di chiarezza sul dopo, abbiano deciso lo scioglimento di un ente che per decenni aveva simboleggiato l’unitarietà del territorio montano; e resta altresì un enigma perché mai durante il mandato 2004-2009 le forze politiche di maggioranza non abbiano mai voluto affrontare l’argomento in Consiglio comunitario, nonostante le ripetute ed insistenti richieste e sollecitazioni delle minoranze del tempo, che in proposito avevano espresso opinioni e formulato proposte con la dichiarata intenzione di poterle discutere e confrontare.
All’epoca la Regione Emilia-Romagna stava infatti elaborando la nuova normativa per il riordino territoriale e la razionalizzazione delle funzioni e sarebbe stato dunque il momento giusto per far sentire la propria voce in maniera “istituzionale”, fornendo un contributo di idee vagliate dal Consiglio comunitario; l’occasione andò purtroppo persa, verosimilmente perché la maggioranza non voleva in quel frangente acuire le proprie divisioni interne al riguardo, e rinunciò pertanto a confrontarsi con le altre componenti. Ma il problema che allora si volle inavvedutamente accantonare riemerge oggi con talune ulteriori complicanze.
Qualche elemento di retrospettiva può aiutarci ad inquadrare meglio il contesto e a ritrovare in qualche modo il bandolo della matassa.
Risale al dicembre 1971 la legge nazionale istitutiva delle comunità montane e i suoi principi furono in quegli anni travasati nelle diverse normative regionali, con il ben preciso scopo di ottenere il rilancio e la valorizzazione delle zone montane, tramite il conferimento di funzioni e il ricorso ad una pluralità di azioni socio-economiche volte a recuperare il divario e lo svantaggio rispetto ad altri ambiti territoriali.
Fin dalle sue origini la nostra Comunità montana ha saputo interpretare quello spirito vitale e sinergico, al punto che sulle grandi tematiche le forze politiche della montagna trovavano spesso posizioni unanimi, forse aiutate dal fatto che erano tutte rappresentate in giunta, cioè nell’organo esecutivo, pur con distinti ruoli. Le sedute consiliari erano per solito lunghe e dibattute ma sapevano arrivare al risultato.
Data a quel periodo il potenziamento dell’ospedale S. Anna - che assieme a Reggio e Guastalla andò poi a costituire la triade dei poli ospedalieri della sanità provinciale (secondo il piano Pal) - mentre oggigiorno il suo futuro appare piuttosto incerto, al punto da destare ricorrenti preoccupazioni. Si avviò inoltre l’ampliamento della rete scolastica di secondo grado, Fora di Cavola fu individuata come polo di espansione per le imprese artigianali ed industriali e venne acquisita l’area fiera di Castelnovo ne' Monti che doveva diventare la vetrina delle produzioni montane. Quattro esempi del vigore programmatorio che connotò quella stagione ormai lontana; senza contare gli interventi in campo agricolo e forestale...
Se, di riflesso, veniva rafforzata la centralità di Castelnovo, quale comune capoluogo della montagna, si puntava parimenti a non emarginare il restante territorio, secondo una visione d’insieme che diede ai montanari senso di identità e di appartenenza e alle istituzioni montane autorevolezza negoziale, tanto che la Comunità montana assunse la titolarità di deleghe in settori importanti e seppe diventare punto di riferimento per l’intera collettività.
Non è parimenti casuale che la Comunità montana dell’Appennino reggiano sia rimasta unica, diversamente da quanto avvenuto in province vicine dove abbiamo visto nascerne due o addirittura a tre; è la comprova che qui lo spirito unitario ha sempre prevalso su altre ragioni, un dato anche questo da non minimizzare o sottovalutare (e che rende per certi versi inspiegabili le scelte dell’ultima fase).
Pur se col trascorrere degli anni la propulsione iniziale può aver mostrato un qualche cedimento, sono sostanzialmente questi gli antefatti del quinquennio 2004-2009, quando salirono alla ribalta i costi della politica e del sistema pubblico e si pose il problema del loro contenimento. Le comunità montane furono tra i primi soggetti ad entrare nel mirino, anche perché, ad onor del vero, si erano moltiplicate oltremisura, e talvolta a sproposito, visto che non tutte possedevano il requisito della “montanità” (ma non era certamente la fattispecie reggiana).
Il 2008 è l’anno in cui l’Emilia-Romagna adotta la propria legge di riordino delle comunità montane (L.R. 30.6.2008, n. 10), che subiscono una riduzione numerica e vengono nel contempo assimilate alle unioni dei comuni, quali livelli istituzionali appropriati per l’esercizio associato delle funzioni e dei servizi e per la stabile integrazione delle politiche comunali, con l’obiettivo di superare la frammentarietà e di perseguire la coesione territoriale. Anche le spese “politiche” di funzionamento si sono azzerate, o quasi, visto che la giunta è ora formata esclusivamente da sindaci, senza indennità aggiuntive.
L’impianto di tale legge sembra voler spingere, o quantomeno predisporre, verso una graduale unificazione dei comuni, ma anche lasciando stare le interpretazioni, e fermandoci dunque allo stretto dettato della norma regionale, la nostra Comunità montana aveva tutte le caratteristiche per darvi puntuale attuazione. Circa lo svolgimento di funzioni associate, per stare ad un tema molto caldo ed attuale, vi era una duplice opportunità: esercitare sull’intero territorio quelle che richiedono una dimensione comprensoriale e per talune altre definire al proprio interno ambiti operativi più ristretti (muoversi cioè su due livelli: macro e micro aree).
I nostri governanti locali, con l’aggravante di non avere ancora individuato un’alternativa plausibile e condivisa, hanno invece scelto di privarsi di un ente ampiamente collaudato, che dava volto, identità e voce, alla nostra intera montagna - un tempo la Comunità montana si sarebbe di sicuro pronunciata sul taglio delle corse e delle fermate per gli autobus di linea e avrebbe agito da interlocutore nei confronti dell’Act - preferendo la via del suo frazionamento, proprio quando la tendenza generale, in vari settori di attività, sembra andare all’opposto, verso le “aree vaste”, proprio per l’economia di scala, cioè per ragioni di risparmio.
Forse un giorno qualcuno ci fornirà i motivi di questa scelta controcorrente, ma intanto bisogna obbligatoriamente guardare all’imminente futuro, riflettere cioè sulla nuova organizzazione che potrà darsi la nostra montagna vista l’ormai prossima scadenza del 31 dicembre (salvo giocoforza domandarsi a chi, successivamente a tale data, dovranno rivolgersi quegli innumerevoli utenti che per determinate pratiche facevano capo alla Comunità montana).
La strada delle due unioni, l’una di quattro e l’altra di nove comuni, non ci sembra molto appropriata, poiché, di fatto, si avrebbero due comunità montane più piccole, rispetto a quella unica di prima; vale a dire una riedizione del passato ma in chiave peggiorativa, con inutili duplicazioni. Tanto valeva dunque tenersi l’originale, una volta apportati quei pochi aggiustamenti introdotti dal disposto regionale del 2004.
Ma essendo giunti a questa tappa, nel senso che si è messo in archivio lo strumento che per quasi quarant’anni aveva dato unitarietà e rappresentanza al sistema montano, occorre adesso delineare con lungimirante pragmatismo i criteri intorno ai quali concepire le nuove aggregazione dei comuni - una sorta di filo conduttore lungo il quale procedere, anche con un occhio al domani - e a nostro avviso si dovrebbero tenere costantemente presenti, oltre ai collegamenti viari, le vocazioni e le consuetudini delle unità che si vogliono associare, vedi ad esempio gli scambi commerciali e la frequentazioni dei mercati, per non dire di altre e consolidate affinità o reciprocità.
Sembrano particolari di scarso rilievo considerando che le nostre abitudini sono indistintamente e profondamente mutate nel tempo, ma nel sentire delle nostre comunità c’è ancora qualcosa che fortunatamente sa resistere al trascorrere degli anni, perché affonda nelle tradizioni e anche nella storia dei nostri paesi e non andrebbe pertanto disperso; anzi varrebbe la pena di rivalutarlo, sorretti dai ricordi e dai racconti dei più anziani che ne sono la memoria viva e che vengono ascoltati più di quanto si creda al punto da lasciare sempre un qualche segno.
Fra l’altro, così facendo, se un domani si dovesse affrontare più nel concreto il discorso dell’accorpamento/unificazione dei comuni - andare cioè oltre la fase dell'unione - non ci troveremmo sprovveduti e impreparati e soprattutto non dovremmo ripartire ancora una volta da zero, reinventando faticosamente parametri e criteri (come appare essere la situazione odierna, visto che sinora l’incertezza sembra farla da padrona).
(Robertino Ugolotti, membro direzione provinciale Udc)