“L’ecumenismo cammina con piccoli gesti di incontri quotidiani vissuti e compiuti dalla gente,” mi fa Edoardo, giovane studente brasiliano di teologia, quasi contando i suoi passi, “più che con incontri al vertice di grandi personaggi”. Mi ripete l’idea di un suo grande maestro, mentre ci dirigiamo speditamente verso la vicina chiesa, anzi il tempio. E mi parla della bella figura spirituale del Cardinale Newman, uomo dei due bordi, dallo spirito cattolico e anglicano al medesimo tempo. Entriamo in St. Martin in the Fields, chiesa anglicana nel cuore di Londra. Colpisce subito una vetrata centrale di rara bellezza per la sua nudità, segno del clima di interiorità che vi si respira all’interno. Così, poco dopo, sorprenderà il trovarsi immersi nel canto corale di tutta un’assemblea, i momenti intensi di ascolto della Parola, i brevi e ispirati interventi del pastore. Attimi di silenzio densi di mistero seguono ogni volta, con grande naturalezza. Sorprende qui il senso forte della Parola di Dio. Essa parla la lingua del popolo non da cinquant’anni come da noi, ma ben da cinque secoli, forgiando gli spiriti e le mentalità. All’uscita ci attende una stretta di mano del pastore-donna, mentre sguardo spirituale e sorriso fraterno vi incantano in lei. Siamo in un altro mondo, è vero. Questo gesto di saluto finale ad uno ad uno è qui una tradizione, anche per i cattolici. Non ci si rinchiude come da noi in sagrestia. Il pastore prende il tempo di salutare ognuno, di accarezzare un bambino o di trasmettere un rapido messaggio, alla porta d’uscita o sul sagrato. “Quanto è bello questo contatto!”, mi fa ancora Edoardo, sensibile ai piccoli passi.
Così, giorni fa, camminando nel bel quartiere Mayfair ci sentivamo magicamente attrarre dal canto di una chiesa. Entrando ci troviamo accolti da tutto un popolo compostamente riunito per un funerale. Ed è, allora, la scoperta di un grande momento di vita della cattedrale ucraniana “Holy Family in Exile”. Seguiamo l’invito interiore a sederci con loro, lasciandoci trasportare da antichissimi canti dalla cadenza ortodossa dell’Europa dell’est. “Quanto deve essere bello morire e sentirsi cullare dai canti dalla propria terra, quella che lo ha visto nascere!”, mi ripeto silenziosamente tra me, mentre ci accompagna un ritmo suggestivo, sinuoso e polifonico. Ed è quella sensazione che vi resta attaccata alla pelle e allo spirito tutto il giorno, quando incontrate una terra sconosciuta. Ancora un’occasione di avvertire un amore più grande per la cultura e le radici a cui si appartiene, che sanno però aprirvi all’altro e ad altri mondi. Così è per ogni migrante: “Solo chi ama la propria cultura fino in fondo riuscirà ad amare quella dell’altro”.
Siamo entrati allora nel museo ebraico della città. Ed era come mettersi a camminare sulle orme di un popolo mai stanco della sua itineranza infinita sulle strade d’Europa o del mondo. Anche se ciò, forse, può produrre oggi quell’ansia incredibile di sicurezza tale da far costruire il muro più moderno e forse inutile esistente ai nostri giorni. Quasi un ghetto - una nemesi storica - fabbricato con le proprie mani. Non si vive oggi di muri, ma di frontiere porose che permettono l’incontro con l’altro, differente da noi. È il vero senso dell’identità per un individuo o per una nazione. Sembrava qui proclamarlo in modo originale un’enorme scritta su una parete bianca del museo: “I am british and jews, jews and british!”. Un’altra accanto le faceva eco: “Essere ebreo è la maniera di capire che cosa significa essere una minoranza nel mondo”. E questo porterà, forse, a comprendere un giorno le situazioni simili alla propria, ad amare tutte le minoranze della terra...
Attraverso le varie sale scopriamo l’apporto di una comunità religiosa immigrata nella Londra di ieri e di oggi. Si ammira il giovane volto di Boris, fotografo ebreo appena ventiduenne, arrivato ai primi del ‘900 dalla Polonia, incontrando un successo immediato con le sue foto di coppie, rivestite come star di Hollywood. Ogni domenica una trentina era sempre in attesa davanti al suo studio per questi istanti di magia e di dignità in una vita dura di emigrazione. Si ammira, poi, il teatro yiddish con storie di vita quotidiana di ebrei dal sapore biblico, unico loro diversivo settimanale. “Sollevava il morale agli emigranti - vi precisa la didascalia - che vivevano qui lunghe e pesanti giornate di lavoro”. Vi troverete, anche, esposto con fierezza il ritratto di Benjamin Disraeli: in lui la comunità ebraica seppe dare all’impero britannico uno straordinario primo ministro.
Qui ancora si incontra la storia di diecimila bambini ebrei arrivati dall’Europa negli anni ‘38 o ‘39 e che mai rivedranno le loro famiglie. Infine, si entra nell’insieme di riti e di tradizioni ebraiche, presentati in maniera viva e concreta, tanto da invitarvi ad indossare alla fine il vestito tradizionale e la kippa, per una foto. Sì, sottile e meravigliosa maniera di entrare nella cultura dell’altro. Si percepisce, in fondo, l’alto valore di una sinagoga come fulcro della comunità ebraica: luogo di preghiera, di culto, di educazione e di eventi sociali. Ma non manca di emergere il senso stesso del cammino degli ebrei per ogni popolo: “Pasqua è la storia universale del passaggio dalla schiavitù alla libertà.” La frase si staglia in grande evidenza sulla parete: si intuisce quanto oggi sia vero per lo stesso popolo arabo!
Momenti questi di ecumenismo quotidiano, come ricorda Gibran: “Dio ha creato la verità con molte porte, per accogliere ogni credente che bussi.” In fondo, è capire quanto sia vitale conoscere il cammino fatto da altri, apprezzarne le scoperte, ammirarne i valori differenti. Solo così un essere umano potrà oggi crescere in umanità.
(Renato Zilio - dal sito www.laperfettaletizia.com)