Filippo Re nei suoi viaggi agronomici iniziò a divulgarlo due secoli fa. Siamo seduti su un giacimento agroalimentare capace di fare impallidire la meccatronica e i ponti di Calatrava messi assieme, e la montagna fa la sua parte.
Se ne parla al mondo anche su internet, in un crescendo di fama degno di don Camillo e della Ferrari: l’agronomo reggiano, oggi, visitando borghi e aziende lo scriverebbe con entusiasmo sia su Twitter che su blog. Proviamo con Facebook, il più noto dei social network: scrivi Parmigiano Reggiano e trovi diverse sorprese. Naturalmente non leggi dei monaci che, invece, da queste parti, qualche merito lo hanno pure avuto nel produrre il primo formadio il padre del Parmigiano Reggiano: nel 1159 (pergamena canta), con buona pace dei cugini di là dall’ Enza che, pure, nella rete tanto si arrabbiano.
Sono quasi un migliaio i gruppi o i profili dove compare il nome del Parmigiano Reggiano. Trovi giovani che divulgano nel mondo delle relazioni virtuali il nome dell’azienda o del caseificio, quando invece nel Trecento solo per arrivare in Toscana e Liguria occorreva passare crinali, dazi e pericoli.
Non ci vuole molto, nel web, a scoprire quello che i buongustai già sanno. Si può scegliere tra diverse qualità tutte prodotte nella nostra provincia. C’è quello delle vacche rosse primigenie (arrivate al seguito dei Longobardi e tenacemente allevate da un manipolo di stoiche aziende) e quello biologico; c’è quello di montagna (ma a fatica troverete i produttori nell’alto crinale, dove resta una sola latteria) e quello di bruna. Per tutti, comunque, c’è il Parmigiano Reggiano che, vivaddio, non solo è il principe degli alimenti nutrienti. E’, infatti, elemento capace di esprimere turismo: con le sue cattedrali, giustamente meta di un mai contato e sano turismo agroalimentare. Diversi agriturismi su internet si raccontano per la vicinanza a caseifici in cui fare visite guidate.
E su Facebook si discute, anche, di facezie. Quattrocento persone vogliono uccidere il topo di una nota pubblicità, ma più attentamente c’è chi si interroga sul formadio arrivato, finalmente, anche nei Mc Donald. Folclore, certo, ma anche pubblicità spesso gratuita, promozione al passo coi tempi, cultura in un nuovo mondo.
Stessa sorte per il Lambrusco, vino del quale un certo Ligabue, il rocker più famoso, ha deciso di citare anche nel titolo di un album di successo. Come lui un certo Francesco (al secolo Guccini), ha convinto Carlo Petrini, fondatore di Sloow food, che, sì, il Lambrusco è un ottimo vino e Bacco, il dio, non è morto. Su Facebook basta un nome, una foto, e qualche bella curiosità: la somma fa 85.000 fan, a costo zero. Non a caso il vino con le bollicine è quello più esportato negli Stati Uniti e, di recente, scopriamo che nella regale catena di Harrods, a Londra, il Lambrusco (made in Reggio, naturalmente) è collocato negli scaffali accanto allo Champagne. Val la pena ricordare il nome esatto delle due denominazioni d’origine controllata locali: il Reggiano e i Colli di Scandiano e Canossa. Anche per questo Re da bere, il rinnovato apprezzamento, a volte sconosciuto solo a noi reggiani, ha ancora una volta, un segreto: il legame con la terra. Tanto che, una certa uva, la Ancellotta, è richiestissima per colorare altri rinomati vini, ma non lo si può fare né dire. Nella nostra provincia, così, abbiamo il colore che, molto, fa rima con sapore e cuore. Tipico, naturalmente.