La comunicazione può avere diversi aspetti. Verbali, non verbali. Chi emette un messaggio lo fa avendo presente un codice di riferimento. Chi lo decodifica fa riferimento al proprio per decifrare. Accade spesso che ciò che si vuole comunicare venga frainteso, distorto, creando incomprensioni, soprattutto nei casi di alcune coppie, anche gravi.
Per comprendere le dinamiche relazionali occorre avere ben presente come avvengono i processi cognitivi che entrano in ballo quando due persone si comunicano dei contenuti. Watzlawick sostiene che è impossibile non comunicare. Il silenzio, il non dire comunicano moltissimo. Non rispondere a un messaggio può significare distrazione, ma anche volontà di togliere il contatto, innalzare un muro, escludere.
Una non risposta può essere violenta più di mille parole. Chi risponde, anche con poche parole, dà qualcosa di sé, si mette in gioco, partecipa. Chi risponde con il silenzio può mettere in atto una forma di comunicazione passivo-aggressivo, causando nell’altro una serie di emozioni.
Chi riceve il silenzio dell’altro lo vivrà in relazione al proprio schema di riferimento, creatosi in base al vissuto personale. Se la persona ha sviluppato una visione del mondo fiduciosa, penserà che l’altro avrà buoni motivi per non rispondere, che il silenzio non ha nulla a che vedere con sé, che chi ha agito il silenzio aveva altri motivi.
Se invece la persona che riceve il silenzio ha una bassa autostima, lo interpreterà come una disconferma, un insulto. Sentirsi ignorati ed esclusi scatena un dolore che può avere radici molto lontane, di quando c’era un bisogno primario dell’infanzia a cui non è stata data risposta.
D’altro canto chi attua il silenzio come modalità comunicativa, sa di avere un grande potere: negarsi.
È una condizione tipica nella coppia. Uno dei due vorrebbe parlare, dirsi cose, l’altro di fronte a una difficoltà chiude e risponde tacendo. Di fronte a un silenzio, chi vuole parole si sentirà impotente, escluso, ignorato, non considerato. Chi vuole tacere si sentirà invaso, e vivrà la richiesta di chiarire verbalmente come un’intrusione. La risultante sarà incomprensione.
Il silenzio richiama un’assenza, e può scatenare ansia abbandonica. Investire l’altro con parole suscita la paura di essere inghiottiti, aggrediti, fagocitati.
Inizia così una guerra che può sfociare in ciò che lo psicologo Luigi Anolli definisce escalazione: si inizia a vomitarsi accuse, urlando l'uno la propria frustrazione, l’altro esacerbando il proprio mutismo che si tinge di sfida, e di esclusione dell’esistenza del partner.
Come evitare di cadere in questa danza macabra?
Avendo cura di esprimere con chiarezza il proprio stato d’animo, e il proprio bisogno senza mettersi su una torre d'avorio, per voler essere capiti a prescindere, tenendo conto che: ognuno vede ciò che può vedere, quello che sembra non è mai, si legge il mondo con gli occhiali che ci si è costruiti con le esperienze precedenti.
È bene parlare sempre per se stessi, dicendo “io mi sento”, invece di “tu mi fai sentire”. Se l’altro si percepisce giudicato, si chiude, e il conflitto viene amplificato. Dire come si sta, sollevando l’altro della responsabilità di come ci sentiamo, può creare l’opportunità di capirsi. Arroccarsi su posizioni rigide ed estreme non porterà a nulla. Prima di arrivare a punti di non ritorno dove si dicono cose di cui ci si pentirà, è necessario riflettere, e abituarsi a chiedere a se stessi: se procedo in questo senso cosa otterrò? Molto spesso le accuse creano muri difensivi.
Prendersi la responsabilità di come ci si sente è senz’altro più produttivo che gettare tutto sull’altro, esprimere con esattezza la propria emozione in prima persona, pure.
Bisogna accertarsi di avere capito bene prima di scattare con arringhe, che magari provengono da altri vissuti, e riemergono in nuovi contesti. Se si è rimasti colpiti dal ricordo di una figura familiare che urlava in modo violento durante l’infanzia, sarà facile andare in ansia di fronte a un partner che alza a dismisura la voce, si verrà riportati indietro, a quando si era piccoli e non si riusciva a fronteggiare quanto stava accadendo, di conseguenza si sarà poco obiettivi sulla situazione presente. È utile riformulare quanto compreso, chiedendo: è questo che vuoi dire? Ho capito bene?
Spesso si hanno delle sorprese, ci si accorge che si è detto A e l’altro ha compreso B, o addirittura Z.
Invece di dire “non hai capito”, si può riformulare dicendo “non mi sono spiegato/a”. Le trappole sono infinite e il sentiero dialogico è cosparso di insidie verso il conflitto.
Il conflitto spesso così temuto ed evitato, non è in sé negativo, esso può portare a nuove aperture di senso, costringe a continue rivalutazioni.
La comunicazione è un’arte, con regole ben precise però. Nello scambio comunicativo entrano in gioco diverse variabili, quali capacità persuasive, manipolazione. Oltre a una serie di elementi cognitivi propri dell’essere umano, quali sistemi di credenze, profezie auto realizzanti.
E in una sequenza di parole vi sono vari livelli di significato. C’è un significato apparente in ciò che viene detto, ma ve ne sono sottesi altri. Esserne consapevoli aiuta a comprendersi meglio.
Per approfondimenti:
Paul Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana. Ed. Astrolabio, 1967.
Luigi Anolli, Fondamenti di psicologia della comunicazione. Ed. Il Mulino, 2006.
Bel commento
Condivido quanto scritto, ho appena finito di studiare Watzlawick all’Università (studio Scienze della Comunicazione) e mi è piaciuto molto pur non condividendo alcune cose.
La comunicazione è nella vita di tutti i giorni eppure non riflettiamo mai, la usiamo senza riflettere.
(Luca Malvolti)